Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 18
XLIII.
La mattina dopo, il dottor Jemma osservò il bambino e lo dichiarò perfettamente sano. Non diede alcuna importanza al fatto della tosse addotto da mia madre Pur sorridendo delle cure e delle apprensioni eccessive, raccomandò la cautela in quei giorni di freddo crudo, raccomandò la massima prudenza per le lavande e pel bagno.
Ero presente mentre egli parlava di queste cose davanti a Giuliana. Due o tre volte i miei occhi s’incontrarono con quelli di lei, in lampi fuggevoli.
Dunque non veniva aiuto dalla Provvidenza. Bisognava operare, bisognava profittare del momento opportuno, affrettare l’evento. Io mi risolsi. Aspettai la sera deliberato a compiere il delitto.
Raccolsi quanto di energia ancóra mi rimaneva, aguzzai la mia perspicacia, studiai tutte le mie parole, tutti i miei atti. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Non ebbi un istante di debolezza sentimentale. La mia sensibilità interiore era compressa, soffocata. Il mio spirito concentrava tutte le sue facoltà utili nel preparativo per arrivare allo scioglimento di un problema materiale. Bisognava che nella sera per alcuni minuti io fossi lasciato solo con l’intruso, e in certe date condizioni di sicurtà.
Durante il giorno entrai più volte nella stanza della nutrice. Anna era sempre al suo posto, come una custode impassibile. Se io le rivolgevo qualche domanda, ella mi rispondeva con monosillabi. Aveva una voce roca, d’un timbro singolare. Il suo silenzio, la sua inerzia mi irritavano.
Per lo più ella non s’allontanava se non nell’ora dei suoi pasti. Ma era sostituita per lo più da mia madre o da Miss Edith o da Cristina o da qualche altra donna di servizio. In quest’ultimo caso io avrei potuto facilmente liberarmi della testimone, dandole un ordine. Ma rimaneva sempre il pericolo che qualcuno sopraggiungesse all’improvviso nel frattempo. E inoltre io ero in balia della ventura, non potendo io stesso scegliere la persona subentrante. Era probabile che tanto in quella sera quanto nelle sere successive fosse mia madre. D’altronde, mi pareva impossibile prolungare indefinitamente le mie vigilanze e le mie ansietà, stare in agguato per un tempo incerto, vivere nell’aspettazione continua dell’ora funesta.
Mentre ero là perplesso, entrò Miss Edith con Maria e Natalia. Le due piccole Grazie, animate dalla corsa all’aria aperta, chiuse nei loro mantelli di zibellino, con su’ capelli il tòcco della stessa pelliccia, con le mani guantate, con le guance invermigliate dal freddo, appena mi videro si gettarono su di me allegre e leggere. E per alcuni minuti la stanza fu piena del loro cinguettio.
– Sai, sono arrivati i montanari – m’annunziò Maria. – Stasera comincia la novena di Natale, nella cappella. Se tu vedessi il presepe che ha fatto Pietro! Sai che la nonna ci ha promesso l’Albero? È vero, Miss Edith? Bisogna metterlo nella stanza della mamma… La mamma sarà guarita per Natale; è vero? Oh, falla guarire!
Natalia s’era fermata a guardare Raimondo; e di tratto in tratto rideva alle smorfie di lui che agitava le gambe senza posa come se volesse liberarsi dalle fasce. Le venne un capriccio.
– Voglio tenerlo in braccio!
E strepitò per averlo. Raccolse tutta la sua forza per reggere il peso; e il suo volto divenne grave, come quando ella faceva da madre alla sua bambola.
– Ora io! – gridò Maria.
E il fratellastro passò dall’una all’altra, senza piangere. Ma a un certo punto, mentre Maria lo portava in giro sorvegliata da Edith, pericolò, fu per sfuggirle dalle mani. Edith lo sostenne, lo riprese, lo restituì alla nutrice che pareva profondamente assorta, lontanissima dalle persone e dalle cose che la circondavano.
Seguendo un mio pensiero segreto, io dissi:
– Dunque stasera comincia la Novena…
– Sì, sì, stasera.
Io guardavo Anna che parve scuotersi e prestare un’attenzione insolita al discorso.
– Quanti sono i montanari?
– Cinque – rispose Maria che sembrava minutamente informata di tutto. – Due cornamuse, due ceramelle e un piffero.
E si mise a ridere ripetendo molte volte di seguito l’ultima parola per incitare la sorella.
– Vengono dalla tua montagna – dissi volgendomi ad Anna. – Ce n’è forse qualcuno di Montegorgo…
Gli occhi di lei avevano perduta la loro durezza di smalto, s’erano animati, rilucevano umidi e tristi. Tutto il volto appariva alterato dall’espressione d’un sentimento straordinario. E io compresi ch’ella soffriva e che la nostalgia era il suo male.
XLIV.
S’approssimava la sera. Scesi alla cappella, vidi i preparativi della Novena; il presepe, i fiori, le candele vergini. Uscii senza sapere perché; guardai la finestra della stanza di Raimondo. Camminai a passi rapidi su e giù per lo spiazzo, sperando di domare il tremore convulso, il freddo acuto che mi penetrava le ossa, le contratture che mi serravano lo stomaco vacuo.
Era un crepuscolo glaciale, polito, quasi direi tagliente. Un lividore verdastro si dilatava su l’orizzonte lontano, in fondo alla valle plumbea ove s’internava l’Assòro tortuoso. Il fiume luccicava, solo.
Uno sgomento repentino m’invase. Pensai: «Ho paura?». Mi pareva che qualcuno, invisibile, mi guardasse l’anima. Provavo lo stesso malessere che dànno talvolta gli sguardi troppo fissi, magnetici. Pensai: «Ho paura? Di che? Di compiere l’atto o di essere scoperto da qualcuno?». Mi sgomentavano le ombre dei grandi alberi, l’immensità del cielo, i luccichii dell’Assòro, tutte quelle voci vaghe della campagna. Sonò l’Angelus. Rientrai, quasi di fuga, come inseguito.
Incontrai mia madre nell’andito non ancóra illuminato.
– Di dove vieni, Tullio?
– Di fuori. Ho passeggiato un poco.
– Giuliana t’aspetta.
– A che ora comincia la Novella?
– Alle sei.
Erano le cinque e un quarto. Mancavano tre quarti d’ora. Bisogna vigilare.
– Vado, mamma.
Dopo qualche passo la richiamai.
– Federico non è tornato?
– No.
Salii alla stanza di Giuliana. Ella m’aspettava. Cristina preparava la piccola tavola.
– Dove sei stato fino a ora? – mi chiese la povera malata, con un lieve tono di rimprovero.
– Sono stato là, con Maria, con Natalia… Sono stato a vedere la cappella.
– Già, stasera comincia la Novena – ella mormorò tristamente, accorata.
– Di qui potrai sentire forse i suoni.
Ella restò pensosa per qualche istante. Mi sembrò molto triste, d’una di quelle tristezze un po’ molli che rivelano un cuore gonfio di pianto, un bisogno di lacrime.
– A che pensi? – le chiesi.
– Mi ricordo del mio primo Natale alla Badiola. Te ne ricordi tu?
Ella era tenera e commossa; e richiamava la mia tenerezza, si abbandonava a me per essere blandita, per essere cullata, perché io le premessi il cuore e le bevessi le lacrime. Conoscevo quei suoi languori dolenti, quei suoi affanni indefiniti. Ma pensavo, ansioso: «Bisogna che io non la secondi. Bisogna che io non mi lasci legare. Il tempo fugge. Se ella mi prende, mi sarà difficile distaccarmi da lei. Se ella piange, io non potrò allontanarmi. Bisogna che io mi contenga. Il tempo precipita. Chi rimarrà a guardia di Raimondo? Non mia madre, certo. Probabilmente la nutrice. Tutti gli altri si raccoglieranno nella cappella. Qui metterò Cristina. Io sarò sicuro. Il caso non potrebbe essermi più favorevole. Bisogna che fra venti minuti io sia libero».
Evitai di eccitare la malata, finsi di non comprenderla, non corrisposi alle sue effusioni, cercai di distrarla con oggetti materiali, feci in modo che Cristina non ci lasciasse soli come nelle altre sere d’intimità, mi occupai della cena con esagerata premura.
– Perché stasera non mangi con me? – ella mi chiese.
– Non posso prender nulla, ora; non sto bene. Mangia tu qualche cosa; ti prego!
Per quanti sforzi io facessi non riuscivo a dissimulare interamente l’ansietà che mi divorava. Più volte ella mi guardò con l’intenzione manifesta di penetrarmi. Poi d’un tratto s’accigliò, diventò taciturna. Toccò appena appena qualche cibo, bagnò appena appena le labbra nel bicchiere. Io raccolsi tutto il mio coraggio allora, per andarmene. Finsi di aver udito il rumore d’una vettura. Mi misi in ascolto, dissi:
– Forse è tornato Federico. Ho bisogno di vederlo sùbito… Permetti che vada giù un momento. Rimane qui Cristina.
La vidi alterata nel volto come chi sia per rompere in un pianto. Non aspettai il suo consenso. Uscii in fretta; ma non trascurai di ripetere a Cristina che rimanesse fino a che io non fossi risalito.
Appena fuori, fui costretto a fermarmi per resistere alla soffocazione dell’ambascia. Pensai: «Se non riesco a dominare i miei nervi, tutto è perduto». Tesi l’orecchio, ma non udii se non il rombo delle mie arterie. M’avanzai per l’andito fino alle scale. Non incontrai nessuno. La casa era silenziosa. Pensai: «Tutti già sono nella cappella, anche i domestici. Non c’era nulla da temere». Aspettai due o tre minuti ancóra, per ricompormi. In quei due o tre minuti l’intensione del mio spirito cadde. Ebbi uno smarrimento strano. Mi passarono pel cervello pensieri vaghi, insignificanti, estranei all’atto che stavo per compiere. Contai macchinalmente i balaustri della ringhiera.
«Certo Anna è rimasta. La stanza di Raimondo non è lontana dalla cappella. I suoni annunzieranno il principio della Novena.» Mi diressi verso la porta. Prima di giungervi, udii il preludio delle cornamuse. Entrai senza esitare. Non m’ero ingannato.
Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch’io sùbito indovinai ch’ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.
– Dorme? – domandai.
Ella m’accennò di sì col capo.
I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po’ rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l’accompagnamento delle cornamuse.
– Va anche tu alla Novena – io le dissi. – Resto io qui. Da quanto tempo s’è addormentato?
– Ora.
– Va, va dunque alla Novena.
Gli occhi le brillarono.
– Vado?
– Sì. Resto io qui.
Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L’Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d’ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell’impulso istintivo che più d’una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all’impulso d’una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.
Tornai alla porta, la riaprii; m’assicurai che l’andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d’aria gelata m’investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l’estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l’ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l’esposi all’aria che doveva farlo morire.
Non mi smarrii; nessuno dei miei sensi s’oscurò. Vidi le stelle del cielo che oscillavano come se un vento superno le agitasse; vidi i moti illusorii ma terrifici che la luce mobile della lampada metteva nella portiera; udii distintamente la ripresa della pastorale, i latrati d’un cane lontano. Un guizzo del bambino mi fece trasalire. Egli si svegliava.
Pensai: «Ora piange. Quanto tempo è passato? Un minuto, forse; neppure un minuto. Basterà quest’impressione breve perché egli muoia? È stato egli colpito?». Il bambino agitò le braccia d’innanzi a sé, storse la bocca, l’aprì; tardò un poco a emettere il vagito che mi parve mutato, più esile, più tremulo, ma forse soltanto perché sonava in un’aria diversa mentre io l’avevo udito sempre in luoghi chiusi. Quel vagito esile, tremulo, m’empì di sgomento, mi diede a un tratto una paura folle. Corsi alla culla, posai il bambino. Tornai alla finestra per chiuderla; ma prima di chiuderla, mi sporsi sul davanzale, gittai nell’ombra uno sguardo, non vidi null’altro che le stelle. Chiusi. Benché incalzato dal pànico, evitai il rumore. E dietro di me il bambino piangeva, piangeva più forte. «Sono salvo?» Corsi alla porta, guardai nell’andito, origliai. L’andito era deserto; passava l’onda lenta dei suoni.
«Sono salvo dunque. Chi può avermi veduto?» Pensai ancóra a Giovanni di Scòrdio, guardando la finestra; ebbi ancóra un’inquietudine. «Ma no, giù non c’era nessuno. Ho guardato due volte.» Mi ravvicinai alla culla, raddrizzai il corpo del bambino, lo copersi con cura, m’assicurai che nulla era fuor di posto. Ora però avevo una ripugnanza invincibile ai contatti. Egli piangeva, piangeva. Che potevo fare per quietarlo? Aspettai.
Ma quel vagito continuo in quella grande stanza solitaria, quel lagno inarticolato della vittima ignara mi straziava così atrocemente che non potendo più resistere m’alzai per sottrarmi in qualche modo alla tortura. Uscii nell’andito, socchiusi la porta dietro di me; rimasi là vigilando. La voce del bambino giungeva appena appena, si confondeva nell’onda lenta dei suoni. I suoni continuavano, velati dalla lontananza, dolci come in un sogno, un po’ rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia semplice su l’accompagnamento delle cornamuse. La pastorale si spandeva per la grande casa pacifica, giungeva forse alle stanze più remote. – L’udiva Giuliana? Che pensava, che sentiva Giuliana? Piangeva?
Non so perché, m’entrò nel cuore questa certezza: «Ella piange». E dalla certezza nacque una visione intensa che mi diede una sensazione reale e profonda. I pensieri e le imagini che mi attraversavano il cervello erano incoerenti, frammentarii, assurdi, composti di elementi che l’uno all’altro non rispondevano, inafferrabili, d’una natura dubbia. M’assalì la paura della follia. Mi domandai: «Quanto tempo è passato?». E m’accorsi che avevo completamente smarrita la nozione del tempo.
I suoni cessarono. Pensai: «La divozione è finita. Anna sta per risalire. Verrà forse mia madre. Raimondo non piange più!». Rientrai nella stanza, gittai uno sguardo intorno per assicurarmi ancóra una volta che non rimaneva alcuna traccia dell’attentato. M’appressai alla culla, non senza un vago timore di trovare il bambino esanime. Egli dormiva, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. «Dorme! È incredibile. Pare che nulla sia accaduto.» Quel che avevo fatto parve assumere l’inesistenza d’un sogno. Ebbi come un mancamento repentino di pensieri, un intervallo vacuo, aspettando.
Appena riconobbi nell’andito il passo greve della nutrice, le andai incontro. Mia madre non la seguiva. Senza guardarla in faccia, le dissi:
– Dorme ancóra.
E m’allontanai rapidamente: salvo!
XLV.
Da quell’ora s’impadronì del mio spirito una specie d’inerzia quasi stupida, forse perché ero esausto, sfinito, incapace d’altri sforzi. La mia conscienza perse la sua terribile lucidezza, la mia attenzione s’indebolì, la mia curiosità non fu pari all’importanza degli avvenimenti che si svolgevano. I miei ricordi, infatti, sono confusi, scarsi, composti d’imagini non bene distinte.
Quella sera rientrai nell’alcova, rividi Giuliana, mi trattenni al suo capezzale per qualche tempo. Durai una gran fatica a parlare. Le chiesi, guardandola negli occhi:
– Hai pianto?
Ella rispose:
– No.
Ma era più triste di prima. Era pallida come la sua camicia. Le chiesi:
– Che hai?
Ella rispose:
– Nulla. E tu?
– Io non mi sento bene. Mi duole tanto il capo…
Una immensa stanchezza mi prostrava; tutte le membra mi pesavano. Reclinai il capo sul lembo del guanciale; rimasi alcuni minuti in quell’atto oppresso da una pena indefinita. Sussultai udendo la voce di Giuliana che diceva:
– Tu mi nascondi qualche cosa.
– No, no. Perché?
– Perché sento che tu mi nascondi una cosa.
– No, no; t’inganni.
– M’inganno.
Tacque. Appoggiai di nuovo il capo sul lembo. Dopo alcuni minuti ella mi disse all’improvviso:
– Tu lo vedi spesso.
Mi sollevai per guardarla, sbigottito.
– Per volontà tua vai a vederlo, vai a cercarlo – ella soggiunse. – Lo so. Anche oggi…
Ebbene?
– Ho paura di questo, ho paura per te. Io ti conosco. Tu ti tormenti, tu vai là a tormentarti, vai a divorarti il cuore… Io ti conosco. Ho paura. Tu non sei rassegnato, no, no; tu non puoi essere rassegnato. Non m’inganni, Tullio. Anche stasera, dianzi, tu sei stato là…
– Come lo sai?
– Lo so, lo sento.
Il sangue mi s’era ghiacciato.
– Vorresti tu che mia madre sospettasse? Vorresti tu che s’accorgesse d’un’avversione?
Parlavamo sottovoce. Anch’ella aveva l’aria sbigottita. E io pensavo: «Ecco, ora entra mia madre stravolta gridando: – Raimondo muore! -».
Entrarono Maria e Natalia con Miss Edith. E l’alcova si rallegrò del loro cinguettio. Parlarono della cappella, del presepe, delle candele, delle cornamuse, minutamente.
Lasciai Giuliana per ritirarmi nella mia camera, protestando il dolor di capo. Come fui sul letto, la stanchezza mi vinse quasi sùbito. Dormii profondo, molte ore.
La luce del giorno mi trovò calmo, tenuto da una strana indifferenza, da una incuriosità inesplicabile. Nessuno era venuto a interrompermi il sonno, dunque nulla di straordinario era accaduto. Gli avvenimenti della vigilia mi apparivano irreali e lontanissimi. Sentivo un distacco immenso tra me e il mio essere anteriore, tra quel che ero e quel che ero stato. C’era una discontinuità tra il periodo passato e il presente della mia vita psichica. E io non facevo alcuno sforzo per raccogliermi, per comprendere il fenomeno singolare. Avevo ripugnanza per qualunque attività; cercavo di conservarmi in quella specie d’apatia fittizia sotto la quale giaceva il viluppo oscuro di tutte le agitazioni trascorse; evitavo d’investigarmi, per non risvegliare quelle cose che parevano morte, che parevano non appartenere più alla mia esistenza reale. Somigliavo un poco a quei malati che, avendo perduta la sensibilità d’una metà dei corpo, si figurano d’avere al loro fianco, nel loro letto, un cadavere.
Ma venne Federico a battere alla mia porta. Entrò. Che nuova mi portava? La sua presenza mi scosse.
– Iersera non ci vedemmo – disse. – Tornai tardi. Come stai?
– Né bene né male.
– Iersera ti doleva il capo. È vero?
– Sì: per questo andai a letto presto.
– Sei un po’ verde, stamani. Oh, mio Dio, quando finirà la disgrazia? Tu non stai bene, Giuliana è sempre a letto, ho incontrata la mamma or ora tutta sconvolta perché Raimondo stanotte ha tossito!
– Ha tossito?
– Già. Si tratta probabilmente d’un po’ di raffreddore; ma la mamma, al solito, esagera…
– È venuto il medico?
– Non ancóra. Ma mi pare che tu sia peggio della mamma.
– Sai, qualunque apprensione, quando si tratta di bambini, è giustificabile. Un nulla basta…
Egli mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi, e io ne avevo sgomento e vergogna.
Quando se n’andò, balzai dal letto. Pensavo: «Dunque gli effetti cominciano; dunque non c’è più dubbio. Ma quanto tempo ancóra vivrà? È anche possibile che non muoia… Ah, no, è impossibile che non muoia. L’aria era gelata, mozzava il respiro». E rividi dentro di me il bambino respirante, la piccola bocca socchiusa, la fossetta della gola.
XLVI.
Il dottore diceva:
– Non c’è nessun motivo d’inquietudine. Si tratta d’un raffreddore leggerissimo. I bronchi sono liberi.
Egli si chinò di nuovo sul petto denudato di Raimondo ad ascoltare.
– Manca assolutamente qualunque rumore. Potete assicurarvene voi stesso, col vostro orecchio – soggiunse volgendosi a me.
Anch’io appoggiai l’orecchio sul fragile petto, e ne sentii il tepore blando.
– Infatti…
E guardai mia madre che trepidava dall’altra parte della culla.
I soliti sintomi della bronchite mancavano. Il bambino era tranquillo, aveva qualche lieve accesso di tosse a lunghi intervalli, prendeva il latte con la frequenza consueta, dormiva d’un sonno grave ed eguale. Io stesso, ingannato dalle apparenze, dubitavo: «Dunque il mio tentativo è stato inutile. Pare ch’egli non debba morire. Che vita tenace!». E mi tornò il rancore primitivo contro di lui, più acre. Il suo aspetto calmo e roseo mi esasperò. Avevo dunque sofferto tutte quelle angosce, m’ero esposto a quel pericolo per nulla! Si mesceva alla mia collera sorda una specie di stupore superstizioso per la straordinaria tenacità di quella vita: «Credo che non avrò il coraggio di ricominciare. E allora? Sarò io la sua vittima; e non potrò sfuggirgli». E il piccolo fantasma perverso, il fanciullo bilioso e felino, pieno d’intelligenza e d’istinti malvagi, mi riapparve; di nuovo mi fissò con i suoi duri occhi grigi, in atto di sfida. E le scene terribili nell’ombra delle stanze deserte, le scene che aveva un tempo create la mia imaginazione ostile, mi si ripresentarono; di nuovo assunsero il rilievo, il movimento, tutti i caratteri della realtà.
Era una giornata bianca, con un presentimento di neve. L’alcova di Giuliana mi parve ancóra un rifugio. L’intruso non doveva uscire dalla sua stanza, non poteva venire a perseguitarmi fin là dentro. E io m’abbandonai tutto alla mia tristezza senza nasconderla.
Pensavo, guardando la povera malata: «Ella non guarirà, non si leverà». Le strane parole della sera innanzi mi tornavano alla memoria, mi turbavano. Senza dubbio, l’intruso era per lei un carnefice com’era per me. Senza dubbio, ella non poteva pensare ad altro che a lui, morendone a poco a poco. Tutto quel peso su quel cuore così debole!
Con la discontinuità delle imagini che si svolgono nel sogno, si risollevavano nel mio spirito alcuni frammenti della vita passata: ricordi d’un’altra malattia, d’una lontana convalescenza. Mi indugiai a ricomporre quei frammenti, a ricostrurre quel periodo così dolce e così doloroso in cui avevo gittato il seme della mia sventura. La diffusa bianchezza della luce mi rammentava quel pomeriggio lento che io e Giuliana avevamo passato leggendo un libro di poesia, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. E io rivedevo il suo indice affilato sul margine e il segno dell’unghia.
Accueillez la voix qui persiste
Dans son naïf épithalame.
Allez, rien n’est meilleur à l’âme
Que de faire une âme moins triste!
Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:
– Tu… potresti dimenticare?
Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:
– Silenzio.
Rivivevo quel lembo di vita, in sensazione reale e profonda: e continuavo, continuavo a rivivere, giungevo alla mattina della prima levata, alla mattina terribile. Riudivo la voce ridente e interrotta; rivedevo il gesto dell’offerta, e lei stesa nella poltrona dopo il colpo improvviso, e il séguito. Perché la mia anima non poteva più distaccare da sé quelle imagini? Era vano, era vano il rimpianto. «Troppo tardi»
– A che pensi? – mi chiese Giuliana che forse fino allora, durante il mio silenzio, non d’altro aveva sofferto che della mia tristezza.
Io non le nascosi il mio pensiero. Ella disse, con una voce che le usciva dall’intimo petto fioca ma più penetrante d’un grido:
– Ah, io avevo i cieli per te nella mia anima!
Soggiunse, dopo una pausa lunga in cui ella forse aveva assorbito nel cuore le lacrime che non apparivano:
– Ora, io non posso consolarti! Non c’è consolazione per te né per me; non ci potrà esser mai… Tutto è perduto.
Io dissi:
– Chi sa!
E ci guardammo; ed era manifesto che ambedue pensavamo in quel punto alla medesima cosa: alla possibile morte di Raimondo.
Esitai un istante; e poi volli domandarle, alludendo al dialogo avvenuto una sera sotto gli olmi:
– Hai pregato Iddio?
La voce mi tremava forte.
Ella rispose (l’udii appena):
– Sì.
E chiuse gli occhi, e si voltò sul fianco, affondò la testa nel guanciale, si ritrasse, si ristrinse in sé stessa sotto le coperte, come presa da un gran freddo.