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Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 34

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«Il mio Profeta è il mio cuore. Il Conte ha veduto il mio sangue, egli mi ha coperto di polvere, nè posso perdonargli: ben se tu vuoi posso per settemila anni dare il mio spirito a Eblis, perchè lo tormenti a sua posta; bene pel tempo che Allah condanna i prevaricatori strascinare per tutta la Gehenna la catena dei settanta cubiti attraverso lo zolfo, e le fiamme, ma io non posso perdonare al Conte perchè mi ha coperto di polvere

«Rimetti, Amira, nel tuo Re la querela; te ne prega Manfredi.»

«Io l’ho rimessa al taglio della mia scimitarra:» e la trasse luccicante dal fodero mettendola sotto gli occhi di Manfredi «chiedigli ch’ei te la ceda; se ti risponde, è tua.»

«Jussuff, noi lo vogliamo.»

«Lo vuoi? Ebbene, fa che domani in questo turbante mi sia presentata la mano che mi percosse con una carta tra le dita che contenga la supplica del perdono; io te la rimanderò suggellata del mio sigillo; allora io mi chiamerò soddisfatto, e lascerò la querela.»

«Questa è sevizie affricana, nè il nostro Regno andrà contaminato da tanta barbarie. Or via, Jussuff, da che non vuol rimettere in noi la querela, piacciati almeno differirla.»

«Differirla? Sai che sta scritto nel libro del Sapiente? – Quando il trave comincia a guastarsi, e tu lo muta; altramente cadrà sul tuo capo, e su quello della tua famiglia; – se lascerai che il sangue si posi sulla piaga, la morte terrà il frutto della tua negligenza; – dormi su l’offesa, e diverrai degno che l’offesa dorma sopra di te.»

«Dunque va, servo fedele; incita alla strage Saraceni e Cristiani; schiudi di tua mano le porte, e conseguaci al nemico: già in questa terra medesima un empio Amira trucidò innanzi gli altari il glorioso fondatore San Bertario; tu rinnuova il fatto nefando, chè io non sarò meno innocente, nè tu meno scellerato. – Donami, Amira, la tua querela; te ne scongiura il Re.»

«Non posso, figlio di Federigo, non posso…»

Manfredi si levò impetuoso, e afferrando pel braccio l’Amira lo condusse al balcone, dal quale sopra il pendío del monte Cassino si vedevano le rovine della città di Eraclea, mandata a ferro e a fuoco dal furore dei Vandali. – Solenni appaiono coteste reliquie, e veramente degne dei giganti di Roma, i quali non pure emulano, ma co’ brani della grandezza loro superano quanto sa elevare di magnifico l’avara ambizione dei tempi moderni. – «Là fu una terra potente,» disse Manfredi «adesso giacciono sformate macerie e sassi: ora corrono quasi sei secoli che una gente feroce scese dai monti, incontrò popoli discordi e gelosi, e trascorse le nostre campagne: vedi,» aggiunse con voce più sonora, additando quei ruderi, «la storia dei fatti dei Vandali si compone di coteste pagine. Tale diverrà San Germano, e per tua colpa; ma quando l’età avrà nascosto la memoria del mio Regno e il mio nome, uscirà sempre da quelle rovine una voce che griderà ai posteri: – Qui fu tradito un valente signore da un servo infedele.»

«Oh se io potessi!… Non posso… Manfredi, non posso.»

«Or via, poichè teco non vale la preghiera, valga il comando. Mi sono figli i miei popoli, e un giorno dovrò renderne conto a cui gli commise al mio reggimento: in virtù della reale nostra autorità ti ordiniamo di differire questa querela: – è santo, qualunque sia, il comando del Re.»

«V’ha tale che lo negherebbe, figlio di Federigo, ma io non sarò quegli. Ecco,» e così favellando percosse sul pavimento la scimitarra in falso per modo che la mandò in pezzi «ecco, tu mi rompi la spada tra mano, togli al mio braccio la forza, spegni nel cuore lo spirito della vita, e poni dentro di quello la sementa del vituperio; io sono divenuto quasi un non nato, quasi un sepolto; gli uomini mi vedranno, nè mi ravviseranno, perchè gli Amiri dei Ben-izeyen solevano comparire splendidi dei raggi della fama: forse verrà giorno che invocherai il mio aiuto, ed io ti risponderò: – Dammi il braccio che mi hai tolto; – mi chiamerai a nome dell’onore, ed io ti dirò: – O signor mio, come posso ascoltarli? tu mi hai instupidito il cuore, hai chiuso gli orecchi della mia gloria. – Lode ad Allah sovrano dei mondi, sovrano del giorno di giustizia; benedetto tu sii nei tuoi pensieri, nelle tue opere; ma perchè hai voluto che la inclita stirpe dei Ben-izeyen si conchiudesse con tanto avvilimento? Io ti saluto, o Signore, io ti venero con la faccia nella cenere; ma perchè hai spirato all’intelletto del mio Muleasso che mi condanni a cibarmi di fango? Oh! i miei anni fuggono, e vanno via nella tristezza fino all’Inferno; – un giorno avanti che io fossi morto, – il giorno nero sarebbe stato risparmiato agli occhi dei miei. Ah! lo diceva sovente l’anima di mio padre, che il peggio è viver troppo…» – E si partiva sconsolato, nè già lacrimoso, compunto dal dolore, come può sentirlo un cuore robusto, di cui la vista suscita più tosto maraviglia che compassione.

Manfredi stette immobile alcun tempo dopo che l’Amira fu scomparso; poi si battè con la destra la fronte esclamando: «Anima generosa, e degna di me! Ecco, il delitto ha stretto alleanza con la virtù, e s’incamminano abbracciati a rovinarmi dal trono; – i mostri nel cielo già si sono fatti vedere; – questo è il prodigio nella terra… Costanza, Manfredi, – il tuo momento si avvicina.»

«I nemici! i nemici hanno preso la terra!» – Questo grido percuote allo improvviso Manfredi, e lo fa trasalire di terrore. Fosse una finzione dell’anima agitata? No;-ascolta pur troppo un trambusto, un correre precipitoso, un gridare confuso:-»I nemici! i nemici hanno preso la terra!»

La faccia del Re impallidiva quando pensava al pericolo; quando gli si faceva imminente, diventava vermiglia; si adattò intorno ai polsi le manopole di ferro, imbracciò lo scudo, chiamò lo scudiero che gli allacciasse la gorgiera, poi scelse una lancia; del rimanente era armato: in questo modo precipita fuori delle sue stanze gridando a quanti incontrava: – «Signori Baroni, venite almeno a farvi ammazzare onoratamente!»

Lo stesso rovinío di percosse e di gridi giunge alle orecchie della nobile Elena, che angustiata d’angoscia soverchiante giaceva ammalata: le stava seduta accanto del letto la gentile Yole con la fronte posata sopra la destra spalla, e sovente la baciava; Manfredino, seduto ai piedi, di tanto in tanto giungeva le infantili sue mani, e pregava Gesù che desse salute alla mamma.

«Yole! Yole!» disse Elena sollevando la testa «odi tu quello che odo io? parmi grido di battaglia… Santa Madre di Dio! e’ si avvicina: va al balcone, guarda che avventura è mai questa.»

Yole corre frettolosa al balcone, e: «I nemici!» urla «i nemici! madre…»

«I nemici!» – ripete Elena balzando a sedere sul letto.

«Saranno quaranta… tre paiono i principali: uno ha lo scudo nero con le goccie d’argento, l’altro ha l’impresa di un cuore passato dalle freccie, il terzo porta una bandiera… bianca… con aquila rossa… e la insegna dei fuorusciti fiorentini… Che colpi! misericordia! che colpi! si fanno fuggire dinanzi mille soldati… quanto sangue bagna la terra!»

«Vieni… sostiemmi… tanto che possa vederli.»

«Ecco Manfredi! qual rabbuffo di cavalli, e di cavalieri!… la polvere gli avviluppa tutti… io non vedo più nulla.»

«Ch’io veda il braccio del Re!» – dice Elena, e si apparecchia a scendere dal letto.

«La polvere si fende… il padre ha vinto… Oh! come fuggono… oh! come ei gl’insegue a briglia sciolta!… già sono lontani… scomparvero.»

Affinchè sia il benigno lettore instruito del come avvenisse questo caso, gli facciamo sapere che fuori delle mura di San Germano, uscendo dalla Porta Romana, e piegando a mancina, si trovavano tra la città e il campo di Carlo, ma più presso alla città che al campo, alcuni pozzi, dove giornalmente scudieri napolitani e francesi andavano ad attingere acqua pe’ cavalli, e spesso anche gli stessi cavalli vi conducevano: Carlo avrebbe potuto agevolmente turbare quell’acque; considerando però che le toglieva al suo esercito e non al nemico, il quale d’altronde n’era abbastanza provveduto, si rimase; molto più poi, che da quel mescolarsi di gente sperava, sebbene non ne concepisse il modo, dovesse derivarne qualche buona occasione per assaltare la terra: – uscivano gli scudieri napolitani non già dalla porta grande, sì bene da un usciolo che l’era da lato, il quale oggi non si usa, e gli antichi con proprio vocabolo solevano chiamare postierla, e di subito usciti si richiudeva con saldissime imposte. Sarebbe stata temerità, più tosto che valentia, suscitare una scaramuccia tra gli scudieri, e mentre i Napolitani fuggivano verso la terra mescolarsi con essi loro, tentando di entrare alla rinfusa; nè Carlo osava ordinarla, temendo che, come di manifesta morte, ogni uomo la ricusasse, e anche tentata non riuscisse. Due cavalieri francesi, Boccardo e Giovanni fratelli Vandamme, e un cavaliere fiorentino, Stoldo Giacoppi de’ Rossi, insegna dei Guelfi italiani, insieme con altri cinquanta soldati avvezzi alle più risichevoli imprese, convennero di mettersi all’avventura, e il giorno dieci di febbraio essendosi di buon mattino segretamente posti in agguato dentro una fossa, che la notte trascorsa avevano ingombra al di sopra di siepi, che li riparavano a modo di tettoia, stettero ad aspettare che gli scudieri venissero ad attingere acqua. Riuscì il caso come si erano avvisati; perchè i Pugliesi verso il tramontare del sole usciti dalle mura s’incamminarono spensieratamente ai pozzi, dove incontrati i Francesi, cominciarono a insultarli di percosse e di parole, gridando in ischerno del Conte: – «Dov’è il nostro Carlotto? Dov’è Carlotto?» – Gli scudieri di Francia non tennero le mani alla cintola, e cominciarono la più gagliarda scaramuccia che mai fosse stata, la quale, o per essere combattuta senza armi, o per altra cagione che noi non conosciamo, va nelle Cronache del vecchio tempo distinta col nome di badalucco. Adesso gl’insidiatori, côlto il destro, dettero dentro alla zuffa, ed ebbero ben tosto vôlto in fuga i Pugliesi: quei della città vedendoli apparire, aprirono tosto la postierla, perchè trovassero pronto ricovero nelle mura, e quando accortisi degl’inseguenti nemici, vollero chiuderla, non furono a tempo, chè vi si gittarono, perseguiti e perseguitatori, con la foga di un fiume, e con maravigliosa celerità la trapassarono: bene poterono gettare giù la saracinesca, che, piombando con enorme gravezza, circa sei cavalieri francesi separò dai compagni, e forse altrettanti con miserabile strage schiacciò sotto le sue punte di ferro. Gli entrati, nulla curando quel primo sconcio, s’inoltrarono menando francamente le mani: – fuggivano i Pugliesi cacciati dalle armi nemiche, e più dalla propria paura, offrendo la immagine di un gregge, al quale facciano i mandriani mutare pastura. Pervenuti sotto il palazzo reale, usciva Manfredi accompagnato dai più valenti Baroni del Regno: cominciò un molto terribile affronto, nè lungamente dubbioso, perchè i fuggitivi, ripreso animo, voltarono faccia, e dettero aspro rincalzo al nemico. Ogni momento più s’ingrossava la gente intorno ai Francesi, che, oggimai disperati di salute, voltarono le spalle a cui le avevano fatte voltare prima; e sì che la fuga non poteva salvarli, e valeva meglio morire per ferite nel petto; ma se la paura si consigliasse con la possibilità dello scampo, vedremmo spesso quei fatti generosi che or pur troppo occorrono rari.

Il Conte di Provenza, avvisato tosto del caso, però che la Cronaca, quantunque con poca apparenza di vero, racconta come quella imboscata si fosse condotta lui non consapevole, si volse ai Cavalieri che lo circondavano. e favellò breve discorso: «Lasceremo, Messeri, in mano dei nostri nemici i nostri fratelli, perchè furono più valorosi di noi?» – Afferrava la sua pesante mazza d’arme, chè la rimanente armatura per antico costume non deponeva mai quando stava nel campo, e balzò fuori della tenda. Per via narra la fama che dicesse: «O glorioso Barone San Martino di Tours, noi facciamo voto di presentare al vostro santuario un candelliere d’oro massiccio, se ci farete salvare quei nostri virtuosi cavalieri.»

Stiamo a vedere che saprà fare il fiore della Baronia di Francia. Erano giunti sotto le mura a tiro di balestra, i Pugliesi prendevano a bersagliarli; a quella prima scarica molti cavalieri perderono il cavallo, molti cavalli i cavalieri; i susseguenti non potendo fermare i corsieri che venivano via di pieno galoppo, vi traboccarono sopra: ne derivava un súbito scompiglio, una specie di vacillamento su tutta la linea. Carlo però era trascorso avanti, e li precedeva di due o tre aste; si fecero animo, e più arditi di prima gli spronarono dietro. Ecco il secondo saettamento, ecco la seconda confusione; – a quel modo non si poteva venire a capo di nulla: sel vide il Conte, e pensò al rimedio; smonta da cavallo, toglie la sella, e ponendosela su la testa continua il suo cammino verso le mura; lo imitarono i suoi, e per questo ritrovato un po’ meglio difesi pervengono alla Porta Romana. Qui sorgeva un tempestare di sassi, di travi aguzzati, e di ogni sorta armi lanciate dagli assaliti; un percuotere irrequieto, spaventoso, delle mazze d’arme dentro la porta e la postierla per parte degli assalitori. Carlo sopra gli altri menava disperatamente traverso la postierla, e ad ogni colpo si vedevano balzare chiodi, schegge, e nuvoli di polvere smossa; nè tutti potendo travagliarsi intorno le porte, presero con temerario consiglio a salire su i muri: quale, non bastandogli la lena di più sostenersi, dirupava per propria gravezza, e strisciando lungo la muraglia vi lasciava la pelle delle mani e del volto, e dopo tormentosa agonia si squarciava percotendo sul terreno;-la umana forma deturpata, gli occhi balzati della testa, il cervello sparso, i lacerati intestini, la faccia, le membra oscene di lividore e di sangue, erano cosa spaventevole a vedersi; – quale giunto agli estremi merli, respinto d’una lancia nel petto, agitando le mani pel vano formava in cadendo una curva nell’orizzonte; – chi rovinava trafitto dalle proprie armi, chi confitto su l’aste altrui; vi furono tali che uccisero nella caduta il compagno sul quale percossero, ed essi per istrana avventura, meno lo stordimento, andarono salvi; spaziava la morte nella pienezza del suo dominio; infiniti si udivano i lamenti, il pianto, e le querele, pure non mancavano le risa, nè i motti piacevoli: – spettacolo nefando era quello, pel quale Dio non ha certo formato la creatura, spettacolo che forse lo fa pentire di averla formata, e pure, per chi lo faceva, una festa: dai cadaveri che precipitavano giù dalle mura, non solo non ne prendevano sbigottimento gli assalitori, ma così mezzo morti li ghermivano pel capo e per le gambe, e sopra altri morti gli accatastavano dicendo taluno: – «In buon punto caduto è costui, che anche uno scalino mi bisognava a salire:» – tal altro proverbiando favellava al vicino: – «Nuove scale sono queste per entrare in castello;» – intanto palla, o pietra, lo infrangeva, e il vicino gli montava sul volto, e a sua posta motteggiava con altri… Schiatta stolida e feroce, che calunnii la belva della foresta, entra nel bosco, e apprendi dal serpente Carità; – tu sei degna della vita di supplizio che hai, della morte di dolore che avrai.

Adesso, provato con esperimento di sangue che in quella maniera non potevano salire, stavano per ritirarsi i Francesi, quando si alzò una voce a confortarli che gridava:-»La porta è scassinata!» E di vero Carlo insistendo con la mazza d’arme aveva tanto fatto che la postierla era caduta dagli arpioni, e, seguitandolo i suoi, aveva varcato il limitare: al punto stesso ch’ei passava, una grandine di quadrelli lo cinse per la persona senza offenderlo, perchè era destinato; tuttavolta una delle freccie imbroccò nella vista dell’elmo al giovane Jonville, nel quale dubitava la gente se fosse maggiore o la cortesia dei costumi o la prodezza della mano, ed oltre fulminando gli traforò l’occhio sinistro, gli ferì il cervello, e cadde il gentile amareggiato non dalla sua morte immatura, ma dalla rimembranza dello antico genitore che lasciava diserto nel vasto castello dei suoi antenati. – Povero padre! e sì che di tanti figli non gli rimaneva che quello, e in lui solo viveva, in lui sperava, lui conforto della tediosa decrepitezza (conveniente vestibolo della morte) s’imprometteva; ed era pur pietà serbarglielo! Il buon vecchio già nel suo segreto gli preparava in isposa la figlia del vicino Barone, a cui riseppe che prima di partire aveva favellato di amore sotto la quercia, – e volle vedere questa quercia. – ed aveva trovato su la corteccia inciso i nomi degli innamorati, e traendo il pugnale, sopra quei nomi con mano tremula di anni e di gioia aveva impresso il suo, quasi mano imposta per benedirli: – povero padre! – Gente mercenaria e straniera lo composero dentro la bara, e il suo castello ebbero i consorti, che la vicina parentela in nessuno altro modo seppero dimostrare al trapassato, se non che coll’escludere i congiunti più lontani dalla eredità. – Forse fu compassione del giovanetto, – forse paura della propria esistenza, che vinse i Francesi sul limitare della mal varcata postierla; volge la testa il conte Carlo, li conosce atterriti, e: «Parvi» esclama «sia questo passo da non pagare gabella? è soddisfatto il pedaggio, andiamo avanti sicuri.» – Dio eterno! ridevano, e lieti calpestavano il corpo del trafitto fratello.

Superata la porta, mancava a vincere la saracinesca: riprincipiava lo strazio, chè i Pugliesi traverso le fessure scagliavano dardi senza posa, e i Francesi non avevano balestre da rispondere; si arrovellavano intorno ai pali, e di così rabbiosi fendenti li colpivano, che dove non fossero stati foderati di rame, rotti in mille stiappe, avrebbero dato l’ingresso: ma il rame resisteva all’impeto; i vani conati accennavano quello essere disperato travaglio, che non poteva, se non con tempo e pena infinita, condursi a buon termine.

Si aggiungeva a smarrirli altra avventura: i Vandamme, Stoldo dei Rossi, e lo scarso avanzo dei compagni, fuggivano a dirotta verso la porta; quando vi furono vicini di circa venti passi, veduta la saracinesca calata, conosciuti i compagni, vergognando di essere stati côlti in quell’atto di fuga, sapendo ogni via di salute chiusa, si misero in abbandono del corpo, e urlando ferocemente si avventarono contro gl’inseguenti: – e’ fu indarno; sopraggiungeva tempestando Manfredi, da ogni lato sboccavano feritori, e facevano pressa all’intorno. Dopo alcuni momenti di zuffa bestiale, in che combatterono perfino co’ morsi, smarrita la lena, lanciarono quelle armi, che erano loro rimaste, per aria, e chiesero quartiere: se giungesse amara la vista a quelli che stavano fuori della saracinesca, sel pensi chi legge; vi fu un Barone che giunse a tanto acciecamento, che internò la mano armata di scure nelle fessure, pensando di poter ferire nella zuffa che si combatteva a venti e più passi di distanza da lui; un fendente calato da Giordano Lancia, che gli recise il braccio alla giuntura del gomito, gl’insegnò a non introdurlo mai più nelle fessure delle saracinesche, e la Cronaca ricorda che ne facesse senno pel séguito. Adesso si avveravano i timori del Conte di Provenza; – pensava a ritirarsi; – per valore era perduta la impresa, – rimaneva la fortuna.

Calava la sera. Manfredi, ricevuti prigionieri i fratelli Vandamme, Stoldo con sei dei cinquanta che si avventurarono al rischio, voleva ordinare che si alzasse la saracinesca per fare impeto contro il nemico, e ributtarlo lontano dalle mura: all’improvviso ode alle spalle un correre imperversato di gente, un gridare incessante: – «Il nemico! – il nemico!» – volge la faccia, e mira sventolare sul torrione della porta del Rapido una bandiera che non gli sembra la sua; aguzza lo sguardo, si frega gli occhi, rimira, e: «Se Dio ci aiuti,» domanda al Conte Calvagno, che gli stava da presso, «cotesta non mi pare la nostra bandiera: guardate un po’ voi, Conte, che l’aria è fosca, e noi non iscorgiamo bene.»

«O signor mio! « risponde il Calvagno voi non siete punto ingannato; azzurra è la bandiera, ma dentro vi sono i gigli di Francia.»

«Come può esser questo? Non vi stanno i Saraceni di guardia?» – e spronando a gran furia s’indirizzava a quella parte.

Mentre che Manfredi cavalca per sapere il caso, noi senza muoverci lo racconteremo. Guido da Monforte, il meglio avveduto maestro di guerra che avesse lo esercito di Francia, e, per essere del continuo al fianco del Conte, partecipe di ogni suo più riposto consiglio, vedendo combattersi la impresa dalla quale aveva sconfortato il suo signore, pensava, da che s’era incominciata, ad operare per modo che riuscisse quanto meno potevasi funesta ai Francesi; quindi è che tolse seco alcune compagnie di Borgognoni, al punto che infuriava la battaglia davanti la porta, circuì San Germano, guadò il fiume Rapido, e si presentò inosservato alla porta di questo nome; – più si avanzava, meno intendeva rumore; alzò la fronte ai merli, – nessuna sentinella; guardò il torrione, – guardia nessuna; si maravigliava, procedeva cauto, sospettando qualche imboscata; giunge alle mura. – non vede persona; drizza le scale, cominciano i Borgognoni a salire, – non si affaccia persona; montano su i merli, – sono deserti. – «Dio gli ha acciecati!» – esclama il Monforte divotamente: – «Dio gli ha acciecati! « – ripetono i soldati, e vanno oltre. Munisce le mura, mette i più valorosi nel torrione, e vi pianta la bandiera; scende, apre la porta, e spedisce messi al Conte che si affretti a venire, esser presa la terra. La nuova giungeva a Carlo al momento in che stava per uscirgli di bocca il fatale comando di ritirarsi; riprese l’animo già decaduto, e poichè per quel giorno l’aveva con San Martino: «O glorioso Barone,» esclamava segnandosi «due saranno i candelieri d’oro che sacrerò al vostro tempio di Tours, e di venti libbre per ciascheduno!» – Anche i suoi ripresero animo, ed egli ordinando che facessero sembianza d’insistere da quella parte, accorre là dove la fortuna aveva combattuto per lui.

Manfredi ascoltava per via, come sparsa fama tra i Saraceni del rifiuto ch’ei aveva fatto allo Amira di concedergli campo contro Angalone, abbandonassero i posti, e si riducessero nei quartieri a piangere sul corpo di Jussuff, quasi che fosse sepolto; come i nemici prevalendosi della occasione scalassero le mura, e se ne fossero impadroniti: si turbava, non si avviliva per questo, e affrettandosi alla fazione passava sotto i quartieri dei Saraceni, e chiamava: «Jussuff! Jussuff!»

«Che domanda il Muleasso dalla bestia che parla?» risponde l’Amira, comparendo alla terrazza con volto disfatto.

«Non te lo aveva predetto? i nemici per te sono dentro le mura, esci alla riscossa…»

«Come posso fare se non ho spada?»

«Io ti darò la mia.»

«E il braccio chi me lo darà?»

«La battaglia.»

«E il cuore?»

«Io te lo strapperò se una volta ti giungo,» grida stizzito Manfredi «o maladetto nell’anima di tuo padre, nella santità della tua fede!» – e rompendo gl’indugi trasvola cupido di venire a battaglia.

Ecco sorge in diversa parte con diversa fortuna il conflitto; – la notte, diventata del tutto oscura, lo rendeva più spaventoso: – i Francesi se per sorpresa s’impadronirono della terra, adesso si mostravano degni di averla potuta superare col valore; respinti non si smarrivano; saettati di sopra, dai lati, di fronte, con maravigliosa intrepidezza tornavano all’assalto: – non era questa battaglia ordinata; infiniti affronti particolari, combattuti per le vie e per le piazze; ogni capo di strada presentava nuova difesa ai Napolitani; ogni casa fortino: suonava nel buio aere per ambedue le parti altissimo il grido di guerra: – Mongioia! Mongioia! Viva Francia, e San Martino! – Svevia! Svevia! Viva Manfredi, e l’Aquila imperiale! – Ardevano gli animi già tanto inferociti, e senza distinguere gli amici dai nemici badavano a tagliare chiunque cadeva lor sotto. —

A terribili tenebre succedeva terribilissima luce: sorgeva lo incendio; appariva una scena degna di essere contemplata dal Demonio; armi, uomini, animali a rifascio; la sembianza del morente più compassionevole dal lume sinistro, quella dell’uccisore più minacciosa; braccia e spade luccicanti, quasi sospese nel vano, scaturire dal buio, piagare, e involarsi; volti di caduti che alle scosse del dolore talora si nascondevano nell’ombra, e talora comparivano al riverbero delle fiamme, ad ogni istante mostrando essersi accostati di un passo alla morte: atti supplichevoli tronchi da fiere percosse, e le percosse vendicate da peggiori omicidii; il sangue chiamava sangue: chi uccideva di fronte spesso cadeva trafitto da tergo: – nè i cavalli imperversati menavano danno e paura minore dei cavalieri (tutto alla scuola dell’uomo si perverte]; furiavano traverso la battaglia nitrendo, e parea che dalle narici dilatate fiutassero l’odore della strage; laceravano co’ morsi, rompevano scalpitando; le zampe fino alla prima giuntura avevano ingrommate di sangue. Prevale l’incendio nella forza della rovina; però che con lampade siffatte conduca le sue lucubrazioni la guerra.

È da credersi che dove i Pugliesi non avessero rimesso un po› dell›animo loro per la presa inaspettata della terra, o pel timore che i Saraceni volgessero le armi contro Manfredi non si fossero avviliti, sarebbero stati vincitori; ma sfiduciati al punto in cui maggiormente abbisognavano di costanza, e con valore stupendo feriti dai Francesi sovvenuti del continuo di gente fresca, cominciarono a piegare: solo si reggevano nella contrada dove combatteva Manfredi; pure anche in questa assaltati dalle vie circonvicine, venute in potere del nemico, voltarono le spalle gridando: – salva chi può.

Allora cominciava un miserabile eccidio: le spade nemiche gl’incalzavano con ardore bestiale; quanti incontrarono resistenti, o cadenti, trucidarono; la età non salvava; il sesso incitava alla libidine, non alla pietà; dopo gli ultimi oltraggi, quelle sciagurate donne tagliavano. A noi non concede la mente di narrare lo sperpero commesso in quella notte dalle armi francesi, comecchè sappiamo che la più parte delle storie degli uomini sia composta di questi fatti; basti sapere che tra i morti per ferro e tra i morti per fuoco, sommarono le anime a meglio di diecimila.

Manfredi, travolto nella fuga dei suoi, conoscendo la voce della paura essere diventata più potente della sua, desideroso morire di ferita nel petto, fa un ultimo sforzo, e volta il cavallo. Avrebbe incontrato quello che andava cercando, perchè distinto dall’Aquila d’argento che portava per cimiero, contro di essa si sarieno rivolte le spade nemiche, se una nuova gente, da lui mai più veduta, sboccando dalla via che mena alla porta dell’Abruzzo, non lo avesse circondato gridando: – Svevia! Svevia! – Un Cavaliere gigantesco che teneva su l’elmo una Lupa gli si accostava, spingendo il cavallo a slascio traverso la pressa: e curvatosi dall’arcione, gli diceva in fretta: «Messer lo Re, la terra è presa, il Provenzale soverchia: se fossimo giunti avanti, vi avremmo fatto vincere; adesso non possiamo che salvarvi: – voi non ci conoscete, ma noi siamo vostri amici.»

– Dunque non è anche l’ora, – pensò Manfredi; poi rispose al Cavaliere: «Gran mercè, Barone; da che siete venuto, vi accetto; a Benevento potremo sospendere anche una volta la fortuna di Carlo.»

«E se a Dio piace, superarla!» soggiunse lo sconosciuto. Quindi levando la voce che superò lo schiamazzo che si faceva d’intorno, ordinava ai suoi si serrassero, ponessero le lance in resta, e così andassero avanti. Quel battaglione di ferro si avanzava sfondando quanto gli si opponeva; lento lento, come un carro pesante, si approssimava alla porta dell’Abruzzo, conosciuta ancora col nome di San Giovanni.

«I miei figli! la Regina!» – urla all’improvviso Manfredi, e senza dire parola al Cavaliere che gli cavalcava al fianco riprende il cammino che aveva percorso. «I suoi figli!» s’intese al tempo stesso da una voce che partiva di mezzo allo squadrone «salviamoli.»

Il Cavaliere, che pareva il capitano, comandava alla masnada si cacciasse dietro Manfredi, e lo difendesse fino all’ultimo sangue. Bruttissimi fatti vedevano in passando, e degni di vendetta; pure, come chiamati da più grave faccenda, non li vendicavano. Alla svolta della piazza di Santa Maria delle cinque Torri ne contemplavano al chiarore dell’incendio uno incomportabile: – sopra un trafitto plorava, mettendo angosciosi guai, una bella giovanetta (se fosse moglie, od amante, non si sapeva); singhiozzava forte, e tra i singhiozzi con dolcissimi nomi lo appellava, e gli teneva discorsi, come se quello fosse stato un convegno di amore; così veemente l’agitava la passione, che fingendosi il cadavere a quel modo che le s’era presentato alla mente nei giorni felici, non lo vedeva adesso lacero per mille piaghe, livido d’infinite contusioni: aveva le labbra pendenti, immobili, sparse di bava sanguinosa; nondimeno ella vi accostava le sue, e ve le figgeva quasi a libarne il liquore della voluttà. Stava appresso alla dolorosa un soldato, e le diceva asciugasse le lacrime, morto un papa crearsene un altro, e con tali altri argomenti la consolava ch’io non li voglio dire: alla fine, conoscendo di non far frutto in quella guisa, l’afferrò per le trecce, e brutalmente la strascinava. Oh! quale era la faccia della meschina! Oh come stendeva le braccia al trapassato! Con quanti conati s’ingegnava colei per sottrarsi alle braccia che la menavano! I cavalieri che correvano dietro la posta di Manfredi levarono un grido, passarono via: solo uno uscì di fila, e spingendo in abbandono il destriero arrivò improvviso alle spalle del soldato, e levando più alto che poteva la destra, e acconsentendo con tutta la persona, di tale un colpo lo ferì su l’elmetto, che la mazza d’arme, spezzati i cerchii di ferro, s’internò più che mezza nel cranio; una vena di sangue gli spicciava bollendo dal capo… barcollava… cadde, – nè la mano abbandonò le trecce della giovanetta, anzi stringendo rabbioso gliene svelse gran parte; i bei capelli che scaturivano dalle dita, attestavano la sua brutalità, sì come il cranio fesso il castigo. La tapina donzella ricadde bocconi sul morto, o riprese il lamento più fiero di prima.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
740 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain