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Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 13

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XX.

Mia madre rianimata moltiplicò verso Giuliana le sue tenerezze. Manifestò il suo caro sogno e il suo presentimento. Ella aspettava il nipote, il piccolo Raimondo. Era sicura, questa volta.

Mio fratello anche aspettava Raimondo.

Maria e Natalia rivolgevano spesso a me, alla madre, alla nonna, domande ingenue e graziose sul compagno futuro.

Così con presagi, con augurii, con speranze l’amor familiare incominciava ad avvolgere il frutto invisibile, l’essere ancóra informe.

E i fianchi di Giuliana incominciavano ad ingrossarsi.

Un giorno eravamo rimasti io e Giuliana seduti sotto gli olmi. Mia madre ci aveva lasciati da poco. Nei suoi discorsi affettuosi ella aveva nominato Raimondo; aveva anzi rinnovato il diminutivo: Mondino, richiamando lontanissimi ricordi di mio padre morto. Io e Giuliana le avevamo sorriso. Ella aveva creduto che il suo sogno fosse il nostro sogno. Ci aveva lasciati là perché continuassimo a sognare.

Era l’ora che segue lo scomparire del sole, un’ora lucida e calma. I fogliami sul nostro capo non si movevano. A quando a quando uno stormo di rondini veemente fendeva l’aria con un rombo d’ali, con uno scoppio di gridi come a Villalilla.

Seguimmo con gli occhi la santa finché disparve. Allora ci guardammo, in silenzio, costernati. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo, oppressi dall’immensità della nostra tristezza. E io, con una terribile intensione di tutto il mio essere, astraendo da Giuliana, sentii vivere accanto a me la creatura isolata come se null’altro in quel momento vivesse accanto a me, null’altro. E non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda. Fu un raccapriccio che mi pervase tutte le fibre. Sussultai forte; e levai di nuovo lo sguardo al viso della mia compagna, per dissipare quella sensazione d’orrore. Ci guardammo, perduti, non sapendo che dire, che fare contro l’eccesso di spasimo. E io vedevo nel viso di lei riflessa la mia angoscia, indovinavo il mio aspetto. E, poiché i miei occhi andarono istintivamente al grembo, come li rialzai scorsi nel viso di lei quell’espressione di terror pànico che hanno gli infermi d’una infermità mostruosa quando qualcuno osserva la parte difformata dal male incurabile.

Ella disse, a voce bassa, dopo un intervallo in cui ambedue avevamo tentato di misurare la nostra pena e non avevamo trovato un termine; ella disse:

– Hai tu pensato che questo potrebbe durare tutta la vita?

Io non aprii le labbra; ma la risposta sonò dentro di me risoluta: «No, questo non durerà».

Ella soggiunse:

– Ricòrdati che con una parola tu puoi troncare ogni cosa, liberarti. Io sono pronta. Ricordatene.

Ancóra tacqui; ma pensai: «Non tu devi morire».

Ella soggiunse, con una voce che tremava di desolata tenerezza:

– Io non posso consolarti! Non c’è consolazione per te né per me; non ci potrà essere mai… Hai tu pensato che qualcuno starà sempre fra noi due? Se il vóto di tua madre fosse esaudito… Pensa! Pensa!

Ma la mia anima fremeva sotto il balenio sinistro d’un solo pensiero. Io dissi:

– Tutti già l’amano.

Esitai. Guardai Giuliana rapidamente. Riabbassando sùbito le palpebre, chinando il capo, le chiesi con una voce che mi si spense fra le labbra:

– L’ami tu?

– Ah, che mi domandi!

Non potei non insistere, sebbene soffrissi fisicamente come per riconficcare l’unghia in una lacerazione viva.

– L’ami?

– No no. L’ho in orrore.

Ebbi un moto istintivo di gioia come se per quella confessione avessi ottenuto il consenso al mio pensiero segreto e quasi la complicità. Ma aveva ella risposto il vero? O aveva mentito per misericordia di me?

M’assalì una cruda smania d’insistere ancóra, di costringerla a una confessione lunga ed intera, di penetrarla bene a dentro. Ma il suo aspetto mi trattenne. Rinunziai. Mi sentivo ora disacerbato verso di lei, benché ella portasse dentro di sé la vita su cui pendeva la mia condanna. Inclinavo ora verso di lei con un sentimento di gratitudine. Mi pareva che quell’orrore, da lei confessato con un fremito, la distaccasse dalla creatura che ella nutriva e la ravvicinasse a me. E provavo il bisogno di farle intendere queste cose, di aumentare in lei l’avversione contro il nascituro come contro un nemico d’entrambi inconciliabile.

Io le presi una mano; le dissi:

– Tu mi sollevi un poco. Ti son grato. Tu intendi…

Soggiunsi, mascherando di speranza cristiana la mia intenzione micidiale:

– C’è una Provvidenza. Chi sa! Ci può essere per noi una liberazione… Tu intendi quale. Chi sa! Prega Iddio.

Era un augurio di morte al nascituro; era un vóto. E, inducendo Giuliana a pregare Iddio che l’esaudisse, io la preparavo all’avvenimento funebre, ottenevo da lei una specie di complicità spirituale. Perfino pensai: «Se, dopo le mie parole, entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!… Certo, ella potrebbe convincersi della terribile necessità, esaltarsi al pensiero di liberarmi, avere un impeto di energia selvaggia, compiere il sacrifizio estremo. Non ha ripetuto anche dianzi che ella è pronta sempre a morire? La sua morte implica la morte del fanciullo. Ella dunque non è trattenuta da un pregiudizio religioso, dalla paura del peccato; perché, essendo disposta a morire, ella è disposta a commettere un delitto duplice, contro sé stessa, e contro il frutto del suo ventre. Ma ella è convinta che la sua esistenza è utile su la terra, anzi necessaria, alle persone che l’amano e ch’ella ama; ed è convinta che l’esistenza del figliuolo non mio renderà la nostra vita un supplizio insostenibile. Anche sa che noi potremmo ricongiungerci, che potremmo forse nel perdono e nell’oblio ritrovare qualche dolcezza, che potremmo sperare dal tempo la guarigione della piaga, se tra me e lei non si levasse l’intruso. Basterebbe dunque che ella considerasse queste cose perché un vóto inutile, una preghiera inefficace si mutassero a un tratto in un proposito e in un’azione». Pensavo; ed ella anche taceva e pensava, a capo chino, tenendo ancóra la sua mano nella mia, mentre cadeva su noi l’ombra dai grandi olmi immobili.

Che pensava ella? La sua fronte era pur sempre tenue e pallida come un’ostia. Cadeva forse su lei un’altra ombra, oltre quella della sera?

Io vedevo Raimondo: non più in forma del fanciullo perverso e felino dagli occhi grigi ma in forma d’un corpicciuolo rossiccio e molle, appena appena respirante, che una lieve pressione poteva far morire.

La campana della Badiola diede il primo tocco dell’Angelus. Giuliana ritrasse la sua mano dalla mia; e si fece il segno della croce.

XXI.

Passato il quarto mese, passato il quinto, la gravidanza si svolgeva rapidamente. La figura di Giuliana, alta, snella e flessibile, s’ingrossava, si difformava come quella d’una idropica. Ella n’era umiliata, innanzi a me, come d’una infermità vergognosa. Un’acuta sofferenza appariva nel suo volto, quando ella sorprendeva i miei occhi fissi sul suo ventre gonfio.

Io mi sentivo sfinito, incapace di trascinare più oltre il peso di quell’esistenza miserabile. Ogni mattina, veramente, quando aprivo gli occhi dopo un sonno agitato, era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: «Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all’ultima goccia, il sangue del tuo cuore». Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salivano dall’intimo dell’essere, a ogni risveglio. E, intanto, bisognava vivere!

I giorni erano d’una lentezza crudele. Il tempo non fluiva ma stillava, pigro e pesante. E avevo ancóra d’innanzi a me l’estate, una parte dell’autunno, una eternità. Mi sforzavo di seguire mio fratello, d’aiutarlo nella grande opera agraria ch’egli aveva intrapreso, d’infiammarmi alla sua fede. Rimanevo a cavallo intere giornate come un buttero; mi stancavo in un lavoro manuale, in qualche bisogna facile e monotona; cercavo di ottundere l’acuità della mia conscienza stando a contatto con la gente della gleba, con gli uomini semplici e diritti, con quelli in cui poche norme morali ereditate compivano le loro funzioni naturalmente come gli organi del corpo. Più d’una volta visitai Giovanni di Scòrdio, il santo solitario; e volli udire la sua voce, volli interrogarlo su le sue sciagure, volli rivedere i suoi occhi tanto tristi e il suo sorriso tanto dolce. Ma egli era taciturno, un poco timido verso di me; rispondeva appena qualche parola vaga, non amava parlare di sé, non amava lamentarsi, non interrompeva il lavoro a cui era intento. Le sue mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, non si fermavano mai, non conoscevano forse la stanchezza. Un giorno esclamai:

– Ma quando si riposeranno le tue mani?

L’uomo probo se le guardò, sorridendo; ne considerò il dorso e il cavo, rivolgendole prone e poi supine al sole. Quello sguardo, quel sorriso, quel sole, quel gesto conferivano a quelle grosse mani incallite una nobiltà sovrana. Incallite su gli strumenti dell’agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora quelle mani erano degne di portare la palma.

Il vecchio le incrociò sul suo petto, secondo l’uso mortuario cristiano; e rispose, pur sempre sorridendo:

– Fra poco, signore, se Dio vorrà. Quando me le metteranno così, nella cassa. Così sia.

XXII.

Tutti i rimedi erano vani. Il lavoro non mi giovava, non mi consolava; perché era eccessivo, ineguale, disordinato, febrile, interrotto spesso da periodi d’inerzia invincibile, d’abbattimento, d’aridità. Mio fratello ammoniva:

– Non è questa la regola. Tu consumi in una settimana l’energia di sei mesi; poi ti lasci ricadere nell’indolenza; poi di nuovo ti getti alla fatica, senza ritegno. Non è questa la regola. Bisogna che la nostra opera sia calma, concorde, armonica, per essere efficace. Intendi? Bisogna che noi ci prescriviamo un metodo. Ma già tu hai il difetto di tutti i novizii: un eccesso di ardore. Ti calmerai, in seguito.

Mio fratello diceva:

– Tu non hai ancóra trovato l’equilibrio. Tu non ti senti ancóra sotto i piedi la terra ferma. Non temere di nulla. O prima o poi tu potrai afferrare la tua legge. Questo t’accadrà all’improvviso, inaspettatamente, nel tempo.

Anche diceva:

– Giuliana questa volta, certo, ti darà un erede: Raimondo. Io ho già pensato al patrino. Tuo figlio sarà tenuto a battesimo da Giovanni di Scòrdio. Non potrebbe avere un patrino più degno. Giovanni gli infonderà la bontà e la forza. Quando Raimondo potrà comprendere, noi gli parleremo di questo gran vecchio. E tuo figlio sarà quel che noi non abbiamo potuto e saputo essere.

Egli tornava spesso su l’argomento; nominava spesso Raimondo; augurava che il nascituro incarnasse l’ideal tipo umano da lui meditato, l’Esemplare. Non sapeva che ognuna delle sue parole era per me una fitta e rendeva più acre il mio odio e più violenta la mia disperazione.

Inconsapevoli, tutti congiuravano contro di me, tutti facevano a gara nel ferirmi. Quando mi avvicinavo a qualcuno dei miei, mi sentivo ansioso e pauroso come se fossi costretto a rimanere al fianco d’una persona che, avendo tra le mani armi terribili, non ne conoscesse l’uso e la terribilità. Stavo in continua attesa d’un colpo. Dovevo cercare la solitudine, fuggire lontano da tutti, per avere un po’ di tregua; ma nella solitudine mi ritrovavo a faccia a faccia col mio nemico peggiore: con me medesimo.

Mi sentivo segretamente perire; mi pareva di perdere la vita da tutti i pori. Si riproducevano in me talvolta sofferenze appartenute al periodo più oscuro del mio passato omai remotissimo. Non altro conservavo in me talvolta se non il sentimento della mia esistenza isolata tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo se non la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un’arteria nella mia testa.

Poi sopravvenivano le ironie, i sarcasmi contro me stesso, improvvise smanie di demolire e di distruggere, derisioni spietate, malignità feroci, un fermento acre del fecciume più basso. Mi pareva di non saper più che cosa fossero indulgenza, misericordia, tenerezza, bontà. Tutte le buone sorgenti interiori si chiudevano, s’inaridivano, come fonti colpite di maledizione. E allora in Giuliana non vedevo più se non il fatto brutale, il ventre gonfio, l’effetto dell’escrezione d’un altro maschio; non vedevo in me se non il ridicolo, il marito gabbato, lo stupido eroe sentimentale d’un cattivo romanzo. Il sarcasmo interiore non risparmiava nessuno dei miei atti, nessuno degli atti di Giuliana. Il dramma si mutava per me in una comedia amara e beffarda. Nulla più mi riteneva; tutti i legami si spezzavano; avveniva un distacco violento. E io pensavo: «Perché rimaner qui a recitare questa parte odiosa? Me ne andrò, tornerò al mondo, alla vita di prima, alla licenza. Mi stordirò, mi perderò. Che importa? Non voglio essere se non quel che sono: fango nel fango. Puah!».

XXIII.

In uno di tali accessi risolsi di lasciare la Badiola, di partire per Roma, di andare alla ventura.

Mi si offriva il pretesto. Non prevedendo un’assenza tanto lunga, noi avevamo lasciata la casa in condizioni provvisorie. Bisognava dare assetto a molte cose; bisognava disporre tutto in modo che la nostra assenza potesse prolungarsi fuor d’un termine fisso.

Annunziai la mia partenza. Persuasi di questa necessità mia madre, mio fratello, Giuliana. Promisi di sbrigarmi in pochi giorni. Mi preparai.

Alla vigilia, la sera, tardi, mentre chiudevo una valigia, udii battere all’uscio della camera. Gridai:

– Avanti!

Vidi entrare Giuliana, sorpreso.

– Oh, sei tu?

Le mossi incontro. Ella ansava un poco, forse affaticata dalle scale. La feci sedere. Le offersi una tazza di tè freddo con un sottile disco di limone, una bevanda a lei grata un tempo, che era pronta per me. Ella vi bagnò appena le labbra e me la rese. I suoi occhi rivelavano l’inquietudine. Disse alfine, timidamente:

– Dunque parti?

– Sì, – io risposi – domattina, come sai.

Seguì un intervallo di silenzio, lungo. Dalle finestre aperte entrava una frescura deliziosa; su i davanzali batteva la luna piena; giungeva il canto corale dei grilli, simile al suono d’un flauto un po’ roco e indefinitamente lontano.

Ella mi domandò, con la voce alterata:

– Quando tornerai? Dimmi la verità.

– Non so – risposi.

Seguì un’altra pausa. Il vento leggero ricorreva a volta a volta, e le tende si gonfiavano. Ogni àsolo recava nella stanza, fino a noi, la voluttà della notte d’estate.

– Mi abbandoni?

Nella sua voce era uno scoramento così profondo che i nodi aspri dentro di me si sciolsero a un tratto; e il rammarico e la pietà mi invasero.

– No, – risposi – non temere, Giuliana. Ma ho bisogno di una tregua. Non ne posso più. Ho bisogno d’un respiro.

Ella disse:

– Hai ragione.

– Credo che tornerò presto, come ho promesso. Ti scriverò. Anche tu, forse, non vedendomi soffrire, avrai un sollievo.

Ella disse:

– Nessun sollievo mai.

Un pianto soffocato tremava nelle sue parole. Ella soggiunse a un tratto, con un accento di lacerante angoscia:

– Tullio, Tullio, dimmi la verità. Mi odii? Dimmi la verità!

Ella m’interrogava con gli occhi, assai più angosciosi delle sue parole. Parve fissare in me per un istante la sua stessa anima. E quei poveri occhi dilatati, quella fronte così pura, quella bocca convulsa, quel mento smagrito, tutto quel tenue viso dolente a contrasto con la difformità inferiore ignominiosa, e quelle mani, quelle tenui mani dolenti che si tendevano verso di me con un gesto supplichevole, mi fecero pena come non mai, e m’impietosirono e m’intenerirono.

– Credimi, Giuliana, credimi per sempre. Non ho nessun rancore contro di te, non ne avrò mai. Non dimentico che ti debbo il contraccambio; non dimentico nulla. Non ne hai già le prove? Rassicurati. Pensa ora a liberarti. E poi… chi sa! Ma, in qualunque caso, io non ti mancherò, Giuliana. Ora lascia che io parta. Forse qualche giorno di lontananza mi farà bene. Tornerò calmato. Sarà necessaria molta calma, poi. Tu avrai bisogno di tutto il mio aiuto…

Ella disse:

– Grazie. Farai di me quel che vorrai.

Un canto umano ora giungeva nella notte, coprendo il suono roco del flauto silvestre: – forse un coro di trebbiatori, da qualche aia remota, sotto la luna.

– Senti? – io dissi.

Ascoltammo. Il vento asolava. Tutta la voluttà della notte d’estate veniva a gonfiarmi il cuore.

– Vuoi che andiamo a sedere di là, sul terrazzo? – chiesi a Giuliana dolcemente.

Ella acconsentì, si levò. Passammo nell’altra stanza, ove non era altro lume che quello del plenilunio. Un gran flutto candido, qualche cosa come un latte immateriale, inondava il pavimento. In quel flutto ella camminò davanti a me, per uscire sul terrazzo; e io potei vedere la sua ombra difforme disegnarsi cupa nel chiarore.

Ah dov’era la creatura esile e pieghevole che avrei stretta fra le mie braccia? Dov’era l’amante che avevo rinvenuta sotto i fiori di lilla in un meriggio d’aprile? – Ebbi nel cuore, in un attimo, tutti i rimpianti, tutti i desiderii, tutte le disperazioni.

Giuliana s’era seduta e aveva poggiata la testa al ferro della ringhiera. La sua faccia illuminata in pieno era più bianca di qualunque cosa intorno, più bianca del muro. Ella teneva le palpebre socchiuse. I cigli le spandevano a sommo delle gote un’ombra che mi turbava più d’uno sguardo.

Come avrei potuto parlare?

Mi volsi verso la valle, mi piegai su la ringhiera stringendo il ferro freddo tra le dita. Vidi sotto di me un’immensa massa di apparenze confuse, dove non distinsi se non lo scintillio dell’Assòro. Il canto giungeva or si or no, secondo l’alito della frescura; e nelle pause si riudiva il suono di quel flauto un po’ roco e indefinitamente lontano. Nessuna notte m’era parsa mai tanto piena di dolcezza e d’affanno. Dall’estremo fondo della mia anima irruppe un grido, altissimo sebbene non udibile, verso la felicità perduta.

XXIV.

Appena giunsi in Roma, mi pentii d’esser partito. Trovai la città infocata, fiammeggiante, quasi deserta; e n’ebbi sgomento. Trovai la casa muta come un sepolcro, dove le medesime cose, le cose da me ben conosciute, avevano un aspetto diverso, strano; e n’ebbi sgomento. Mi sentii solo, in una solitudine spaventevole; ma non andai in cerca di amici, non volli ricordare né riconoscere amici. Solo mi misi alla caccia di un uomo contro il quale mi spingeva un odio implacabile: alla caccia di Filippo Arborio.

Speravo d’incontrarlo sùbito in qualche luogo publico. Andai alla trattoria che sapevo da lui frequentata. L’aspettai tutta una sera premeditando il modo dell’affronto. Il passo d’ogni nuovo venuto mi rimescolava il sangue. Ma egli non comparve. Interrogai i camerieri. Da lungo tempo non l’avevano visto.

Feci una visita alla sala d’armi. La sala era vuota, immersa nell’ombra verdognola prodotta dalle persiane chiuse, piena di quel particolare odore che l’innaffio solleva da un pavimento di tavole. Il maestro, abbandonato dagli allievi, mi accolse con grandi effusioni di benevolenza. Io ascoltai attentamente il racconto minuto dei trionfi riportati nelle gare dell’ultima academia. Poi gli chiesi notizie di alcuni amici frequentatori della sala; infine gli chiesi notizie di Filippo Arborio.

– Non è più a Roma, da quattro o cinque mesi – mi rispose il maestro. – Ho sentito dire che è malato, d’una malattia nervosa molto grave, e che difficilmente guarirà. Lo diceva il conte Galiffa. Ma non so altro.

Soggiunse:

– Era molto fiacco, infatti. Qui da me ha preso poche lezioni. Temeva la stoccata; non poteva vedersi la punta davanti agli occhi…

– È ancóra a Roma Galiffa? – gli domandai.

– No, è a Rimini.

Dopo alcuni momenti mi accomiatai.

La notizia inaspettata mi aveva colpito. Pensai: «Fosse vera!». E m’augurai che si trattasse d’una di quelle terribili malattie del midollo spinale o della sostanza cerebrale, che conducono un uomo alle infime degradazioni, all’idiotismo, alle più tristi forme della follia e quindi alla morte. Le nozioni apprese dai libri di scienza, i ricordi d’una visita a un manicomio, le imagini anche più precise lasciatemi impresse dal caso speciale di un mio amico, del povero Spinelli, ora mi tornavano alla memoria rapidamente. E rivedevo il povero Spinelli seduto su la gran poltrona di cuoio rosso, pallido d’un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d’un balbettio incomprensibile. E rivedevo il gesto ch’egli faceva ad ogni tratto per raccogliere nel fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca. E rivedevo la figura bionda e smilza e dolente della sorella che metteva all’infermo un tovagliolo sotto il mento, come a un bambino, e con la sonda faringea gli introduceva nello stomaco i cibi ch’egli non avrebbe potuto inghiottire.

Pensavo: «Ho tutto da guadagnare. Se avessi un duello con un avversario così celebre, se lo ferissi gravemente, se l’uccidessi, il fatto, certo, non rimarrebbe segreto; correrebbe su tutte le bocche, sarebbe divulgato, comentato da tutte le gazzette. E potrebbe anche venire in chiaro la causa vera del duello! Invece questa malattia provvidenziale mi salva da ogni pericolo, da ogni fastidio, da ogni pettegolezzo. Io posso ben rinunziare a una voluttà sanguinaria, a un castigo inflitto con la mia mano (e sono poi certo dell’esito?), quando so paralizzato dalla malattia, ridotto all’impotenza l’uomo che detesto. Ma la notizia sarà vera? E se si trattasse d’un disturbo transitorio?». Mi venne una buona idea. Saltai in una vettura e mi feci condurre alla libreria dell’editore. Nella strada consideravo mentalmente (con un vóto sincero) i due disturbi cerebrali più terribili per un uomo di lettere, per un artefice della parola, per uno stilista: – l’afasia e l’agraria. E avevo la visione fantastica dei sintomi.

Entrai nella libreria. Da prima non distinsi nulla, con gli occhi abbacinati dalla luce esterna. Udii una voce nasale, dall’accento straniero, che mi chiedeva:

– Il signore desidera?…

Scorsi dietro il banco un uomo d’età inconoscibile, biondiccio, scarno, dilavato, una specie d’albino; e mi rivolsi a lui, indicandogli i titoli di alcuni libri. Ne comprai parecchi. Poi domandai l’ultimo romanzo di Filippo Arborio. L’albino mi porse Il Segreto. Allora m’atteggiai ad ammiratore fanatico del romanziere.

– Questo è l’ultimo?

– Sì, signore. La nostra casa ne ha annunziato uno nuovo, da qualche mese: – Turris eburnea.

– Ah, Turris eburnea!

Il cuore mi diede un balzo.

– Ma credo che non potremo publicarlo.

– Perché mai?

– Il romanziere è molto malato!

– Malato! Di che male?

– D’una paralisi bulbare progressiva – rispose l’albino distaccando le tre parole terribili l’una dall’altra, con una certa affettazione di saccente.

«Ah, il male di Giulio Spinelli!»

– Il caso è grave, dunque.

– Gravissimo – sentenziò l’albino. – Ella sa che la paralisi non si arresta.

– Ma ora è al principio.

– Al principio; ma su la natura del male non c’è più dubbio. L’ultima volta che fu qui, io l’udii parlare. Già pronunziava con difficoltà alcune parole.

– Ah, voi l’udiste?

– Sì, signore. Aveva già la pronunzia indecisa, un po’ tremolante in alcune parole…

Io incitavo l’albino con l’estrema attenzione, quasi ammirativa, che prestavo alle sue risposte. Credo ch’egli mi avrebbe volentieri distinte le consonanti contro le quali s’era incagliata la lingua del romanziere illustre.

– E ora dov’è?

– È a Napoli. I medici l’hanno sottoposto a una cura elettrica.

– Ah, a una cura elettrica! – ripetevo io con uno stupore ingenuo, come un uomo ignaro, volendo solleticare la vanità dell’albino e prolungare la conversazione.

Veramente, nella libreria stretta e lunga come un corridoio spirava un filo di frescura, per un riscontro. La luce era mite. Un commesso dormiva in pace, su una sedia, col mento sul petto, all’ombra d’un globo terraqueo. Nessuno entrava. Il libraio aveva qualche lato ridicolo che mi divertiva, così bianchiccio com’era, con quella bocca di rosicante, con quella voce nasale. E in una quiete di biblioteca era assai gradevole sentir dichiarare con tanta sicurezza l’infermità incurabile dell’uomo detestato.

– I medici hanno dunque speranza di salvarlo – dicevo, per incitare l’albino.

– Impossibile.

– Dobbiamo sperare che sia possibile, per la gloria delle lettere…

– Impossibile.

– Ma io credo che, nella paralisi progressiva, si dieno casi di guarigione.

– No, signore, no. Egli potrà vivere ancora due, tre, quattro anni; ma non guarire.

– Eppure, io credo…

Non so da che mi venissero quella leggerezza d’animo nel prendermi gioco del mio informatore e quella curiosa compiacenza nell’assaporare un mio sentimento crudele. Certo, io godevo. E l’albino, punto dalla mia contraddizione, senza opporre altro, montò su una scaletta di legno posta contro uno scaffale elevato. Gracile com’era, pareva uno di quei gatti randagi, scarsi di carne e di pelo, che si spenzolano all’orlo dei tetti. Montando, urtò col capo un nastro ch’era teso da un angolo all’altro della libreria pel riposo delle mosche. Un nuvolo di mosche gli turbinò intorno con un ronzio fierissimo. Egli discese portando un volume: l›autorità da addurre in favore della morte. E le mosche implacabili discendevano con lui.

Mi mostrò il frontespizio. Era un trattato di patologia speciale medica.

– Ora sentirà.

Cercò nelle pagine. Poiché il volume era intonso, discostò con le dita due fogli congiunti; e aguzzando i suoi occhi bianchicci, lesse per entro: «La prognosi della paralisi bulbare progressiva è sfavorevole…». Soggiunse:

– Ora è persuaso?

– Sì. Ma che peccato! Un’intelligenza così rara!

Le mosche non si quietavano. Facevano tutte insieme un ronzio irritante. Assalivano me, l’albino, il commesso addormentato sotto il globo terraqueo.

– Quanti anni aveva? – chiesi io, sbagliando involontariamente il tempo del verbo, come se parlassi d’un defunto.

– Chi, signore?

– Filippo Arborio.

– Trentacinque anni, credo.

– Così giovine!

Avevo una strana voglia di ridere, una voglia puerile di ridere sul naso all’albino e di lasciarlo là stupefatto. Era una eccitazione singolarissima, un po’ convulsiva, non mai provata, indefinita. Mi agitava lo spirito qualche cosa di simile a quella ilarità bizzarra e irrefrenabile che ci agita qualche volta tra le sorprese d’un sogno incoerente. Il trattato era rimasto aperto sul banco; e io mi chinai a guardare su una pagina una vignetta: un volto umano contorto da una smorfia atroce e grottesca. «Emiatrofia sinistra della faccia.» E le mosche implacabili ronzavano, ronzavano senza posa.

Ma una preoccupazione mi tornò. Domandai:

– L’editore non ha ricevuto ancóra il manoscritto della Turris eburnea?

– No, signore. L’annunzio fu dato; ma non esiste se non il titolo.

– Solo il titolo?

– Sì, signore. L’annunzio infatti è stato soppresso.

– Grazie. Vi prego di mandarmi questi libri a casa, dentr’oggi.

Diedi il mio indirizzo e uscii.

Sul marciapiede ebbi una sensazione particolare di smarrimento. Mi pareva d’aver lasciato dietro di me un lembo di vita artificiale, fittizia, falsa. Quel che avevo fatto, quel che avevo detto, quel che avevo provato, e la figura dell’albino, e la sua voce, e il suo gesto: tutto mi pareva artificiale, assumeva l’inesistenza d’un sogno, il carattere d’una impressione avuta da una lettura recente, non dal contatto della realtà.

Montai in vettura; tornai a casa. La sensazione vaga si dissipò. Mi raccolsi per riflettere. Mi assicurai che tutto era reale, indubitabile. Si formarono facilmente dentro di me imagini dell’infermo a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. Mi punse una nuova curiosità. «Se andassi a Napoli per vederlo?» E mi rappresentai lo spettacolo miserevole di quell’uomo intellettuale degradato dal morbo, balbuziente come un mentecatto. Non provavo più alcuna gioia. Ogni eccitazione d’odio era estinta. Una tristezza cupa mi piombò sopra. – La ruina di quell’uomo non influiva sul mio stato, non riparava alla mia ruina. Nulla era mutato in me, nella mia esistenza, nella previsione del mio avvenire.

E ripensai il titolo dell’annunziato libro di Filippo Arborio: Turris eburnea. I dubbii mi si affollarono nello spirito. – Si trattava d’un riscontro puramente casuale con l’appellativo della nota dedica? O lo scrittore aveva inteso creare un personaggio letterario a simiglianza di Giuliana Hermil, narrare la sua avventura recente? – E di nuovo la torturante interrogazione mi si ripresentò. – In che modo s’era svolta quell’avventura dal principio alla fine?

E riudii le parole gridate da Giuliana nella notte indimenticabile: «T’amo, t’ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest’inferno un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza… È la verità. Non senti che è la verità?».

Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall’inganno. Ma se quella che io avevo sentita nella voce di Giuliana era la verità pura, allora dunque veramente ella era stata sorpresa da colui in un languore dei sensi, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d’inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell’atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l’aveva più riveduto?

Questa imaginazione, infatti, non aveva contro di sé nessuna delle apparenze; le quali appunto davano a supporre che qualunque legame tra Giuliana e colui fosse stato troncato da gran tempo decisamente.

«Nella mia casa stessa!» io ripensavo, intanto. E nella casa muta come un sepolcro, nelle stanze deserte e piene d’afa, ero perseguitato dall’imagine inevitabile.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
310 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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