Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 14
XXV.
Che fare? Rimanere ancóra in Roma ad aspettare un’esplosione di follia dal mio cervello, in mezzo a quel fuoco, sotto quella rabbiosa canicola? Partire per il mare, per la montagna, andare a bevere l’oblio fra la gente, nei ritrovi eleganti d’estate? Risvegliare in me l’antico uomo voluttuario, alla ricerca di un’altra Teresa Raffo, di una qualunque amante vana?
Due o tre volte m’indugiai nel ricordo della biondissima; che pure m’era caduta interamente dal cuore e anche, per un lungo periodo, dalla memoria. «Dove sarà ella? Sarà ancóra legata con Eugenio Egano? Che proverei nel rivederla?» Era una curiosità fiacca. M’accorsi che il mio desiderio unico e profondo e invincibile era di tornare laggiù, alla mia casa di pena, al supplizio.
Presi con la massima sollecitudine i provvedimenti necessarii; feci una visita al dottor Vebesti, telegrafai alla Badiola il mio ritorno; e partii.
L’impazienza mi divorava; un’ansia acuta mi pungeva, quasi che io andassi incontro a straordinarie novità. Il viaggio mi parve interminabile. Disteso su i cuscini, oppresso dal caldo, soffocato dalla polvere che penetrava per gli interstizi, mentre il romore monotono del treno si accordava al canto monotono delle cicale senza sopire il mio fastidio, io pensavo agli eventi prossimi, consideravo le possibilità future, cercavo di scrutare la grande ombra. Il padre era mortalmente colpito. Quale sorte attendeva il figlio?
XXVI.
Nessuna novità, alla Badiola. La mia assenza era stata brevissima. Il mio ritorno fu festeggiato. Il primo sguardo di Giuliana mi espresse un’infinita gratitudine.
– Hai fatto bene a tornar sùbito – mi disse mia madre sorridendo. – Giuliana non aveva requie. Ora non ti moverai più, speriamo.
Soggiunse, accennando al ventre dell’incinta:
– Non vedi un progresso? Oh, a proposito, ti sei ricordato dei merletti? No? Smemorato!
Sùbito, fin dai primi momenti, ricominciava il supplizio. Appena io e Giuliana rimanemmo soli, ella mi disse:
– Non speravo che tu tornassi tanto presto. Come ti sono grata!
Nell’attitudine, nella voce ella era timida, umile, teneramente. Mi apparve anche più vivo il contrasto fra il suo volto e il resto della sua persona. Era per me visibile di continuo sul suo volto una particolare espressione penosa che rivelava in lei la continua insofferenza della deturpante e disonorante gravezza da cui il suo corpo era afflitto. Quell’espressione non l’abbandonava mai; era visibile anche a traverso le altre espressioni transitorie che, per quanto forti, non valevano a cancellarla; era inerente e fissa; e m’impietosiva, e mi scioglieva i rancori, e mi velava la brutalità troppo talora manifesta nei momenti d’ironica perspicacia.
– Che hai fatto in questi giorni? – io le chiesi.
– T’ho aspettato. E tu?
– Nulla. Ho desiderato di tornare.
– Per me? – ella mi domandò, timida e umile.
– Per te.
Ella socchiuse le palpebre, e un barlume di sorriso le tremolò sul volto. Sentii che io non ero mai stato amato come in quell’ora.
Disse, dopo una pausa, guardandomi con gli occhi umidi:
– Grazie.
L’accento, il sentimento espresso mi ricordarono un altro grazie: quello da lei proferito in un mattino lontanissimo della convalescenza, nel mattino del mio primo delitto.
XXVII.
E così ricominciò la mia fatica alla Badiola e continuò trista, senza episodii notevoli, mentre l’ora s’indugiava nel quadrante solare aggravata dalla monotonia delle cicale che frinivano su gli olmi. Hora est benefaciendi!
E nel mio spirito si avvicendarono i soliti fermenti, le solite inerzie, i soliti sarcasmi, le solite vane aspirazioni, le solite crisi contraddittorie: l’abondanza e l’aridità. E più d’una volta, considerando quella cosa grigia neutra mediocre fluida e onnipossente che è la vita, pensai: «Chi sa! L’uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c’è turpitudine o dolore a cui non s’adatti. Può anche essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!».
Mi sterilivo a furia d’ironie. «Chi sa che il figlio di Filippo Arborio non sia, come si dice, tutto il mio ritratto. L’accomodamento allora sarà anche più facile.» E ripensavo alla triste voglia di ridere che m’era venuta una volta sentendo dire d’un bimbo (che io sapevo sicuramente adulterino) alla presenza dei legittimi coniugi: – Tutto suo padre! – E la somiglianza era straordinaria, per quella misteriosa legge che i fisiologi chiamano eredità d’influenza.
Per quella legge il figlio talvolta non somiglia né al padre né alla madre, ma somiglia all’uomo che ha avuto con la madre un contatto anteriore alla fecondazione. Una donna maritata in seconde nozze, tre anni dopo la morte del primo marito, genera figli che hanno tutti i lineamenti del marito defunto e non somigliano in nulla a colui che li ha procreati.
«Può essere dunque che Raimondo porti la mia impronta e sembri un Hermil autentico» pensavo. «Può essere che io riceva speciali congratulazioni per avere impresso con tanto vigore all’Erede il suggello gentilizio!»
«E se l’aspettazione di mia madre, di mio fratello fosse delusa? Se Giuliana desse alla luce una terza femmina?» Questa probabilità mi quietava. Mi pareva che avrei avuta una repulsione minore verso la neonata e che avrei potuto forse anche sopportarla. Ella col tempo si sarebbe allontanata dalla mia casa, avrebbe preso un altro nome, avrebbe vissuto in mezzo a un’altra famiglia.
Intanto, come più s’avvicinava il termine, l’impazienza diveniva più fiera. Ero stanco di aver sempre avanti agli occhi quel ventre enorme che cresceva senza misura. Ero stanco di dibattermi sempre nella medesima sterile agitazione, tra i medesimi timori e le medesime perplessità. Avrei voluto che gli eventi precipitassero, che infine una qualunque catastrofe si producesse. Qualunque catastrofe era preferibile a quell’orribile agonia.
Un giorno, mio fratello domandò a Giuliana:
– Ebbene? Quanto tempo ancóra?
Ella rispose:
– Ancóra un mese!
Io pensai: «Se la storia del minuto di debolezza è vera, ella deve conoscere il giorno preciso del concepimento».
Eravamo in settembre. L’estate era per morire. Era prossimo l’equinozio d’autunno, il più dolce tempo dell’anno, quel tempo che sembra portare in sé una specie di ebrietà aerea diffusa dalle uve mature. L’incanto mi penetrava a poco a poco, mi ammolliva l’anima; qualche volta mi dava un bisogno smanioso di tenerezze, di espansioni delicate. Maria e Natalia passavano lunghe ore con me, sole con me, nelle mie stanze o fuori per la campagna. Io non le avevo mai amate d’un amore così profondo e così gentile. Da quegli occhi impregnati di pensiero appena consciente mi scendeva qualche volta nell’intimo spirito un raggio di pace.
XXVIII.
Un giorno andavo in cerca di Giuliana, per la Badiola. Erano le prime ore del pomeriggio. Non avendola trovata nelle sue stanze, non avendola trovata altrove, entrai nell’appartamento di mia madre. Le porte erano aperte; non si udivano voci né rumori; le tende leggere delle finestre palpitavano; s’intravedeva pei vani il verde degli olmi; una lene aura di rezzo spirava fra le pareti chiare.
Mi avanzai verso il santuario, con cautela. Prevedendo il caso che mia madre dormisse, camminavo piano per non disturbarla. Discostai le portiere, mi affacciai dalla soglia. Udii infatti un respiro di dormiente. Vidi mia madre addormentata su una poltrona accanto alla finestra; vidi, fuor della spalliera d’un’altra poltrona, i capelli di Giuliana. Entrai.
Stavano l’una di contro all’altra, e in mezzo a loro stava un tavolo basso con sopra una canestra piena di cuffie minuscole. Mia madre teneva ancóra fra le dita una di quelle cuffie, in cui riluceva un ago. Il sonno era venuto a inchinarle il capo, nell’atto del lavoro. Col mento sul petto, ella dormiva; sognava forse. La gugliata bianca era rimasta a mezzo, ma ella filava forse nel sogno un filo più prezioso.
Giuliana anche dormiva, ma con la testa abbandonata alla spalliera, con le mani posate lungo i bracciuoli. I suoi lineamenti s’erano come distesi nella dolcezza del sonno; ma la sua bocca conservava una piega triste, un’ombra d’afflizione: socchiusa, mostrava un poco della gengiva esangue; ma alla radice del naso, tra i sopraccigli, rimaneva il piccolo solco scavato dal grande dolore. E la fronte era madida: una stilla rigava lenta una tempia. E le mani, più bianche della mussolina da cui escivano, parevano confessare con la loro posa esse sole una immensa stanchezza. Su nessuna di queste spirituali apparenze io mi fermai come sul grembo che conteneva omai l’essere già completo. E ancóra una volta, astraendo da quelle apparenze, astraendo da Giuliana, sentii vivere quella creatura isolata come se null’altro in quel momento vivesse accanto a me, intorno a me, null’altro. E ancóra una volta non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda; fu un raccapriccio che mi agitò tutte le fibre.
Girai gli occhi; e rividi tra le dita di mia madre la cuffia in cui riluceva l’ago; rividi nella canestra tutti quei merletti leggeri e quei nastri rosei e cilestri che tremolavano al soffio del vento. Mi si strinse il cuore così forte che credetti mancare. Quanta tenerezza rivelavano le dita di mia madre sognante su quella gentile cosa bianca che doveva coprire il capo del figliuolo non mio!
Restai là qualche minuto. Quel luogo era veramente il santuario della casa, il penetrale. Su una parete pendeva il ritratto di mio padre, che somigliava molto a Federico; su l’altra, il ritratto di Costanza, che somigliava un poco a Maria. Le due figure, esistenti dell’esistenza superiore che dànno le memorie dei cari ai cari scomparsi, avevano gli occhi magnetici e seguaci, una specie d’onniveggenza. Altre reliquie dei due scomparsi santificavano quel luogo. In un angolo, su un plinto, stava chiusa in cristalli, coperta d’un velo nero, la maschera formata sul cadavere dell’uomo che mia madre amava d’un amore più forte della morte. Eppure nulla era lugubre là dentro. Una sovrana pace vi regnava e pareva diffondersi per tutta la casa come da un cuore si diffonde la vita, armonicamente.
XXIX.
Ricordo la gita a Villalilla, con Maria e Natalia e Miss Edith, in una mattina un po’ velata. È un ricordo velato, infatti, indistinto, confuso, come d’un lungo sogno straziante e dolce.
Il giardino non aveva più le sue miriadi di grappoli turchinicci, non aveva più la sua delicata selva di fiori né il suo profumo triplice armonioso come una musica, né il suo riso aperto, né il clamore continuo delle sue rondini. Non altro aveva di lieto se non le voci e le corse delle due bambine inconsapevoli. Molte rondini erano partite; altre partivano. Eravamo giunti in tempo per salutare l’ultimo stormo.
Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Qualcuno era infranto, e su gli avanzi della creta tremolava qualche piuma esile. L’ultimo stormo era adunato sul tetto lungo le gronde, e aspettava ancóra qualche compagna dispersa. Le migratrici stavano in fila su l’orlo del canale, talune rivolte col becco altre col dorso, per modo che le piccole code forcute e i piccoli petti candidi si alternavano. E, così aspettando, gittavano nell’aria calma i richiami. E di tratto in tratto, a due, a tre, giungevano le compagne in ritardo. E s’approssimava l’ora della dipartita. I richiami cessavano. Un occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.
Come sollevato da un colpo di vento subitaneo, da una raffica, lo stormo si levò con un gran frullo di ali, sorse nell’aria in guisa d’un vortice, rimase un istante a perpendicolo su la casa; poi, senza incertezze, quasi che davanti gli si fosse disegnata una traccia, si mise compatto in viaggio, si allontanò, si dileguò, disparve.
Maria e Natalia, ritte in piedi su un sedile per seguire più a lungo con lo sguardo le fuggitive, tendevano le braccia e gridavano:
– Addio, addio, addio, rondinelle!
Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d’un sogno.
Maria volle entrare nella casa. Io stesso aprii la porta. Là, su per quei tre gradini, Giuliana m’aveva seguito furtiva, leggera come un’ombra, e m’aveva allacciato e m’aveva bisbigliato: «Entra, entra». Nell’andito ancóra pendeva il nido fra le grottesche della volta. «Ora sono tua, tua, tua!» ella aveva bisbigliato, senza distaccarsi dal mio collo ma girando flessuosamente per venirmi sul petto, per incontrare la mia bocca. – L’andito era muto, le scale erano mute; il silenzio occupava tutta la casa. Là avevo udito il rombo cupo e remoto, simile a quello che conservano in loro certe conchiglie profonde. Ma ora il silenzio era simile a quello delle tombe. Là stava sepolta la mia felicità.
Maria, Natalia cianciavano senza tregua, non cessavano mai d’interrogarmi, si mostravano curiose di tutto, andavano ad aprire i cassetti dei canterani, gli armarii. Miss Edith le seguiva per moderarle.
– Guarda, guarda che ho trovato! – gridò Maria correndomi incontro.
Aveva trovato in fondo a un cassetto un mazzo di spigo e un guanto. Era un guanto di Giuliana; era macchiato di nero su la punta delle dita; nel rovescio, presso all’orlo, portava una scritta ancóra leggibile: «Le more: 27 agosto 1880. Memento!». Mi tornò chiaro alla memoria, in un lampo, l’episodio delle more, uno dei più lieti episodii della nostra felicità primitiva, un frammento d’idillio.
– Non è un guanto della mamma? – mi domandò Maria. – Rendimelo, rendimelo. Voglio portarlo io alla mamma…
Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d’un sogno.
Calisto, il vecchio guardiano, mi parlò di tante cose; e io non capii quasi nulla. Più volte mi ripeté un augurio:
– Un maschio, un bel maschio, e Dio lo benedica! Un bel maschio!
Quando noi fummo fuori, Calisto chiuse la casa.
– E questi benedetti nidi? – egli disse scotendo la bella testa canuta.
– Non li toccare, Calisto.
Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Le ultime ospiti erano partite. Un’occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.
XXX.
Il termine s’approssimava. La prima metà di ottobre era trascorsa. Il dottor Vebesti era stato avvertito. Da un giorno all’altro potevano sopraggiungere le doglie estreme.
La mia ansietà cresceva di ora in ora, diveniva intollerabile. Spesso ero assalito da qualche impeto di follia simile a quello che un giorno mi aveva travolto su l’argine dell’Assòro. Fuggivo lontano dalla Badiola, restavo lunghe ore a cavallo, costringevo Orlando a saltare le siepi e i fossi, lo spingevo al galoppo per sentieri perigliosi. Tornavamo, io e il povero animale, grondanti, sfiniti, ma sempre incolumi.
Il dottor Vebesti giunse. Tutti, alla Badiola, trassero un respiro, ripresero fiducia, sperarono bene. Giuliana soltanto non si rianimò. Più d’una volta io sorpresi nei suoi occhi il passaggio d’un pensiero sinistro, la cupa luce dell’idea fissa, l’orrore d’un presentimento lugubre.
Le doglie del parto incominciarono; durarono per un giorno intero con qualche intervallo di riposo, ora più forti ora più deboli, ora sopportabili ora laceranti. Ella stava in piedi appoggiata a un tavolo, addossata a un armario, stringendo i denti per non gridare; o si sedeva su una poltrona e rimaneva là quasi immobile, col viso tra le mani, emettendo di tratto in tratto un gemito fioco: o mutava continuamente di luogo, andava da un angolo all’altro, si soffermava qua e là per stringere un qualunque oggetto tra le dita convulse. Lo spettacolo della sua sofferenza mi dilaniava. Non potendo più reggere, uscivo dalla stanza, mi allontanavo per qualche minuto; poi rientravo, quasi involontariamente, attirato; e restavo là a guardarla soffrire, senza poterla aiutare, senza poterle dire una parola di conforto.
– Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile! Non ho mai sofferto tanto, mai, mai.
Era verso sera. Mia madre, Miss Edith, il dottore erano discesi nella sala da pranzo. Io e Giuliana eravamo rimasti soli. Non avevano ancóra portato i lumi. Entrava il crepuscolo violaceo d’ottobre; il vento scoteva i vetri a quando a quando.
– Aiutami, Tullio! Aiutami! – ella gridò, fuori di sé per lo spasimo, tendendo le braccia verso di me, guardandomi con gli occhi dilatati ove il bianco era straordinariamente bianco in quella penombra che rendeva livido il viso.
– Dimmi tu! Dimmi tu! Come potrei fare per aiutarti? – balbettavo, smarrito, non sapendo che fare, accarezzandole i capelli su le tempie con un gesto in cui avrei voluto mettere un potere soprannaturale. – Dimmi tu! Dimmi tu! Che cosa?
Ella non si lamentava più; mi guardava, mi ascoltava, come dimentica del suo dolore, quasi attonita, colpita forse dal suono della mia voce, dall’espressione del mio smarrimento e della mia angoscia, dal tremito delle mie dita su i suoi capelli, dalla desolata tenerezza di quel gesto inefficace.
– Tu mi ami; è vero? – ella disse, non cessando di guardarmi come per non perdere nessun segno della mia commozione. – Tu mi perdoni tutto.
Ella proruppe, esaltandosi di nuovo:
– Bisogna che tu mi ami, bisogna che tu mi ami molto, ora, perché domani non ci sarò più, perché stanotte morirò, forse stasera morirò; e tu ti pentiresti di non avermi amata, di non avermi perdonata, oh certo ti pentiresti…
Ella pareva tanto sicura di morire che io rimasi agghiacciato dal terrore subitamente.
– Bisogna che tu mi ami. Vedi: può essere che tu non abbia creduto a quel che ti dissi una notte, può essere che tu non mi creda ora; ma certo mi crederai quando non ci sarò più. Allora ti si farà la luce, allora conoscerai la verità; e ti pentirai di non avermi amata a bastanza, di non avermi perdonata…
Un nodo di pianto la soffocò.
– Sai tu perché mi dispiace di morire? Perché muoio senza che tu sappia quanto t›ho amato… quanto t›ho amato dopo, specialmente… Ah che castigo! Meritavo questa fine?
Ella si nascose la faccia tra le mani. Ma sùbito si scoperse. Mi fissò, pallidissima. Pareva che un’idea più terribile ancóra l’avesse fulminata.
– E se io morissi – balbettò – se io morissi lasciando vivo…
– Taci!
– Tu intendi…
– Taci, Giuliana!
Io ero più debole di lei. Il terrore m’aveva sopraffatto e non mi lasciava neppure la forza di proferire una parola consolante, di opporre a quelle imaginazioni di morte una parola di vita. Anch’io ero sicuro dell’atroce fine. Guardavo, nell’ombra violacea, Giuliana che mi guardava; e mi parve di scorgere in quel povero viso estenuato i segni dell’agonia, i segni d’un disfacimento già avanzato e inarrestabile. Ed ella non poté soffocare una specie di ululo che non aveva nulla di umano; e si aggrappò al mio braccio.
Aiutami, Tullio! Aiutami!
Stringeva forte, assai forte, ma non a bastanza per me che avrei voluto sentirmi penetrare nel braccio le sue unghie, smanioso di uno spasimo fisico che mi accomunasse allo spasimo di lei. E, tenendo puntata la fronte contro il mio omero, metteva un mugolio continuo. Era quel suono che rende irriconoscibile la voce nostra nell’eccesso della sofferenza corporea, quel suono che agguaglia l’uomo che soffre al bruto che soffre: il lamento istintivo d’ogni carne addolorata, umana o bestiale.
Ogni tanto ella ritrovava la sua voce per ripetere:
– Aiutami!
E mi comunicava le vibrazioni violente del suo strazio. E io sentivo il contatto del suo ventre ove il piccolo essere malefico si agitava contro la vita della madre, implacabile, senza darle tregua. Un’onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Era intempestivo l’impulso; ma la visione del delitto già consumato mi balenò dentro. «Tu non vivrai.»
– Oh, Tullio, Tullio, soffocami, fammi morire! Non posso, non posso, intendi? non posso più reggere; non voglio più soffrire.
Ella gridava esasperata, guardandosi intorno con occhi di pazza, come per cercare qualche cosa o qualcuno che le desse l’aiuto che io non potevo darle.
– Càlmati, càlmati, Giuliana… Forse è venuto il momento. Coraggio! Siediti qui. Coraggio, anima. Ancóra un poco! Sono io qui, con te. Non aver paura.
E corsi a suonare il campanello.
– Il dottore! Che venga sùbito il dottore!
Giuliana non si lamentava più. Ella pareva a un tratto aver cessato di soffrire o almeno d’accorgersi del suo male, colpita da un nuovo pensiero. Visibilmente, ella considerava qualche cosa dentro di sé; era assorta. Io ebbi appena il tempo di notare la mutazione istantanea.
– Ascolta, Tullio. Se mi venisse il delirio…
– Che dici?
– Se dopo, nella febbre, mi venisse il delirio e io morissi delirando…
– Ebbene?
Ella aveva tale accento di terrore, le sue reticenze erano così affannose che io tremavo a verga a verga come preso dal pànico, non comprendendo ancóra dove ella volesse giungere.
– Ebbene?
– Tutti saranno là, intorno a me… Se nel delirio io parlassi, io rivelassi… Intendi? Intendi? Una parola basterebbe. E nel delirio non si sa quel che si dice. Tu dovresti…
Mia madre, il dottore, la levatrice sopraggiunsero, in quel punto.
– Ah dottore, – sospirò Giuliana – credevo di morire.
– Coraggio, coraggio! – fece il dottore, con la sua voce cordiale. – Senza paura. Tutto andrà bene.
E mi guardò.
– Credo – soggiunse sorridendo – che vostro marito stia peggio di voi.
E mi accennò la porta.
– Via, via. Non bisogna star qui.
Incontrai gli occhi inquieti, sbigottiti e pietosi di mia madre.
– Sì, Tullio; è meglio che tu vada – ella disse. – Federico t’aspetta.
Guardai Giuliana. Senza curarsi degli altri, ella mi guardava fissamente, con gli occhi lucidi, pieni d’un bagliore straordinario. Era in quello sguardo tutta l’intensione dell’anima disperata.
– Non mi moverò dalla stanza accanto – dichiarai con fermezza, seguitando a guardare Giuliana.
Mentre uscivo, scorsi la levatrice che disponeva i guanciali sul letto del travaglio, sul letto di miseria; e rabbrividii, come a un soffio di morte.