Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 28
Gisfredo vedendo che non correva tempo da immaginare scaltrezze, e che se alcuna cosa poteva condurlo a salvamento era la lealtà, si dispose, sebbene suo malgrado, ad operare onesto; – pareva che non ci avesse garbo, quantunque in pensiero risoluto di condursi a dovere; le membra da per loro si studiavano tradire. La vergine sveva lo teneva corto, e sovente per sospetto lo ripungeva; egli prorompeva in un ahi! sommesso, e per alcuni passi non faceva motivo, poi tornava a far peggio. Così scesero nel cortile; due uomini d’arme camminavano in su e in giù con differente direzione traverso la porta grande; – passare per quella senza essere notati era impossibile cosa. Non vi ha palazzo reale che non possieda porte segrete, donde scrive Giuseppe Parini che talora entra la verità; Yole si sovvenne in buon punto, che quello in cui stava ne aveva pure una; vi traeva quasi a forza Gisfredo, e in questo modo pervennero all’aria aperta. – Ciò che venne dietro, il lettore se lo ha già conosciuto avanti.
CAPITOLO VENTESIMOSECONDO. DISPERAZIONE
Visibilmente si tramuta in faccia,
E trema d’una larva che il minaccia.
I Lombardi alla Prima Crociata.
Manfredi! – Nel tempo in cui, se intemperante era la fidanza del suo desiderio, molto maggiori erano la volontà degli uomini, e la vicenda dei casi di compiacere a lui, trasportato dal soffio della ventura, noi non avremmo impreso a descriverlo; adesso, nell’ora solenne del disastro, commuove il cuore di tali sensazioni, che nessuno, per quanto magnanimo, vorrebbe respingere; suscita nel segreto della mente tali pensieri, che nessuno, per quanto potente, potrebbe dire vili. La forza che regge i destini della terra ha voluto, che per venire in fama di grande non importi l’esercizio della virtù, – o almeno di ciò che appelliamo virtù. Nè alcuno insorga impudente contro questa sentenza, perchè noi gli domanderemo, se virtù fu quella dell’antico padre che coll’opera della mano sostentò la numerosa famiglia, e con l’esempio, e con le parole, la educò all’amore dei suoi simili e nel timore di Dio; e dove assenta alla domanda, lo ricercheremo di nuovo, perchè un’aura fuggitiva di memoria susurri appena nel villaggio di cui fu abitatore! perchè la pietà dei nipoti cerchi invano pel Camposanto un segno, una croce, una pietra, che lo distingua dal volgo dei morti! perchè invece di educare le rose sopra la sua fossa, il giumento del parroco vada sterpandovi le poche piante salvatiche di che la ornava la natura! Quindi vedremo se ci affermerà, virtù incitare parte del genere umano a dare del ferro in petto all’altra parte; virtù, perseguitare l’innocente, perchè debole; – fargli delitto della sua debolezza frutto della innocenza, e straziarlo, e schernirlo; virtù, le avare rapine, i miserabili incendii, gli stupri vergognosi; virtù, il colono, che bandito dal soldato fugge co’ figli, quale in braccio, quale per mano, e con la moglie, che sostentando la figlia, argomento di gloria nei giorni ridenti della tranquillità, – perchè la gloria delle madri è nella prole leggiadra, – adesso contaminata di obbrobrio, le impreca la morte dalla misericordia del Signore, e maledice la fecondità del suo ventre! Poveretto! il suo cammino tende alla montagna; quelle rocce dirupate non promettono altro che la fatica di soverchiarle; – quivi troverà un asilo, dacchè non si trova una preda; – a mezzo dell’erta si volge a mirare la casa a lui cara per le tante memorie di amore, – cara anche per le memorie di dolore; – ahi! non vede più casa: – gli sgorgano dagli occhi lacrime amare, geme profondo, ma il gemito e il pianto non sono per le arse masserizie, non per la mèsse sperperata, non pel censo, a stento e con lunghi travagli ragunato, adesso in breve ora distrutto; – sospira l’aere che lo raccolse infante; sospira il luogo, ove per la prima volta la desiata giovanetta, suffusa di modesto rossore, gli disse, che non amava indarno; quello dove per la prima volta fu salutato col nome di padre; sospira le ceneri degli avi: – l’anima paurosa, trascorrendo gli eventi futuri, non lo atterrisce con l’amarezza di chiedere un pane allo straniero, che gli sarà negato, e di ascoltare unita al rifiuto la parola acerba di un cuore che cerca pretesto nel vizio per non commuoversi alla miseria… solo lo spaventa con la immagine dei nipoti, che, appena sapranno snodare la lingua, gli diranno: – menaci dove dorme tuo padre. Che potrà egli rispondere? – io l’ho deserto: – la rampogna di poca carità gli strazia le viscere; – si lagnerà se lo abbandonano vivo? egli non lo ha abbandonato morto? – morto, o vivo, è meno sacro il capo del padre? – Volge le spalle, si affretta per la via, leva gli occhi al vertice della montagna, anelante di riparare dietro una balza dalla vista e dal pensiero di cose tanto miserabili. – E se questa non è virtù, perchè coloro che tengono l’impero della fama la vestono della luce del canto, o la tramandano ai posteri col monumento della storia? perchè nelle vostre sale, nei vostri arnesi, fino sul vostro petto, io non vedo che simulacri dell’ultimo conquistatore? O gli uomini sono divenuti tanto codardi, che si hanno fatto idolo della forza, o, – e questo per avventura è più vero, – non hanno mai saputo che sia virtù. – Manfredi non fu virtuoso, – fu grande. Escluso per colpa paterna dal retaggio del potere, ripose ogni suo pensiero in conseguirlo: – tra la sua mano e lo scettro si attraversavano quattro vite, e tutte sacre; egli stese la mano, e lo strinse: – quali furono gli argomenti che adoperava l’ambizioso? L’ombra del trono gli nasconde, ma stanno come nemici schierati in battaglia al cospetto dell’anima sua, e a quello di Dio. Egli distrusse i suoi nemici, da prima con la frode, poi con la vittoria, e dopo averli avviliti con l’oro, gli spense col ferro. Affidato ai destini che lo menavano, dominò la fortuna, costrinse gli eventi: non soddisfatto della corona di Napoli, guardò la Italia, la vide divisa, e disegnò riunirla sotto il suo impero: penetrando nei misteri dei secoli, la conobbe preda dello straniero, e volle prevenirlo; nè, dacchè Alarico venne a guastare il bel paese, alcuno più di lui sembrava eletto dai cieli alla impresa portentosa: in lui sapienza di consiglio, in lui prodezza di braccio, arte maravigliosa di conciliarsi gli affetti, e quella temperante mansuetudine sconosciuta ai suoi superbi maggiori; Roma decaduta alquanto dal potere; gl’Italiani fidenti, o poco gelosi di lui, perchè signore naturale, e scevro d’interessi con Alemagna; Toscana ghibellina, retta dal senno di Farinata; Lombardia in gran parte devota al suo nome pel séguito del Pelavicino, del Duera, e per le armi di Giordano Lancia. Egli pe’ tempi, i tempi per lui: – forse è da credersi che l’avrebbe dominata con assoluto dominio; forse, inorgoglito dal successo, con tirannide; ma l’opera stava nel rannodarla: quando poi la oppressione si riunisce in un solo, anche un sol colpo vale a distruggerla; e se ogni tempo non produce il sapiente, ogni tempo conta molti feroci.
Solo, dentro vastissima sala ornata delle immagini dei suoi padri, seduto sopra un letto all’usanza saracina, Manfredi cela la faccia per gli origlieri; se non fosse che d’ora in ora un anelito lo fa sobbalzare, parrebbe addormentato. Noi non sappiamo quale meditazione lo tenesse, certo però doveva essere di quelle che tribolano anche sul guanciale del riposo. Sorgeva con impeto; – mutati due passi, sta; – punta la mano destra su la tavola, – la persona abbandona sopra la gamba sinistra, che attraversa con la destra, premendo il pavimento con la estremità del piede, – gli occhi immobili, fitti per terra, – la bocca tremante; – il sangue gli trascorreva su la faccia, come fa l’onda marina, però che adesso comparisce infiammato, adesso pallido: – si volta atterrito, – intende lo sguardo in quelle parti della sala che la lampada di argento posta su la tavola illuminava scarsamente, e si atteggia alla fuga; – concitandosi all’audacia si avanza, – rimane, – indietreggia, – come disperato si precipita, e tocca trepidante con ambe le mani la cagione dello spavento: – pare che la poca luce tramutasse all’accesa fantasia gli oggetti in immagini che non poteva sopportare. Alfine disegna spengere la lampada, la prende in mano, se l’appressa alla bocca, compone le labbra in atto di spingere l’aria; – in questo punto la pupilla trascorrendo discerne tal cosa per la quale Manfredi abbrividisce; stende la mano che stringeva la lampada, l’accosta alla parete, – era una spada che vi stava attaccata; – sospira, avvicina di nuovo il lume alla bocca; percorre, girando il capo, e più volte, la stanza; quindi con estremo sforzo lascia scorrere il fiato compresso, – e fu buio: – s’intendeva per la tenebra un passo frequente, concitato, irregolare.
Noi ignoriamo se altrove, ma certo avviene ih Italia, che il mal tempo spesso rimetta di giorno in giorno ad ore determinate, finchè, consumato lo spazio che deve percorrere, cessa del tutto; però adesso cominciava, come nella sera scorsa, a sentirsi il tuono lontano, e a vedersi lo sfolgorío sempre crescente. «L’ora si avvicina!» – mormorò Manfredi. Si leva un fiero libeccio; la piena della bufera investe fischiando l’edifizio, lo scuote, ed accenna mandarlo sossopra; si ascolta il zufolare lontano che fa per quelle camere il cigolío degli usci e delle finestre; la grandine batte scrosciando le invetriate, come se dovesse spezzarle ad ogni momento, o strappate dagli arpioni trasportarle fin Dio sa dove. Santa Maria! pareva il Giudizio finale. – Perchè Manfredi si volge intorno la sala con orme vacillanti? Teme egli che quello sconvolgimento sia una guerra che la Natura ha dichiarato contro di lui? Che susurra tra i denti? Santi del Paradiso! ha imprecato le potenze dell’Inferno. La procella imperversa; si fa con le braccia il segno della salute sul petto, e solleva peritoso il volto; – viene un lampo; gli occhi di Manfredi, senza ch’ei lo sappia, sono diretti sopra la immagine di suo padre Federigo; – quella luce vermiglia parve animarlo di un baleno di vita, e certo il ritratto storse le pupille scintillanti nel sangue, e agitò i labbri a parole di fuoco: – guai a Manfredi se quella vista fosse durata più d’un lampo! il suo cervello ne sarebbe stato rotto, il cuore scoppiato. La oscurità nascose la causa del terrore: instava fragorosissimo il tuono, e tra il rimbombo urlava Manfredi: «L’ora è passata!» – Incapace di più reggersi, accennando stramazzare, a scosse come l’ebbro, si pone in traccia del letto, e vi si lascia cadere; la sua mano destra abbandonata percuote su la corona reale, la ritira velocissimo, non altramente che se l’avesse posta sul tizzo infuocato; e di vero tale dovette essere la sensazione che soffriva, perchè disse: «Arde.» – Allora quasi affaticato su l’erta di un monte trasse dal petto un anelito grosso, e frequente; – giù per le guance piovve gelido sudore.
A refrigerio dell’afflitto, or sì, or no, secondo soffiava il vento, un preludio dolcissimo sul liuto veniva a dilettargli le orecchia: – l’anima però non gli dava ascolto, come quella che gemeva oppressa sotto terribile sensazione; ma quando vi si aggiunse una voce melodiosa di arcana mestizia, voce che con la prestezza del baleno ricercò, – vellicò, – suscitò, quanto di soavi memorie e di dolcezza di affetto stava riposto nel cuore di Manfredi, egli declinava lentamente «il capo tra le mani, e piangeva: bene erano coteste lacrime di quelle che solcano le guance su le quali trascorrono, di quelle che si assomigliano a gocce d’olio versate sopra ferro rovente, – ma pianse. Riputando nessuna altra cosa capace di acquietarlo quanto ascoltare vicina quella voce che sì lo blandiva lontana, lasciò di giacere, e si pose dietro le tracce dell’armonia.
Licenziate tutte le damigelle, la Regina Elena si era ridotta nelle stanze segrete con i suoi figli, Yole e Manfredino; quivi avevano insieme pregato il Signore di perdono, e di pace: finita la preghiera, cominciò la procella: Elena dissimulò, come meglio potè, l’augurio sinistro, e motteggiando ridente dava animo a Yole, che le si stringeva alla vita, e a Manfredino, che, seduto sopra uno sgabelletto ai suoi piedi, le aveva preso una mano, e se l’era parata innanzi gli occhi per non vedere i baleni.
«Animo, figli miei,» favellava la Regina «è la prima questa delle procelle che udite? conviene questo terrore a figli di Re?»
«E che? madre,» rispondeva Yole «non devono i Re tremare di Dio?»
«Devono, ma troppo tornerebbe a sconforto, o figliuola, attribuire ogni tempesta allo sdegno del cielo.»
«Avete notato, madre, che appena abbiamo proferita l’ultima parola della preghiera scoppiò il primo tuono?»
«Non ho posto mente a questo, perchè stava raccolta nel pensiero del Paradiso.»
«Parmi…» soggiunse Yole, ed abbassata la voce accostò la bocca all’orecchio della madre, «parmi ch’egli ci abbia abbandonate.»
«Figliuola,» riprendendola affettuosa rispondeva Elena «nemmeno i Santi hanno penetrato nei segreti dell’Eterno; se i Profeti gli hanno saputi, ciò è stato perchè egli stesso gli dischiuse a loro, non altramente. Godi anzi della tribolazione che ti manda il Signore, – egli ci vuole provare, ed i provati sono nel numero degli eletti. Ramméntati, amor mio, di Santo Ambrogio da Milano, che, venuto a Malmantile, domandava l’oste di sua condizione, il quale avendogli risposto: – io ricco, io sano, – io, bella donna, grande famiglia, riverito, onorato, careggiato da tutta gente, non seppi mai che male si fosse, o tristezza; ma sempre lieto e contento sono vivuto, e vivo, – ordinò ai fanti che sellassero i cavalli, dicendo: – Dio non è in questo luogo, nè con questo uomo, perchè gli ha concesso troppa felicità. E poi, che cosa dice il Re David? Molte sono le tribolazioni dei giusti, e di tutte il Signore gli libererà. – Ma divertiamo il pensiero da cose tanto lugubri. – Gli angioli hanno insegnato ai mortali l’armonia per sollevarli dalla tristezza;» e sì favellando, ritrasse la mano che le teneva Manfredino, e lieve lieve lo percosse su la guancia; «va, Manfredino,» gli comandava «fa di portarmi quel liuto che vedi su quella tavola là.»
Il fanciullo alzò gli occhi, e peritoso si pose a guardarla.
«Va, Manfredino;» insisteva la nobile Elena «hai tu forse paura?»
Andò con franco passo il fanciullo alla tavola su la quale stavano diversi strumenti, tolse il liuto, e porgendolo alla Regina parlò: «Ecco, mamma, il liuto.»
«Gran mercè, figliuol mio,»
«Oh! si ringrazia egli di queste cose, mamma?»
«Perchè non si dovrebbe? se in te correva l’obbligo di obbedirmi, in me fu cortesia ringraziarti.»
«Ora da che sei tanto cortese, vorrestimi fare un dono?»
«Qual dono?»
«Dì prima se me lo farai.»
«Che cosa ha negato Elena ai suoi figli, quando l’hanno richiesta di cose gentili?»
«Tu dunque mi hai donato, che suonerai la ballata di Lucia, e Yole la canterà; – è così bella la ballata di Lucia, che quando la sento mi vengono le lacrime agli occhi: che vuol dire, mamma, che mi fa piangere?»
Trascorse la Regina con l’agili dita le corde del liuto cavandone dolcissime note, quasi per evitare di rispondere, ma non potè fare a meno di mormorare: «Ahimè! l’affanno diventò il retaggio della casa di Manfredi; amano l’afflizione anche coloro che non sanno che cosa sia, – l’anima si anticipa nello spasimo del futuro.» E continuando a preludiare: «Yole, mia figlia, canta della vergine Lucia.»
«O madre, come lo potrò? ho la voce tanto affiocata…»
«E dai singulti: non è una ballata di dolore quella che devi cantare? converrà meglio al soggetto.»
Senza altre parole presero a rendere unisona la voce col liuto. Ne usciva un suono insistente sopra una medesima nota, proprio di quel genere che i Greci chiamano Melodia; agitava gli animi degli ascoltanti un tremolío di piacere simile a quello che fa la luce sul ribrezzo delle acque della laguna, un riposo placido, una insperata dolcezza… Stolto! quale è la lingua mortale che può svelare i misteri della armonia?
S’apre una porta: i nostri personaggi si affissano sopra quel punto. Manfredi contro suo costume, perchè usò sempre in sua vita panni verdi, era vestito di una maglia nera, sì che il suo corpo si perdeva nel vano della porta, che pure era nero; aveva il volto disfatto e pallido, i capelli ritti, le pupille immobili pel bianco dell’occhio orrendamente dilatato, come uomo appena sottratto dal sogno del terrore. Proruppero in altissimo grido, e timorosi che qualche gran male lo avesse incolto, gli corsero incontro i suoi figli.
«Io mi difenderò!» portando la mano alla cintura esclamava Manfredi «voi volete trucidare vostro padre, come… – sta a voi condannarmi? nè il delitto si lava col delitto: – sarà eterna la vendetta in mia casa?»
«Padre! sposo! padre!»
E’ devono suonare queste voci potenti davvero sul cuore dell’uomo, perchè valsero a richiamare Manfredi dallo spavento, e deliziarlo nella vista della sua famiglia: gli abbracciava Manfredino il manco ginocchio; Yole prostrata gli aveva preso una mano, e imprimeva sopra di quella caldissimi baci; la Regina Elena, quasi a sicura tutela, lo invitava al suo amplesso: soverchiato dalla pienezza dell’affetto, baciò il figlio, – baciò, rilevando, la figlia, – e volò tra le braccia dell’amorosa consorte.
«Ed io ho fede,» poichè ebbe libato alla coppa della gioia discorreva Manfredi «che il destino mi mandi il cordoglio, perchè poi m’inebrii nella dolcezza dei vostri baci, o miei cari; e se così è, io ho motivo di benedirlo, anzi che maledirlo. Ma qui, se non m’inganno, suonava un canto? Deh! siatemi cortesi dei vostri sollazzi, io venni desioso dell›armonia; ella mi fa bene al sangue.»
La Regina Elena e Yole non risposero, che quella col prendere il liuto, questa con ripetere sotto voce le note della canzone: quando si furono accordate, Yole cominciò così:
«O disiose vergini
in mesto suon di pianto
Eco mi fate, e tacite
Deh! mi posate a canto;
S’inalza omai la flebile
Ballata del dolor.
Vivea ne’ dì che furono
Lutalto, un cavaliero;
Caso, o vaghezza, il trassero
Un giorno a un monistero,
Dove ascoltava un cantico,
Che gli scendea sul cor.
Leva la fronte: il supplice
Contempla la giulía,
Di raggio eterno florida,
Sembianza di Lucia,
Che si confuse ai teneri
Sensi del primo amor.
Nè più ei la mira: assiduo
Poichè cercolla invano,
Morto di speme l’alito,
Là di Giudea nel piano
Pugna per Cristo, e il fremito
Rugge del suo valor.
In aspri ceppi il misero
Travolto dalla sorte,
La vagheggiata vergine
Chiama vicino a morte;
Lene su gli occhi e placido
A lui cala un sopor.
Apre lo sguardo immemore,
E le ritorte al piede,
E la invocata in candida
Vesta ricinta ei vede,
La guancia effusa in tenue
Mestissimo pallor: —
E – vivi? – Io l’ale d’angiolo
Scuoto all’aura di Dio,
Lieta volai per l’etera,
Te rendo al suol natio;
Soffri la vita, e affidati
Nel bacio del Signor.
O disiose vergini,
In basso suon di pianto
Eco mi fate, e tacite
Sorgetemi da canto:
Finita è omai la flebile
Ballata del dolor.»
Manfredino, che al cominciare della canzone era tornato a sedersi sopra il suo sgabelletto, e quivi coi cubiti puntellati alle ginocchia sorreggendosi il mento ascoltava, vide suo padre che rapito dalla soavità del canto si accostò pianamente alla figlia, le pose un braccio sopra alla spalla, e sopra il braccio appoggiò la fronte; intanto le labbra gli si fissavano nel sorriso, i sopraccigli si allentavano in arco. Quella espressione cessò con la ballata, il riso scomparve, i sopraccigli tornarono contratti: portò la mano al cuore, come se alcuna cosa se ne fosse partita, poi esclamava: «Udite me adesso.» – Andò risoluto verso la tavola, tolse una arpa, foggiata a triangolo, e si pose a suonare: ricercava con rapidissima volubilità le corde più gravi e le più acute; le altre intermedie, che fanno più dolci e dilettevoli i passaggi, non toccava tanto nè quanto: egli era un concerto somiglievole al fremito di belve, al gemito di persone tormentate, – lacerava le orecchie; pareva che le corde si dovessero rompere sotto la procella delle percosse; ad ogni momento avresti temuto di vedere corruscare lo istromento, e mandare faville; nè l’arte per certo conduceva la mano veloce, ma più tosto la convulsione: nel punto che la fiera armonia cresceva di fragore, con pienezza di voce entrava Manfredi:
«Una strage, uno affanno, una oppressura,
In accenti tristissimi racconto,
Tal che il cielo ne frema, e la natura.
Sopra un teschio aspramente percotendo, —
Parla, – gridava un Cavaliere irato,
Et ecco un serpe, che dal teschio uscendo
Si mette a zufolare in mezzo al prato;
Ma con la mazza il Barone insistendo, —
Parla, – aggiungeva, – spirito dannato; —
Dalle nude mascelle un suono a lui
Venne, che disse: – io son de’ maggior tui.
Figlio a Gualfredo il vecchio, ebbi un fratello
Famoso in cacce, e in armeggiar prestante;
Forte del corpo a meraviglia, e bello,
Nel disio d’una vaga delirante,
Che tratta fantolina al mio castello
Da un vassallo venia tutta tremante;
E il padre mio, come il consiglia amore,
Sposa la volle al suo figliuol maggiore. —
– M’ami? – mi disse la proterva: – in seno
L’alma ti ferve, o— se’ nei detti un forte?
Di tal liquore questo vaso è pieno,
Che in lieta può tornar la nostra sorte. —
Ch’è questo che mi dai, donna? – È veleno:
Esultiamo nel ben della lor morte… —
Fede sopra l’orribile convito
Di sposa ci giurammo e di marito.
A scellerato giubbilo commossa,
Me parricida e cieco di spavento,
Sopra il desco, ogni face in pria rimossa,
Ricercava di osceno abbracciamento…
Arde la carne, e sol rimangon l’ossa,
Treman le volte al fiero giuramento…
Fatta or dimonio, in quell’amplesso eterno
L’anima mi contrista nell’inferno.
Pregando il viator, che tenga al piano
La incominciata via, nè salga al monte,
Il deserto castello da lontano,
Segnandosi devoto in su la fronte,
Accenna il buon vassallo con la mano,
E alla memoria mia rinnuova l’onte;
Nè un riposo è concesso alla mia testa,
Chè tra i sassi l’avvolge la tempesta. —
Una strage, uno affanno, una oppressura,
In voce di mistero ho raccontato,
E Dio mi ha maledetto, e la natura.
Il commiato della ballata fu con voce così spenta cantato, che nessuno degli astanti potè intenderlo. L’arpa sfuggì dalle mani di Manfredi, e percuotendo sul pavimento si ruppe: egli come sopraffatto dalla stanchezza lasciò cadersi sopra una sedia. Accorrevano i figli, la moglie, e con begli atti di amore lo circondavano; nessuno però osava consolarlo con le parole: forse un senso segreto gli avvertiva che i suoi mali erano superiori al conforto. Ne seguitava un silenzio solenne.
Un lieve colpo sopra le porte li toglieva dallo stato dolente. Manfredi, geloso degli arcani di famiglia, ordinò ai suoi con la destra, che si allontanassero; passò la manca sul volto quasi per rimuovere ogni traccia di patimento, e così ricomposto a reale alterezza disse con voce sicura: «Si avanzi.»