Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 26
CAPITOLO VENTESIMO. LA CONGIURA
Da chi mi fido guardami, Dio;
Da chi non mi fido mi guardar io
Iscrizione nei Piombi di Venezia
«Chi mi soccorre?» languido richiedeva Rogiero. rinvenendo dal lungo deliquio; «chi mi soccorre?»
Nessuno rispondeva alla pietosa domanda. Lo sventurato stette prosteso senza ardimento di aprire gli occhi, come colui che si avvisava di schiuderli a nuovi dolori: già troppi erano i sofferti; – se avessero avuto forma di cosa che si tocca, se fossero stati fuori di lui, avrebbe avuto coraggio di levarsi, e stringersi con essi a mortale combattimento; ma vivevano tormentando giù nel profondo, nè egli si sentiva forza di soffocarli là dentro, e l’anima con loro: inerte gemeva sotto lo insopportabile peso, e quantunque il pensiero rifuggisse dal distinguere la serie dei casi avvenuti, nondimeno lo spasimo di tutti gli gravitàva sul capo. Per la terza volta, e con voce più sonora ripeteva: «Chi mi soccorre?» La voce si perdè lontana, senza però che trovasse nello spazio percorso nessuno ente compassionevole, che valesse a rompere lo spaventoso silenzio: allora sollevò lento le palpebre, – da per tutto buio; – stese le mani all’intorno, – le agitava nel vano.
«Potevano uccidermi, ma la morte parve poco ai feroci: – eserciti prima la sua tirannide l’angoscia del corpo, – la eserciti più affannosa l’angoscia dello spirito, – si uniscano le angoscie delle quali mi circondò la Natura a quelle che mi hanno apportato i miei simili, e trionfino… a poco a poco però, – non sia trafugato un atomo a quello che devo soffrire; ogni trafitta abbia il suo grido, – non si confondano, – stieno distinte, – ogni puntura il suo spasimo, – muoriamo intera la morte… questo è veramente da uomini!»
Piegava la faccia, e mormorava fiere parole. Dopo assai tempo tentò il luogo di nuovo: questa volta le mani s’incontrarono in qualche oggetto; lo prese, – era un osso di morto, – se lo strinse al petto come uno amico, lo palpò per ogni lato con la gioia della madre che va lisciando i bei capelli del primo frutto di amore; poi la mano gli cadde giù abbandonata, e la bocca consentendo a quell’atto di tristezza susurrava: «Già! – le ossa della vittima saranno sepoltura alle ossa della vittima!» e dopo ritoccando l’osso: «Forse tu fosti più infelice di me, chè l’unica cosa concessa ai mortali senza misura, che possono percorrere senza fine, è l’amarezza… presente degno di lui che lo ha dato, e di noi, che lo dovevamo patire: – forse tu avevi padre, che versò lacrime molte, e non sopra la cenere del suo figlio; forse madre, che andò insana cercandoti di cimiterio in cimiterio per dire una preghiera su la tua fossa, nè la rinvenne…»
Certo questa meditazione si addentrò più oltre nelle viscere, se non che fu di tanto travaglio, che le labbra non la poterono altramente articolare. All›improvviso percuotendosi la fronte aggiungeva: «Ed io non avrò Yole? – se sopravvive…» Non aveva ancora finito, che la tempesta scoppiò sul castello: egli giunse le mani, e le alzava supplichevole al cielo; poi, quasi stimasse quell›atto mal conveniente, sorgeva per prostrarsi; le sue ginocchia percossero sopra il petto di uno scheletro, e le costole gli si spezzarono sotto con tale scricchiolio, che parve lamento; nè per questo mutò luogo, anzi togliendo occasione dal caso si pose a scongiurare: «O forza che distruggi, intendi una volta il mio voto, – voto di creatura vicina ad esser distrutta, proferito su l›altare della distruzione: l›esperimento dei secoli ti ammaestra, che la terra invecchia di anni, e d›infamia; che più schifoso di figlio in figlio si trasmette il retaggio della colpa; che ormai non v›ha luogo innocente ove il giusto potesse far la preghiera, non pietra che non abbia sostenuto la testa di un trafitto, non zolla che non sia sparsa di sangue invendicato; illumina la luce le stragi manifeste, nascondono le tenebre la perfidia occulta: tutti a nostra posta siamo destinati ad esser traditi, e traditori… Se la donna, che con la prima colpa chiamò sopra il suo capo e sul nostro la morte, fosse risuscitata alla vita, e dalla sponda del sepolcro vedesse i fatti dei feroci che uscirono dal suo fianco, si coprirebbe spaventata con la lapide invocando di morire un›altra volta. Già i nostri padri convennero in campi scellerati a trarre diletto dalla soffrente natura, e applausero a fraterni omicidi; ma i nostri padri furono detti barbari: raguna dunque, tu che lo puoi, tutte le tue tempeste in un punto; abbandonati nel tuo furore sopra la creazione, – tra i frantumi dei mondi che la sovrastano sia sepolta la terra, – —distruggi l’uomo, e la sua memoria; – il solo momento nel quale ti potremo lodare sarà quando la vita, che muore accolta su l’estreme labbra, aspetta un sospiro per volare là dove stanno le vite che devono nascere; e se non puoi sopportare sola la tua eternità, e se godi ad essere esaltata nelle preghiere, e negl’incensi, deh! non creare, ti scongiuro, non creare più la belva che ha la ragione…»
Riferiremo più innanzi le parole di quel travagliato? Noi pensiamo che già troppe sieno le riferite per dimostrare quanto la sua niente aberrasse dal dritto cammino, e come angustiato da soverchio dolore, divenuto cieco dell’intelletto, trascorresse con empio, o, per dire più rettamente, con istolto consiglio, a bestemmiare più tosto che a supplicare quel solo che potea sovvenirlo.
Poichè ebbe consumato le querele, si pose di nuovo a giacere sul terreno, e disperatamente tranquillo stette ad aspettare la morte. Così trapassarono di molte ore, allorchè un mormorio confuso percosse il giacente, e lo fece balzare da terra, e porgere le orecchie in ascolto; gli parve che non fosse lontano, e si partisse dall’alto: «Forse non è che dentro il mio capo!» esclamò Rogiero, e si toccò la fronte: ma la fronte sentì fredda: si pose con maggiore attenzione in ascolto; – e’ v’era certo un sussurro. Sorgeva brancolando con le mani tese, tentando con un piede il terreno, mentre su l’altro appoggiava la gravità del corpo; si dirigeva là, d’onde gli era sembrato che il rumore derivasse: in proporzione, che si accostava, il sussurro cresceva, e sembrava di voci umane, sebbene le parole non suonassero distinte; s’inoltrava più ardito; – adesso cominciava a diminuire; – rifece i passi, e mise ogni attenzione a conoscere il luogo: instando nella ricerca, gli venne fatto trovare ch’ei passava di sotto a certa scala, che appoggiata sopra un mezzo arco toglieva principio dalla parte superiore dell’edifizio, distendendosi per assai lungo tratto sul pavimento della carcere. Eccolo a piè della scala; – ell’era angustissima, e senza sponde; – saliva cauto esplorando con le mani; trovò a capo di quella un ponticello, anch’esso senza sponda, sul quale essendosi spinto alla ventura entrò in certo corridore, che lo condusse avanti una porta, fortemente sprangata: pareva che fosse notte, perchè dalle fessure della porta veniva tal luce di legno infiammato, che i suoi occhi assuefatti al buio non poterono da prima sostenere; spiando il luogo donde meglio osservare, trovò poterlo fare a grande agio, là dove la porta mal commettendo agli stipiti lasciava sufficiente spazio. Vide raccolte in giro circa quaranta persone, le quali, quantunque vestite con abiti volgari, riconobbe immediatamente, come quelle che aveva in pratica, per essere la più parte gentiluomini del Re Manfredi: adesso stavano muti; se non che ora questi, ora quegli, volgeva gli sguardi dubbiosi di una cotale impazienza verso la porta che stava di faccia a quella per la quale guardava Rogiero.
«E sì che l’ora è passata!» sovente diceva l’uno all’altro; e a vicenda domandavano: «non fissarono a tre ore di notte il convegno?» e rispondevano: «sì.»
Un rumore di passi parve di mano in mano avvicinarsi: i Cavalieri fremerono; nessuno di loro rimase seduto; con gli occhi fitti su la porta anelavano vedere chi fosse per comparire; non comparendo però così subito. molti mostrarono un baleno di fuga, i meno trassero il pugnale, incamminandosi risoluti, e questi furono meglio paurosi, comunque quell’atto potesse accennare il contrario. Si schiuse la porta: un Cavaliere bene avviluppato entro il mantello, con barbuta da soldato in testa. si avanzò nella sala; – a considerare quello scompiglio di paura, quei ferri levati, rise forte, aprì il mantello, si mostrò coperto dal capo a’ piedi di grave armatura, e: «Riponete i pugnali, Baroni,» disse loro «o che ne troncherete le punte.»
«Oh! siete voi! « esclamarono tutti «non era senza ragione il sospetto, perchè non ci avvenne mai, da questa volta in fuori, aspettarvi, Conte.»
La voce del sopraggiunto non suonò ignota a Rogiero, che tese con maggiore attenzione lo sguardo, e colui avvicinandosi al fuoco gli concesse abilità di riconoscere nelle sue sembianze il Conte della Cerra.
«Voi dite vero,» riprendeva il Conte «ma l’uomo più si avvicina agli ultimi fati, più si restringe con noi, e questa nuova fiducia già da nessuna altra cosa può derivare se non che dalla Provvidenza.»
«Dite santamente; Conte: dove è rimasto il vostro Signore?»
«Qual Signore?»
«Il Conte…»
«Ah! questo è ciò che stava per dirvi, Messeri: lo trattiene l’uomo per concertare con lui su le difese del Regno: io vengo in sua vece, nobilissimi Baroni, ad esporvi lo stato delle cose; tanto basti per ora: le disposizioni per quello che ha da nascere noi non potremmo stabilire adesso, perchè, come ben vedete, non siamo una volta tanti di quelli che dobbiamo essere, e manca colui che è, o almeno si dice, nostro capo. I nostri amici convocati con i rimanenti Baroni del Regno per la prossima assemblea giungeranno, per quello che ho saputo raccogliere, tra questa notte e il giorno venturo; però in questo medesimo luogo, se nessuno si oppone, potrete riunirvi, o Messeri, la notte del posdomani.»
«Salvo malattia,» risposero i congiurati «vi promettiamo intervenire.»
«Or dunque importa che sappiate essere giunte le nostre lettere a Monsignor Carlo, ed averle avute sopra ogni altra cosa gradite; confortarci alla impresa il Pontefice, e il Conte: quegli prometterci ogni soccorso spirituale, che a dir vero nei casi presenti non gioverebbe gran fatto; questi prometterci i suoi eserciti per sostenerci, e privilegii e franchigie per ricompensarci. Queste sono le lettere che un segretissimo messo fino da ieri notte ci ha recate di Roma: lasciamo, se vi aggrada, Baroni, quelle del Papa, sì perchè poco rilevano, sì perchè il tempo stringe, nè posso senza sospetto starmi troppo tempo lontano di corte: leggiamo quelle di Monsignor Carlo.»
Nessuno potè rimanere fermo al suo posto: sospinti dalla curiosità si affollarono intorno al Conte della Cerra, che trattesi alquante carte di seno, e tra queste sceltane una la spiegava leggendo: «Carlo etc. etc., ai nobili Baroni rappresentanti il Reame di Napoli, sì come componenti una sola università, e ad ognuno distintamente, salute. Noi non sappiamo, nobili Cavalieri, se più con noi stessi ci dobbiamo rallegrare, o con voi, che muovendoci l’autorità della santa Chiesa, e più la nostra naturale affezione, al soccorso di tutti que’ Cristiani, che sotto il peso di una empia tirannide gemono miseramente avviliti, voi bene sapeste apprezzare il vostro tristissimo stato, e la purezza delle nostre intenzioni, onde, più tosto che a contrastarle, vi profferite pronti per quanto sta in voi a secondarle. Nè questo sia per suonarvi amaro, perchè sapete la servitù ammalare il cuore, appassire la mente: voi però dotati di eccellente natura sapeste con singolare esempio, valorosi Cavalieri, serbare, in tempi luttuosissimi, sani ed interi ambedue. Se da prima pertanto, dovendo noi maggiori cose compire, speravamo maggiore gratitudine ricavarne, adesso, poichè piacque a Dio accordare i nostri pensieri, ne conseguiremo più grande sicurezza. Qualche cosa è sempre mestieri rimettere nella pratica degli umani casi; e poichè questo sia decreto inevitabile, noi ci reputiamo avventurosi doverlo rimettere di gloria nostra, piuttosto che di sangue cristiano e tradito…»
«Queste gonfiezze» interruppe un vecchio che Rogiero non potè riconoscere «non fanno bene all’anima, nè al corpo; e’ si vede che viene da Roma cotesta lettera, e sa di stile di Bolle… andiamo al buono, se vi piace, Conte Anselmo, andiamo ai patti.»
«Come vi piace:» rispondeva il Conte della Cerra, ed omettendo due o tre pagine continuando leggeva: «Già conosce il mondo se la Casa di Francia soglia taglieggiare i suoi vassalli, se ami, o no, conciliarsi il rispetto del popolo, l’amore dei Baroni, la benevolenza di tutti; sa il mondo s’ella proceda cupida dell’altrui, intemperante, inquieta e codarda…»
«Questi sono elogi, Anselmo, non sono patti;» interrompeva di nuovo il vecchio.
Il Conte Anselmo bisbigliando prestamente la lettera pervenne quasi alla fine; allora, facendo distinta la voce, disse: «Ecco quello che promette. – La nostra gratitudine non dubitate che non sia per essere adeguata a tanto beneficio: vostre saranno lo principali cariche del Regno, vostre le magistrature, il diritto di approvare le leggi vostro; noi prenderemo dell’autorità quel tanto che ne vorrete concedere, e ci chiameremo contenti; sieno le Regalíe annullate, il diritto d’imporre le taglie tolto dalle prerogative della corona, quello di diminuirle conservato. Ma non volge tempo adesso di esporre tutte le salutari riforme, che per ricondurre la felicità nel vostro dolce paese abbiamo immaginato; elleno saranno quali un padre di famiglia amantissimo può concedere, quali figli amatissimi potranno sperare.»
«Ahimè! ahimè!» esclamò per la terza volta il vecchio «guardate, di grazia, s’ell’è spedita dalla Dateria Apostolica sub anulo piscatoris!»
«Udite il fine:» con súbita stizza, che volse immediatamente in riso, rispondeva il Cerra: «Inutile, e per avventura ingiurioso, – ingiurioso – sarebbe assicurarvi il pacifico possesso dei vostri castelli, terre e privilegii; sì bene non pure sperate, ma abbiate per fermo, che intendiamo ampliarvi di dominii e di ogni specie di concessioni, con le quali un figlio di Francia può dimostrare la sua riconoscenza a fedelissimi…»
«Tregua agli sdruccioli, Conte,» disse il vecchio «e ponete mente, di grazia, all’estrema sentenza della lettera di Carlo: ei si sconciava all’ultimo, come sogliamo dire; a mal grado delle belle proteste, certa cosa è che le sue intenzioni sono di spogliarci.»
«Come?» domandarono molti.
«Oh! ell’è chiara: egli afferma di volerci ampliare di dominii; ora siccome le Baronie non le porta di Francia, si fa manifesto che per dare altrui deve togliere altrui…»
«Barone,» interruppe Anselmo «voi fate più maligna l’espressione di quello che suoni: parvi che voglia pensare a togliere, sul punto che sta per acquistare un Reame?…»
«Bella ragione! o che vi dovrebbe pensare al punto che stesse per perderlo?»
«Qualche cosa, Barone, deve darsi alla fede, qualche cosa alla fama, qualche cosa…»
«Nulla. Quando questi» e il vecchio si toccò i capelli «erano biondi, anche io pensava come voi dite; ma voi non dite come pensate, perchè neanche i vostri sono neri.»
«Se la canizie non vi ha insegnato altro che a calunniare la vostra specie, sarebbe stato meglio che voi foste rimasto calvo quando i vostri capelli erano biondi.»
I circostanti risero al motto: il vecchio, imperturbato, lasciò che il riso passasse, poi riprese: «Mi ha insegnato a conoscerla; mi ha insegnato cose, che voi pure sapete, ma che celate, perchè non vi torna manifestarle. A fine di conto, qual guarentigia propone Carlo per la esecuzione delle cose promesse?»
«Guarentigia? Un uomo che entra pacifico in un Regno che potrebbe conquistare, vorrà darne altre di più della sua fede?»
«Fede, e stagione, Anselmo mio, mutano col giorno; e a me non sembra prudente correre il risico della sua volontà. Badiamo dove mettiamo i piedi, perchè da noi si percorre una strada su la quale ritirarci non giova; provvedasi adesso che si può, poi non sarebbe più tempo, anzi il provvedere pericoloso, il lamentarci ridicolo.»
«Io per me non veggo la via di scansare la ventura: quello che soffriamo sotto l’uomo è certo; quello che ci apparecchia Carlo è anche incerto; secondo i calcoli della prudenza umana, parmi che il caso meriti di esser tentato.»
«Così voi mi avete, Anselmo, rotto ogni ragionamento, nè io starò a dimostrarvi, se il vostro pensiero meriti biasimo o lode. Questi medesimi dubbii riproporrò posdimani, perchè se molto odio l’uomo, molto più aborro la infamia.»
«Quella senza guadagno però.» – parlava sommesso il Conte Anselmo. Il Cavaliere non lo intendeva, e proseguiva così: «Intanto mi è forza gemere, non so se debba dirmi su la trista indole della fatalità d’Italia, o su quella dei suoi cittadini, che per liberarsi da un’antica servitù non sanno migliore modo immaginare che una servitù nuova, e rompere una catena col ferro, del quale se ne deve fabbricare un’altra. Quando, quando verrà il giorno, che potremo sollevare al Creatore le braccia libere di ogni segno oltraggioso di signoria straniera?»
«Melanconie, Barone,» riprese il Conte della Cerra «melanconie; pensiamo a dominare; così ab eterno ci ha privilegiati Natura. Ma ora che ci penso, va bene che voi amiate la libertà, Barone; anzi dovreste aggiungere la uguaglianza di averi: non vi fecero vendere i vostri creditori, or fa dieci anni, il feudo di vostra famiglia? State di buono animo, Barone; continuate a mantenere il Principe vostro nipote nelle disposizioni favorevoli a Monsignore di Provenza, ch’egli è tal Re da restituirvi quello che i dadi vi hanno levato.»
«Come! voi credete?…»
«Io non credo nulla…»
«Bruci l’anima mia…»
«Amen. Saranno sincere le cose che esponete, ma la stagione corre contraria. Andate persuaso, Barone, che uomini più sapienti di voi, e di me, hanno pensato a questo: miseri! le meditazioni loro si conchiusero in gemiti, e desiderii; le opere con volontarii esilii, o con morti costrette.»
«Sarà quel che volete, Conte; pensate come meglio vi pare dei miei attuali sentimenti, ma io spero di vedere quel giorno.»
«E quando lo sperate voi?»
«Quando deposta ogni privata passione, quando dimesso ogni particolare interesse, concorderemo…»
«Allora non verrà mai per noi, perchè saremo disfatti: levateci l’interesse da dosso; che cosa ci resterà?»
Più ed altre cose si aggiunsero per una parte e per l’altra, le quali lasceremo sì come poco importanti al proposito. Alla fine il Conte della Cerra, levatosi in piè, tolse il mantello, e facendo mostra di andarsene disse ai congiurati: «Non v’ha negozio tanto difficile in questo mondo, che tenacemente volendo, e discretamente operando, non si conduca a buon fine. Vi tengo per salutati, Baroni; ormai troppo sono dimorato lontano di corte per ovviare il sospetto: spero in appresso che non vi impazienterete ad aspettarmi, Messeri; addio, dividiamoci con le solite cautele.»
Seguiva un salutarsi circospetto; fu spento il lume, ma dal rumore dei passi di tanto in tanto più lontano si accôrse Rogiero che si partivano: soprastava anche un poco, e quando si fu assicurato che non vi era più alcuno, si mise a scuotere la porta con lo sforzo di un uomo che perduta ogni altra speranza riponga la sua salute nella esecuzione dell’ultimo tentativo; s’ingegnò in tutti i modi; maravigliosi, ed appena credibili, furono i suoi sforzi; pure, se molta era la sua forza di azione, moltissima gli contrapponeva forza d’inerzia la porta; giunse finalmente a smuoverla; questo però era ben altro che atterrarla; per quanto avesse fatto, assai più del doppio gli rimaneva a fare, e intanto la lena cadde consunta, lo spossamento subentrò alla furia; dalla fronte gli scorreva sudore, dalle mani sangue; sopraffatto dalla disperazione e dalla stanchezza, si lasciò andare. Tornava indietro, – con qual cuore pensi chi legge: – trapassato il corridore, e pervenuto sul ponticello, lo prese un pensiero: – precipitarsi di sotto, e andare a spezzarsi sul pavimento, non sarebbe dar fine ad ogni travaglio, conseguire libertà vera e durevole? Sospeso in questa meditazione, di tanto si approssimò all’estrema sponda, che, per poco più si fosse inoltrato, la sua caduta non sarebbe stata in potere della volontà. – Non così tosto però sorge nel nostro cervello un qualche consiglio, che parimente vi si suscita il suo contrario; ond’è, che se la passione non si prendesse la pena di determinare l’anima incerta a quale dei due appigliarsi, ella se ne starebbe inoperosa. Alcuni filosofi per ispiegare il fatto, poichè negli uomini sia un furore di penetrare tutto, di spiegare tutto, specialmente quello che non può spiegarsi nè penetrarsi, hanno supposto entro di noi la esistenza di due diversi principii, la quale opinione noi non sapremmo biasimare, e lodare neppure, chè pronunciare giudizio intorno cose nè sapute nè da sapersi, la Dio mercè, non sia nostro difetto. Senza affannarci a investigare come il fatto avvenga, il certo è che avviene, e noi ci decidiamo all’uno più tosto che all’altro avviso, non già per via di scelta, ma per inclinazione della volontà precedente alla discrepanza degli avvisi. E di vero, dove non fosse in questa maniera, e l’elezione operasse libera, come preferiremmo il male manifesto al bene proposto? come la vergogna al piacere? come la pratica del vizio alle gentili discipline? Questo discorso, che a molti parrà inutile, abbiamo fatto per la ragione che appena Rogiero ebbe pensato a morire, un altro animo gli disse di vivere, e gli dipinse il suo corpo deturpato da oscena ferita, il cranio spaccato, il cervello sparso, torto il sembiante, le gambe e le braccia cionche, ogni membro disfatto con mostruosa sconcezza, come suole avvenire a coloro che cadendo da alto percuotono sopra le selci: si ritirava atterrito dalla sponda del ponticello, e alla idea di essersi tanto inoltrato fremeva; quasi per sottrarsi alla tentazione si cacciava a corsa giù per la scala: giunto al termine, si pose a sedere su l’ultimo scalino appoggiando la testa alle ginocchia; con le mani si abbracciava le gambe; in questa attitudine molte cose voleva meditare, a moltissime provvedere; pure anche per questa volta l’anima, il soffio, il fuoco, l’ente in somma, che in noi ha facoltà di pensare, non corrispose alla volontà; s’egli voleva costringerlo sopra una immagine determinata, cominciava a deviare entrando sopra immagine corrispondente sebbene diversa, e di una in un’altra procedendo si allontanava dal soggetto; allora lo richiamava Rogiero al punto dal quale si era partito, ma di lì a poco tornava in balía di sè stesso: infastidito il nostro eroe di consumare nel porsi nell’attitudine di pensare quella facoltà che doveva impiegarsi in pensare, l’abbandonava come un cavaliere che non può ritenere il freno del cavallo infuriato; allora si lanciò a guisa di forsennato nei dominii della memoria, dove ogni cosa rovesciando, e confondendo, produsse dei sogni parte ridenti di speranza, parte terribili di spavento irreparabile; gli occhi di Rogiero si chiusero, e le sue membra s’irrigidirono di grave letargo.
Quante ore si rimanesse in quello stato ignoriamo; – dopo un certo tempo i nervi ottici di Rogiero, offesi da un cotal senso di dolore, richiamavano ogni altra sua facoltà agli uffici ordinarii della vita: non aveva però sollevato le pupille, che parvegli udire pronunziare queste parole: «Oh Dio! quanto buio; – sperava vederlo alla vampa delle fiamme: – or come faremo noi? Ma che non è vero l’Inferno esser tutto pieno di fuoco?»
«Madonna,» rispondeva un’altra voce «voi non siete all’Inferno, e qui presso sta colui che desiderate. Intanto, vi prego, non mi stringete sì forte.»
«No, no, finchè non lo abbia trovato, io ti farò così, e peggio, perchè tu me l’hai promesso; e voi altri uomini siete fallaci, ed io non voglio trovarmi ingannata.»
«Santa Maria!» – gridò Rogiero aprendo gli occhi, e súbito richiudendoli, quasi per ritenere più che gli fosse possibile una immagine che reputava sogno; – non ritrovandola dentro di sè, – tentò s’ella fosse veramente esterna o reale. «Santa Maria! « – ripetè il carcerato – « è Yole quella che vedo?»
Yole, avvolta in veste candidissima e schietta, gli stava davanti; camminava lenta; teneva il braccio destro levato stringendo un pugnale, coll’altro preso pel petto un uomo che portava una lanterna, il quale poco si distingueva, spargendo non so se a caso, o ad arte, tutta la luce sopra di lei. Yole all’udire il suo nome si pose in ascolto, come persona incerta d’essere chiamata, ma quando sentì ripeterlo un’altra volta, rispose. – «Chi ti trattiene, Rogiero?» – e lasciò l’uomo, e il pugnale, stendendo le braccia…
Questi erano i secondi amplessi di que’ due infelici, destinati a confortare nella travagliata loro vita con le apparenze di un bene, che non dovevano godere, la mole dei tormenti che dovevano sopportare. Miseri! che dopo tanti giorni di lontananza non potevano, nè sapevano favellarsi che per via di singulti, e consolarsi che colle lacrime sole. Stavano abbracciati; l’amore li blandiva con le lusinghe della voluttà, – voluttà misteriosa, affatto distinta da ogni altro desiderio. Rogiero all’improvviso vide mancare la luce; – se gli fosse mancata la terra sotto, non se ne sarebbe accorto, tanto era immemore di sè in quel punto; ma si accôrse, del difetto della luce, perchè gli rapiva la vista di quel volto dal quale toglieva conforto dei passati affanni, pe’ futuri costanza. Guardò attorno pauroso: – l’uomo che aveva scortato Yole si era pianamente fatto discosto; adesso stava per trarre a sè la porta, lasciando con nera perfidia i due amanti imprigionati: – si sciolse Rogiero dalle braccia dilette, e, fosse la sua maravigliosa celerità, o più tosto la mano del carceriere tremasse pel misfatto che stava per commettere, giunse a tempo per impedire che la chiudesse: volle quel tristo, da che l’opera non gli era riuscita, trovare scampo nella fuga; ma di breve raggiunto, fu in molto dura maniera stretto alla gola dall’inseguente Rogiero, e strascinato, anzi che condotto, di nuovo nella prigione: qui togliendogli la lanterna di mano, e volgendogliela al viso, riconobbe in lui il pellegrino; non disse motto; abbassando gli occhi, gli venne fatto di vedere la lama luccicante del pugnale, che Yole aveva lasciato cadere; lo prese, stramazzò il carceriere per terra, gli piegò le ginocchia sul petto, gli afferrò con la manca i capelli, con la destra si apparecchiava a rompergli la gola. La vergine di Svevia, rimasta come stordita fino a quell’atto, si scuote di súbito, e cacciando altissimo grido si slancia a ritenere la mano di Rogiero, e: «Scellerato!» gli disse «pensi che io sia per lasciarmi toccare da mani contaminate?»
Rogiero levò la faccia, e guardò Yole, – poi il carceriere, – di nuovo Yole; – ella lasciava libera la mano dell’amante. – Rogiero comprese l’atto, si alzò in piedi, e calpestando il tristo che giaceva: «Vivi,» gridava «vivi a più atroci misfatti, a morte più infame.» – Senza porre tempo tra mezzo si ripose il pugnale nella cintura, prese le chiavi, e passando il suo nel braccio di Yole, aggiungeva: «Vieni, bella infelice, che l’innocente può solo trovare salute nella fuga.»
Partivano frettolosi. Il carceriere, sebbene fosse tutto rotto nella persona, si alzava, e avventandosi alla porta gli scongiurava per Dio che lo menassero, od altramente lo finissero, perchè rimanendo colà sarebbe morto di fame: non lo ascoltavano; anzi Rogiero percotendolo nel petto lo respinse indietro, e gli ultimi suoi gemiti si confusero nel cigolío che fecero i catenacci avvolgendosi dentro gli anelli. Di lui non racconta più oltre la istoria: molto tempo dopo, sotto il regno di Carlo II lo Zoppo, essendosi
demolito quell’antico edificio per ordine del Legato della Santa Sede signora di Benevento, furono trovati entro un sotterraneo due scheletri, uno dei quali stringeva tuttavia co’ denti parte della mano destra; certo segno, che la fame infuriando nelle sue viscere lo aveva stretto al miserabile bisogno di trovare alimento nelle proprie membra: – questo supponiamo che fosse lo scheletro del carceriere.
Yole e Rogiero camminavano senza sapere dove per l’ombre della notte; tenevano le braccia intrecciate, le mani soprammesse, senza stringere però, – senza tremare, – in silenzio, – a passi uguali.
«Io l’ho chiamato» cominciava Yole, come se parlasse a sè stessa, «col primo raggio della luce che nasce, avanti il saluto del Signore; io l’ho chiamato coll’ultimo raggio del giorno che muore… almeno avesse risposto al bramoso domandare: – la mia vita contristata d’ignoto dolore scorreva per una fitta caligine… egli mi apparve lucido come l’angiolo della grazia, – mi svelò la rovina, e sparve come il baleno della procella.»
Sogliono gl’Italiani tutti, scaldati da troppo tepido sole, e per altre ragioni che adesso non fa mestieri qui esporre, essere inchinevoli nelle parole, e negli scritti loro, a certo stile figurato che per adoperarsi in ispecial modo nelle parti di Oriente, appellano orientale; principalmente poi i Napolitani ed altri abitatori delle più calde contrade, se qualche passione, o lieta o trista, li commuova di straordinario incitamento: però nessuno, spero, sarà per trovare manierato, o contorto, il colloquio che tennero in quella notte i nostri due amanti.
«Nè io» rispondeva Rogiero, e le premeva la mano di lievissimo tocco, «nè io avrei potuto ascoltarlo: lo spazio tra la tua bocca, e il mio cuore, occupavano la perfidia degli uomini e la maledizione di Dio; – la maledizione di Dio, perchè la colpa mi flagellava alla colpa, e in quel momento si sacrificava alla infamia un’anima contaminata.»
«Quando diffonde il sole i tesori della luce, quando il firmamento annunzia la gloria del Creatore, ti chiesi al cielo con la più fervida prece di una anima che geme; – il cielo non ascoltava la supplichevole. Nel turbine della notte, tra il fischio dei venti, tra il fragore dei tuoni, con le ossa dei defunti, col sangue umano, con sacrileghi riti, io ti chiesi… allo Inferno, – Dio eterno, rimettimi il peccato! – allo Inferno: – tutto fu sordo alla sventurata!»
«Me felice, in qualunque luogo mi avesse collocato la giustizia, o la grazia, purchè libero dalla fossa delle bestie feroci, che si chiamano uomini!»