Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 27
«Dove fosse andato il tuo spirito non sapeva, ma ti lagrimava morto: là nei giardini di castel capuano… presso alla fontana… tra la porta e il viale…»
«Dove nella notte destinata…»
«Mi svelasti il tuo amore, e ti furono facili le orecchie della vergine sveva, là deve essere un monticello di terra… queste mani lo inalzarono… sopra vi sta fitta la croce, che la figlia di mio padre, Gostanza, mi appese al collo innanzi di partire per Arragona; quivi ogni notte io invocava l’anima tua.»
«O misera! come hai sopportato tanta giornata di dolore?»
«Come? E tu non sei stato lontano da me? non mi avevi tu pure perduto? Se per saperlo ti fa d’uopo che io te lo dica, torna inutile dirtelo, tu nol sapresti giammai.»
«Io ti sapeva pur viva, ma…»
«Io traboccai sotto il peso, le fibre dell’intelletto si ruppero, ed egli imperversò senza freno per le membra scomposte: solo in questa notte dopo un tempo assai lungo riprendo la volontà, – se pure non è illusione,» qui strinse due volte la mano di Rogiero «e più della gioia di esserne liberata» aggiungeva «è potente il timore di ricadere nel delirio.»
«Oh! non dirlo, io ne morrei di dolore: – parla, bella infelice, quale angiolo ha condotto i tuoi passi nel carcere del tuo povero Rogiero?»
«Tutto era guasto, sana soltanto la parte che rispondeva al tuo nome: udii Rogiero. – io non mi sovvengo più oltre… mi svegliai tra le tue braccia.»
«Si amavano tanto, diranno i futuri, e l’amore fu indarno…»
«Indarno!»
Rogiero non rispondeva.
«È egli amore quel tuo che abbisogna del sacramento, affinchè non si sciolga? che cerca il suo premio nel piacere, come l’operaio la mercede? S’egli è così fatto, tu amasti indarno… io ebbi tutto quello che l’amore può dare, quando le mie labbra si accostarono alle tue.»
Rogiero, traendo soavemente il suo braccio di sotto a quello di Yole, glielo cinse al collo; con la manca le prese la destra, e se l’accostò alla bocca: Yole gli pose le dita della mano rimasta libera tra il volume de’ bei capelli, e mesta mesta li baciò.
«E sia questa» proseguiva «la corona dell’amore su la testa condannata…»
«Condannata!»
«Chi sa quanti, anteponendo il guadagno al riposo, ti cercano adesso di terra in terra! chi sa quante avide donne pregano i Santi, affinchè i vaghi, o mariti loro, conseguano il prezzo del tuo sangue! quante speranze, quanti timori pendono dalla tua testa! Fra te, e la fiera del bosco, non corre altra diversità, che per te il premio è maggiore.»
«Ahi sventura!»
«Nè alcuno ti difese, la pietà stessa tacque, la sentenza…»
«Qual sentenza?»
«Di ribelle del Regno, di traditore del tuo Re…»
«Santa Maria!»
«Saresti innocente?»
«Posso esserlo? non sono seme di Adamo?»
«Dico del tradimento?»
«Non sono…» Yole si scostava. «Sì via, allontanati,» proseguiva Rogiero con impeto «sprezzami tu pure. aborrimi, unisciti ai tuoi simili… ecco la pietra, scagliala sul misero… tutti così! Se tu sapessi che fu finta una vittima per vendicarla… un colpevole per punirlo… una pietà di figlio… un fratricidio… se tu sapessi che il destino mi costrinse con voci sconosciute, che parevano partirsi da spiriti abitatori della terra e dell’aria… che dirigeva i miei passi alla colpa, come un torrente all’oceano… che comandava fino ai miei sogni… vorresti, figlia della polvere, o potresti condannarmi? Oh! fosse qui qualcheduno che scendesse nel profondo, e librasse i pensieri, e scrutasse i cuori, e si ponesse tra i miei giudici e me; udisse le discolpe, e facesse ragione, – chi contenderebbe alla mia anima il premio della pazienza, chi leverebbe a costoro la pena della stoltezza? Qui dentro» e Rogiero si toccava il seno «non giungono occhi di carne; – il senno dell’uomo è simile alla cenere, i suoi argomenti a mucchi di fango; – il giudice della terra pronunzia la sentenza con ira perchè confonde la colpa coll’uomo, e però gli suona come inguria il perdono, – , come offesa l’assoluzione.»
Adesso un vicino scalpitare di cavalli percuote le orecchie degli amanti.
«Sálvati!» gridava Yole «qualunque tu sii, noi godremo uniti in Paradiso, o ci dispereremo tra i perduti: – io muoio d’amore per te;» e camminavano di gran passo «se ci raggiungono, io ti difenderò… Io! scempia! – può l’innocenza o la preghiera intercedere presso la impassibilità della cupidigia? Gran madre di Dio! ci hanno veduti… senti come corrono… ci stanno sopra… manda, Santa Vergine, chi ci protegga; – ma il Cielo fu da me tante volte supplicato invano, che il meglio sarà affidarci alla fuga… chi giunge a sottrarsi all’ardore della persecuzione? – noi siamo presi.»
«Abbi costanza!» parlò sommesso Rogiero a Yole, vedendosi arrivato dagl’inseguenti; e come quello ch’era animoso, fattosi innanzi alla squadra parlò: «Cavalieri, vorrestemi in cortesia scortare alla dimora del Re, chè, se io non m’inganno, potrei ricondurgli la figlia?»
«Sia benedetto Santo Germano!» rispose il Maestro degli scudieri, che conduceva quella brigata, «è assai tempo che noi la cerchiamo per tutta Benevento. Principessa, la Regina vostra madre…»
«Oh! povera madre mia! andiamo a consolarla: come io possa consolarla non saprei; non v’è vivente al quale io mostri la faccia, che non chini gli occhi contristato: ella pure lo afferma; pensate voi quali saranno i suoi spasimi, se la mia vista le dà conforto.»
«Cavaliere, io vi tengo per salutato: Principessa…»
«No, bel Cavaliere, non posso lasciarvi andare sconosciuto; è forza che veniate meco al palazzo reale, io non voglio defraudarvi in nulla di ciò che la riconoscenza del mio Signore si degnerà compartirvi.»
«Messere, io sono tale, la Dio mercè, che delle buone opere non ho bisogno di altro guiderdone, tranne il piacere che ne deriva.»
«Ed io ve lo credo di leggieri, bel Cavaliere; ma la gratitudine non si mostra soltanto con le gioie e con gli ori…»
«Nondimeno…»
«Egli è impossibile…»
«Ma…»
«Ve ne prego in cortesia… non ricusate; salite il mio destriero, ch’io per me devo accompagnare la Principessa, nè potrei convenientemente tôrla in groppa.»
Rogiero, considerando che dalla insistenza male gliene sarebbe potuto derivare, seguiva il consiglio del Maestro, il quale ordinò alla sua gente che per alcuno spazio si allontanassero. Così andarono forse cento passi, allorchè la mente di Yole, ripensando ai tanti casi avvenuti in breve ora, nè potendone sostenere la intensità, nè spiegare come avessero avuto principio, tornò sul vaneggiare più ferocemente di prima.
«Maligno!» diceva al Maestro che la menava «tu mi hai ingannata con le belle parole; tu mi conduci a vederne il supplizio; non poteva morire senza di me? che giova questo incremento di crudeltà? non parli, – ti confondi; – non sai difenderti? – Non ti chiedo la sua vita, perchè è consacrata alla tua avarizia… solo non condurmi a vederne la morte.»
«Principessa, io vi conduco da vostra madre, su l’onore di Cavaliere.»
«Ed osi favellare? Taci, non dire lo spergiuro… dì che vuoi essere spietato… ti crederò… non posso nuocerti… mentirti onesto non può giovarti… quanta gente!… che folla!»
«Dove?» – domandò il Cavaliere; e si voltava attorno.
«Quanta gente accorre su la piazza, nè ve la tira senso di misericordia… non credere… lo finge… ma ella è stolidamente curiosa, pronta a ridere sul colore del sangue, come a piangere alla vista della scala che mena al patibolo…»
«Ma noi adesso ci troviamo in Via San Salvatore.»
«Ella è una solennità… suonano le campane, nè si sa perchè; forse a chiamare Dio in testimonio… rimanetevi, state in silenzio… guai se lo vede!… Guarda il carnefice! tiene gli occhi bassi in segno di modesta compassione; ma non vedi tralucervi dentro un baleno di malignità, una gioia di stendere il braccio, e distruggere? su le sue labbra suona la parola di fratello; ma non iscorgi un sorriso indefinito agitargli i muscoli con la convulsione del tripudio?»
«Principessa, non vedete che è notte? e queste faccende non si fanno al buio.»
«Bella pietà! il paziente ascende le scale… questa è l’ora trascelta per favellare di amore alla donna rigidamente guardata dal geloso marito… adesso due feroci per meglio vedere come si punisca il delitto vengono a contesa, e commettono un altro delitto… silenzio…»
«Sono tutti a dormire.»
«È la preghiera per colui che deve passare; preghiamo prostrati… preghiamo… è finita… ha padre? madre? figli ne ha? – io non posso sopportare la immagine di quella disperazione… egli è prostrato, – la scure con ambedue le mani sta sollevata, – il suo taglio deve internarsi nel ceppo, e tra la scure e il ceppo vi è un collo… ah! balza una testa per terra… piove sangue… la bocca pare che non abbia compíta una parola… era preghiera, o bestemmia? egli morì lacerato di rabbia… una mano scarna, trepidante l’afferra pe’ capelli… trema ella di terrore o di gioia? ella la squassa, e si contamina, e la mostra al popolo… bella impresa davvero da mostrarsi alla gente, perchè applaudisca!… Sdegno di Dio! egli è desso… la morte lo ha sfigurato, ma lo ha riconosciuto il mio cuore… Rogiero… Rogiero!»
Rogiero intentissimo ascoltava parte di questi discorsi, e con quanta angoscia pensi chi legge; onde disposto a tutto più tosto che lasciarla sconsolata, fingendo dovere alcuna cosa comunicare al Maestro, trasse la briglia, e in breve fu a lato di Yole; – ella non era anche liberata dalla feroce visione; – smontò da cavallo, e presale soavemente la mano, le disse: «Io sono Rogiero.»
Il suono della sua voce produsse il solito effetto; lo riconobbe l’addolorata, e la mente le tornava serena. Piangeva pure Rogiero, e il Maestro degli scudieri senza che vi pensasse, volendosi asciugare gli occhi, trovò le lacrime essergli gocciate fino a mezza guancia: bene egli conobbe il caso, e forse più di quello che non era da conoscersi; ravvisò, guardandolo meglio, Rogiero, imperciocchè lo avesse in grandissima pratica: poteva guadagnare duemila schifati, che sono quasi quattordicimila zecchini di nostra moneta, denunziandolo; poteva non essere biasimato da nessuno, perchè usava lealtà al suo Signore; poteva anzi conseguire la grazia di Manfredi: – gloria alla virtù! – aborriva il prezzo del sangue, e così discorreva a Rogiero: «Scudiere, se siete colpevole, già non sarò io quegli che vi accuserà; se innocente, quegli che vi tradirà; se aveste qualche turpe motivo per errare, abbiatene uno onorevole per correggervi; prendete il mio cavallo, e partite; nascondetevi, e uscite di Benevento: alla frontiera si apprestano i tempi nei quali potrete acquistare mercede, se reo; onore, se innocente: non esitate un momento; potrebbe perdervi un vano render grazie; già, se non m’inganno, non sarà per opporsi la Principessa.»
Yole declinò con leggiadra soavità di affetto il bianco volto su la spalla del Maestro, che soggiunse: «Or via, affrettatevi.»
Rogiero balzò nuovamente in sella, e quivi curvandosi parlava alla figlia di Manfredi: «Teco l’anima mia!» – e sparve.
Yole non rispose, – gemè; seguendo la fidata sua scorta, si riduceva lusingata dall’alito della speranza nelle braccia materne.
CAPITOLO VENTESIMOPRIMO. LA SPIA
Quanta, e qual sia quell’oste, e ciò che pensi
Il duce loro, a voi ridir prometto;
Vantomi in lui scoprir gl’intimi sensi,
E i secreti pensier trargli dal petto.
Gerusalemme Liberata.
Più che io con quella mente che i cieli mi hanno concessa vado pensandovi sopra, più mi avviso di favellare giusto affermando, essere queste composizioni, che la gente chiamano Romanzi, assai somiglievoli ai fioriti rosaj. Lieti di rose, bellissime per venustà di vermiglio, per isquisitezza di odore gioconde, innamorano l’occhio del pellegrino, che con lo incantato pensiero maraviglia come un fiore possa avere tanta parte di volto della sua vergine diletta. Diventa più forte il paragone se si considera, che siccome gli steli delle rose sono irti di spine, e così le vie che conducono alla perfezione in opere sì fatte vanno ingombre d’impedimenti, parte difficili a superarsi, parte impossibili. Differiscono poi in questo, che nel rosaio il passeggiero, contento della vaghezza del fiore, non trascorre a indagare nè come s’operi il suo nascimento, nè come mantenga la vita, nè perchè muoia, nella qual cosa se molto ha luogo il non volere, moltissimo ancora contribuisce il non potere; mentre che nel Romanzo la bisogna procede altramente: ben l’arte ammaestra a disporre gli eventi in certa bizzarria misteriosa, e presentarli con quanto di fantastico può immaginare il poeta, onde la passione di chi legge di mano in mano infiammata aneli la fine; ma al punto stesso ne avverte essere debito svilupparli con naturale spiegazione, affinchè non si sdegni di avere sparso il suo pianto sopra casi in nulla appartenenti all’umana natura. Qui sta l’opera, qui la fatica; questo è lo scoglio pe’ buoni ingegni, l’abisso pe’ mediocri; e certamente sarebbe pel nostro, dove le raccontate avventure non fossero vere, o almeno non le avessimo trovate entro una Cronaca di pergamena antichissima, scritta con caratteri gotici, con le iniziali alluminate, e dorate, che quantunque un po’ guasta dalle tignole, un po’ dai sorci, un altro po’ dall’umido, si mantiene pur sempre il bel tesoro, come andrà persuaso chiunque abbia voglia di venirla a vedere.
Narra pertanto la Cronaca, come un certo giorno il Conte Anselmo della Cerra, ridotto nella secreta sua stanza, esaminando alcune carte di molta importanza udisse toccare la porta; per lo che domandato chi fosse, gli rispondevano, – un pellegrino, che per quello che ne sembrava aveva corso gran via, faceva istanza di favellargli. – «Un pellegrino! che passi:» – ordinava Della Cerra; ed ecco indi a poco entrare un uomo, che, richiuso in prima diligentemente l’usciale, s’incammina va alla volta del Conte, e gittando la schiavina da dosso, gli si mostrava qual era.
«Gisfredo, tu qui! tu vestito da pellegrino! chi ti avrebbe riconosciuto?»
«Dove manca natura, arte procura, messer Conte.»
«Che nuove? è anche morto quello stolto? la tua astuzia congiunta alla sua imbecillità lo ha ancora condotto in rovina? Narrami, narrami, che sono impaziente di udire; siedimi a canto, che ti starai più ad agio, ed io ascolterò meglio.»
«Troppo onore, Messere,» – rispondeva Gisfredo inchinandosi, e mostrando non tenere lo invito: pure insistendo il Conte, obbediva, e pressato da questo col più interrogativo «Ebbene?» che mai sia uscito da labbro di uomo, raccontava: «Messere, dalla notte che con tanto fervore mi ordinaste vegliare su i passi di Rogiero, io, come desideroso di soddisfarvi, non ne ho mai smarrito la traccia: nella notte stessa io mi imbatteva in costui, che, fosse caso o volontà, spronava a rompicollo verso un torrente, dove per certo sarebbe traboccato, se io nol sovveniva; fidando sul benefizio, lo richiedeva di sua compagnia, perchè allora la cosa sarebbe proceduta meglio sicura; mi ributtava con acri parole. Il giorno appresso, mi prende il sudore ghiaccio a ripensarvi sopra, mi arrestava una banda di masnadieri, e dopo avermi conciato che Dio vel dica per me, toltimi i danari che aveva dentro una borsa, volevano ad ogni costo propagginarmi: già per indole, e per costume, aborro dal magnificare quello che ho fatto per vostra signoria, e poi per quanto operassi, io non potrei sdebitarmi degli immensi obblighi ch’io vi professo, Messere; pure io vi giuro…»
«Va per le corte, Gisfredo; sei stato in pericolo di vita? – il gran caso che ti avessero ucciso! – mancano ghiottoni in questo mondo!»
«Dice bene il Messere. Dunque vi basti sapere ch’io fui salvo.»
«Questo io già sapeva, perchè il Demonio si mostri più pronto a proteggere i tristi, che…»
«Dice bene il Messere. Lo inseguiva con lo ardore della vendetta, con l’astuzia della viltà: finchè lo conobbi di per sè stesso infiammato, lasciai che corresse; ma quanto più si avvicinava all’esercito francese, tanto rallentava la fuga: questa nuova esitanza giunse a tale, ch’io stimai bene entrargli di notte tempo nella camera dove giaceva, e concitarlo con dirgli in voce mesta, come di trapassato: – Rammentatevi di vostro padre. – Varcava il Po con incredibile furia, quindi ricadeva più che mai su l’irresoluto: allora presi consiglio di precederlo, mi appresentai a messer Buoso, me gli scopersi vostro servitore, gli mostrai la patente, e gli narrai, un corriero napolitano con lettere a lui dirette essere rimasto una giornata di cammino dietro di me; mandasse pertanto alcuna gente a riscontrarlo, e a tutelarlo, perchè, se fosse caduto in mano dei Ghibellini con quel deposito addosso, avrebbe cagionato gran danno. Mandava Buoso, e glielo conducevano: era buio, ed io mi teneva celato in un corridore della casa di Buoso per vederlo passare: vi so dire, Messere, che fu cosa stupenda contemplare la battaglia delle passioni che laceravano quella anima; per poco stette che non cadesse, si appoggiò al muro senza andare innanzi nè indietro.»
«Tu godi a raccontare questa disperazione, scellerato?»
«Pensate quale sarebbe stata la vostra gioia a vederla, Messere! Osservando che indugiava più che si convenisse, me gli accostai, e gli susurrai alle orecchie: – Rammentatevi di vostro padre: – si voltava impetuoso inseguendomi, ed io di stanza in istanza, come colui che già conosceva la casa di Buoso, gli fuggiva dinanzi, finchè non l’ebbi condotto dove dimorava il Duera; allora mi sottrassi agevolmente: da quel punto in poi i suoi moti furono necessarii. Ebbe le lettere il Ghibellino traditore…»
«Ravveduto, dovevi dire.»
«Ravveduto. L’ebbero i Francesi, e nel campo loro egli ha sempre stanziato fino a Roma.»
«Che! non vi sarebbe egli più?» – percuotendo il pugno stretto su la tavola con terribile giuramento domandava il Conte Anselmo.
«Udite. A Roma fu bandito il torneo; vi combattevano sconosciuti Rogiero, e quel Ghino di Tacco, tanto famoso masnadiero d’Italia: terribili colpi io vidi menarvi, e tali che non credo sieno mai stati nel mondo, non che maggiori, uguali. Miseri noi, Messere, se un giorno ne fossimo segno!»
Anselmo mutò di colore, e con voce mal ferma ordinava: «Va innanzi.»
«Furono i Francesi scavalcati, quasi tutti sconciamente feriti; un Bilmont trafitto; il Monforte, lo stesso Monforte, dichiarato vinto, e come morto portato via dal campo…»
«Che importa, questo? va innanzi.»
«Conseguíta la vittoria, fuggivano Ghino, e Rogiero, e i compagni; io mi levai súbito a seguitarli da lontano, e li vidi internarsi per la foresta vicino a Frascati. Quivi si fermava alcuni giorni Rogiero per sanare le riportate ferite. Una volta, mentre mi accostava su la sera verso la sua dimora per raccogliere qualche novella, lo vidi soletto errare per la foresta; avrei potuto ucciderlo, – non v’era vivente, ed egli non portava armatura; ma non ne aveva mandato; non sapendo s’io mi facessi bene o male, mi rimaneva: sentii uscirgli dalle labbra strane sentenze; mi arrampicai leggiero sopra un albero, e per più disperarlo ripetei: – Rammentatevi di vostro padre. – Parve verro ferito; cieco d’ira si dette a cercarmi per la selva, e tanto corse e ricorse, che al fine del giorno pervenne alla Abbazia di San Vittorino: colà, Messere, un fiero caso si apparecchiava a noi tutti…»
«Quale?»
«Convertito in Frate, vi giaceva moribondo il vostro uomo d’arme Roberto.»
«Ah! e gli narrava…»
«Per quello che mi disse un Frate cercatore, tutta la storia dei vostri tradimenti.»
«Tradimenti! – hai tu detto tradimenti?»
«Non l’ho detto già io, ma vi ho riferito quello che disse il Frate cercatore.»
«Noi siamo perduti!» avvilito mormorava il Conte Anselmo «e sì che lo aveva avvertito a cotesto imbecille: – vogliono i delitti, e non sanno soffocare i rimorsi; – un giorno innanzi ch’io lo avessi ucciso, ogni cosa era salva.» E qui mise senza pensare la mano sotto il farsetto, e ne trasse un pugnale: Gisfredo, sorgendo, si allontanava. Stettero muti alcuni istanti: finalmente il Conte discorreva, volgendo la testa: «Gisfredo, dove sei ito? ritornami allato; perchè ti stai discosto?» – Poi vedendosi il pugnale nella destra, lo riponeva continuando:– «Vivi sicuro, non sai che nessuno uomo adesso mi è più necessario di te?» e tra i denti aggiungeva: «La tua ora non venne.»
«Dice bene il Messere, – v’intendo anche ritto.»
«Fa come vuoi: dunque non v’è scampo?»
«E non sapete trovarlo? Diamine! una testa come la vostra, Messere, annega entro una coppa?»
«Dillo, se ci credi; in nome di Dio.»
«Ve lo direi molto volentieri, ma davvero che me ne prende vergogna; egli parmi così agevole, che non può essere che non vi venga in capo: e poi non si conviene a me che ho imparato tanto di Gramatica, quanto fa di mestieri per avere gli ordini minori, insegnare ad un Barone qual siete voi, che sa per fino dei misteri dell’Astrologia.»
«Certo non si vuol negare che la mia mente non sia oggi un poco confusa… se da un pezzo in qua le cose vanno proprio a rovescio!»
«Eh! signor mio, io conosco il modo di farle andare per verso: ma voi non ne sapete, o non ne volete sapere.»
«Sarebbe?»
«Allargare la mano nello spendere; siete Camerlingo, potete fare, e non co’ vostri danari… la gente ai dì nostri non fa nulla per amore.»
«Ah! vuoi danaro?»
«Nol dico già per me, vedete, Barone; perchè del danaro che cosa ho da farmi, quando posseggo la grazia vostra? – Sebbene quello che mi deste se lo prendessero i masnadieri…»
«Non so se i masnadieri; ma un masnadiere se lo prese di certo, quando lo detti a te.»
«Non credete? Vi giuro pel corpo…»
«Taci, chè il giuramento della tua bocca accresce i motivi di non averti fede.»
«Oh via! come volete; già per troppo malignare spesso l’uomo s’inganna: alla fine di conto que’ vostri danari io non gli ho più, e per giovarvi con frutto me ne abbisognano degli altri.»
«E faceva mestieri di tanta giravolta per venire all’ergo? prendi, questi sono agostari.»
Gisfredo stese la mano come persona avvezza a simili presenti, se gli ripose sotto la veste, ringraziò inchinando il capo, e tornò nel primo atteggiamento.
Anselmo aggiungeva: «Fisco coll’anima, or che gli hai avuti, dimmi almeno che vuoi farne.»
«Io vi protesto, Messere, che Gisfredo è vago di danari come il cane delle mazze; ma l’opera ch’io disegno fare in pro vostro, non può in nessuna altra maniera mandarsi a fine se non che col danaro; i tempi corrono difficili, la natura umana si corrompe ogni giorno di più, e vi sono di tali marrani che non vi farebbero piacere nè manco col pegno.»
«E tu ne sei prova e argomento.»
«Fate senno, Barone. Rogiero, partendosi dal masnadiero Ghino, niuna diversa strada vorrà tenere se non quella che conduce a Manfredi, – e questo è certo; ora, siccome ho raccolto per via che il Re ha convocato tra pochi dì il Parlamento del Regno a Benevento, il suo cammino deve piegare senz’altro a questa città; mio avviso sarebbe dunque partirmi velocemente, prendere in compagnia quindici o trenta uomini arrisichevoli, tendergli agguato, e farne pasqua ai lupi.»
«Santo Germano!» esclamò il Conte Anselmo percuotendosi la fronte «tanto è vero, che per veder bene da vicino ci vuol vista corta! Tu dici saviamente, non in tutto però: in prima tu dèi condurre meno gente per non dare sospetto; invece di ribaldi da strada, tu passerai in partendo da Caserta, consegnerai un mio ordine al Castellano, che lascerà venir teco quattro o sei uomini d’arme; non più, ti comando, e bada che lascino la divisa di Aquino: in quanto a finirlo, parmi che non sarebbe buon consiglio; che ne senti?»
«Eh! fate voi; per me ho detto la mia: i morti non parlano, veh!»
Il Conte Anselmo pensava alquanto, proseguiva dopo: «No, no; quel cadavere insanguinato su la pubblica via, in occasione del Parlamento, – scudiero, – fuggito, – dannato, ingrandirebbe il fatto, e indurrebbe a ricercarne più oltre che la faccenda non meriti: ingegnatevi a prenderlo vivo; se non potete, sì, l’ammazzate, ma portatelo con voi; rimuovete ogni traccia, e sotterratelo dove non possa esser trovato. Parti, e fa forza di gambe.»
Partiva. Quello che facesse e quello che ne seguisse, ha già saputo il lettore: perchè non essendo venuto comodo a Gisfredo di uccidere senza pericolo Rogiero, lo trasportò privo di senso a Benevento, dove, trovato il Conte Anselmo, che vi aveva preceduto la Corte, lo cacciava per suo comando dentro la carcere del palazzo del Legato di Roma, da lungo tempo deserto, e per trascuranza, o dispregio, in parte diroccato. Era pensiero del Conte farvelo morire di fame, non già, come diceva Gisfredo, per brama che avesse della sua morte, ma per risparmiarsi la spesa di tenerlo vivo.
Finita questa commissione, tornava Gisfredo alla dimora del Conte Anselmo, e gli diceva: «Anche questa è fatta, Barone; tra poco il nostr’uomo diverrà Santo e farà miracoli; adesso sta in clausura; manca il sigillo allo spaccio, col gittare la chiave nel Calore, e poi è finita.»
«Però pensiamo ad altro: trova alcun sacerdote che gli dica una messa, perchè la sua anima non si lamenti di noi, e conosca che abbiamo operato da buoni e leali Cristiani; pel rimanente raccomandiamolo a Dio.»
«Dice bene il Messere!» – riprese, tra serio e beffardo, Gisfredo, non sapendo con quale intenzione favellasse Anselmo: veduto ch’ebbe un leggiero sorriso su le labbra del Conte, aggiungeva anch’egli ridendo: «La dirò io questa messa; vado certo che qualcheduno nell’altro mondo, o sotto o sopra, l’ascolterà.»
«Non può fare a meno che tu non finisca male, tanto sei empio, Gisfredo! Adesso sono per commetterti una cura più delicata, e al tutto degna de’ tuoi talenti; deponi quelle vesti da pellegrino, vesti l’assisa di casa mia, e vattene in Corte; poco sarai guardato; o, se guardato, come mio servo sarai anche rispettato: avvolgiti tra la gente di Manfredi, spia i Ministri, il Re, la Regina, tutti; nota gli andamenti, i detti, gli sguardi, e, se tu potessi, anche i pensieri; siimi fedele, pensa come il mio abbassamento non può accadere senza la tua rovina, la mia esaltazione senza tuo vantaggio.»
Eseguiva Gisfredo i comandi del suo signore, un po’, – e qui s’ingannava, – riputando di ricavarne qualche gran premio, un po’ per inclinazione: entrava in Corte, e come quegli che era scaltro davvero, adesso mostrandosi carezzevole, adesso contegnoso, qui usando cortesia, là villania, ritirandosi a tempo, e comparendo a tempo, lusingando i più ruvidi tra i Baroni con gl’inchini, guadagnando i servi più astuti con qualche agostaro, pervenne a conoscere in poche ore quello che forse altri non aveva imparato in molti anni. A mal grado del suo ingegno però, quel destino, che il più sovente si oppone alle opere generose, aveva decretato che gli dovessero riuscire fatali le sue triste; quelle che abbiamo fin qui raccontate, vedemmo averle conseguíte con molto pericolo; ora narreremo come avvenisse l’ultima, nella quale perdè la vita.
Stanca dalle faccende del giorno la famiglia di Manfredi era andata a trovare il sonno, che da molto tempo non iscendeva invocato su le palpebre dei suoi signori. Gisfredo con passi storti e leggieri, con le orecchie attente, per farsi maggior pregio presso il Conte Anselmo, penetrava nelle più riposte stanze reali: – i fati lo portavano; perviene entro un andito lunghissimo, – con la mano alla parete, in punta di piedi, senza trarre un fiato si mette a percorrerlo; – lo percorre, giunge ad una sala, abbandona la scorta del muro, e va oltre: non poteva essere anche a mezzo, quando un gemito represso lo avvertiva, quivi dimorare gente; – stava, – un lamento femminile fece suonare il vasto edifizio.
«Forse conosce la creatura» discorreva la mesta «l’arte di mentire l’affetto? forse le ha rivelato il Demonio come si finga una passione che m’inaridisce il cuore, mi sconvolge l’intelletto e mi consuma la vita? Finti gli atti cortesi, finto il lungo ossequiare, il guardo, la voce, l’amplesso, il bacio, finti? Non suonavano le sue parole ebbre di amore, non gli tremavano le membra, non sospirava profondo? Pure mi ha lasciata sola su la via dello spasimo; nè il pensiero dei parenti e del cielo può consolarmi; – la mia passione dura più forte di loro. Rispondimi almeno se sei morto, ch’io sappia dove indirizzare il mio gemito: – tenga la fossa il suo corpo, lasci libera l’anima, o tenga anche l’anima, pur che la lasci un momento per dirmi che non fingeva, – che mi amava; – questa apparizione è un baleno di tempo, – poi l’abbia per tutta la eternità. L’anima! – l’anima era nel sangue, e il sangue è stato diffuso; – avessi il cadavere! lo veglierei come se dormisse, ingannerei me stessa, dicendo: or ora si sveglia; e a canto al suo letto, da che egli non potrebbe essermi unito in vita, aspetterei rassegnata di unirmi a lui nella morte; – scalderei di baci le fredde labbra, infonderei balsamo nella sua piaga… Dio eterno! qual piaga! scavernata, penetrante in mezzo del petto… ella è insanabile… dite il vero, è insanabile, Maestro? – Non mi risponde, – piange, – e tu pure piangi, Gismonda. O Rogiero! chi ti ha trafitto? Rogiero!»
Sorgeva impetuosa, incamminandosi con passi veloci alla volta di Gisfredo, il quale, dando indietro meno cautamente, inciampava dentro uno sgabello con molto fracasso: l’evento lo turbava, perdeva la direzione della porta; tentando il muro, quanto più ne andava in traccia, tanto più se ne allontanava. Yole (però che Yole fosse la lamentosa), al rumore fatta furente, gli era sopra, già l’afferrava pel petto, – sentiva sotto la mano un pugnale, – gli frugava sotto la veste, lo stringeva, e minacciando di trapassarlo gridava: «Tu lo hai morto! – Dio mi ti caccia tra le mani, perchè ne prenda vendetta.»
Il presente pericolo, non meno che il futuro, se quel grido di Yole avesse richiamato gente, tanto valsero ad avvilire Gisfredo, che a caso più tosto che a consiglio rispondeva: «Mercè, Madonna: il vostro Rogiero è vivo.»
«Vivo!»
«Ve lo giuro per tutti i Santi del Paradiso.»
«Vivo!»
«Sì, vivo e sano, come siete voi, Madonna.»
«Non è vero, tu m’inganni.»
«Non credete nei Santi?»
«Credo in loro, – ma in te no…»
«Pure egli vive…»
«Menami a lui, nè sperare, finchè io lo vegga, che questa mano si scosti dal tuo petto, questa punta dalla tua gola.»
«Santa Vergine! Saremo veduti, Madonna, saremo fermati, perderete me e voi, non vedrete più Rogiero… dimani, vi giuro…»
La vergine sveva, per passione diventata feroce, gli punse un poco la gola, – perchè Gisfredo ebbe a stramazzare svenuto, – e con saldo accento comandava: «Conducimi, e taci.»