Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 17
XXXVIII.
La mattina dopo, la cerimonia del battesimo si compì senza festa, senza pompa, per riguardo allo stato di Giuliana. Il bambino fu portato nella cappella per la comunicazione interna. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, Miss Edith, la levatrice, la nutrice, il cavaliere Jemma andarono ad assistere. Io rimasi al capezzale dell’inferma.
Una grave sonnolenza la teneva. Il respiro le esciva affannato dalla bocca semiaperta, pallida come la più pallida delle rose fiorite all’ombra. L’ombra occupava l’alcova. Io pensavo, guardandola: «Dunque non la salverò? Avevo allontanata la morte; ed ecco, la morte ritorna. Certo, se non accade un mutamento repentino, ella morirà. Prima, quando riuscivo a tener lontano da lei Raimondo, quando riuscivo a darle qualche illusione e qualche oblio con la mia tenerezza, pareva ch’ella volesse guarire. Ma da che ella vede il figliuolo, da che è ricominciato il supplizio, va di giorno in giorno perdendosi, dissanguandosi peggio che se l’emorragia le continuasse. Io assisto alla sua agonia. Ella non mi ascolta più, non m’obbedisce più, come prima. Da chi le verrà la morte? Da lui. Egli, egli l’ucciderà, sicuramente…».
Un’onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Vidi il piccolo essere malefico che si gonfiava di latte, che prosperava in pace, senza alcun pericolo, circondato d’infinite cure. «Mia madre ama più lui che Giuliana! Mia madre si occupa più di lui che di questa povera morente! Ah, bisogna che io lo tolga di mezzo, ad ogni costo.» E la visione del delitto già consumato mi balenò dentro: la visione del morticino in fasce, del piccolo cadavere innocuo su la bara. «Il battesimo e il suo viatico. E Giovanni lo regge su le sue braccia…»
Una curiosità subitanea mi punse. Lo spettacolo doloroso mi attirò. Giuliana era ancora assopita. Uscii dall’alcova adagio; uscii dalla stanza; chiamai Cristina, la misi a guardia; poi mi diressi verso il coretto, a passo veloce, con un’ansia che mi soffocava.
L’usciuolo era aperto. Scorsi un uomo inginocchiato d’innanzi alla grata. Riconobbi Pietro, il vecchio servitore fedele, quello che m’aveva veduto nascere ed aveva assistito al mio battesimo. Egli si levò, con un po’ di pena.
– Rimani, rimani, Pietro – gli dissi sottovoce, mettendogli una mano su la spalla per costringerlo a inginocchiarsi di nuovo.
E m’inginocchiai al suo fianco, appoggiai la fronte alla grata, guardai nella cappella sottoposta. Vedevo tutto, con una chiarezza perfetta; udivo le formule rituali.
La cerimonia era già incominciata. Seppi da Pietro che il bambino aveva già ricevuto il sale. Era ministro il parroco di Tussi, don Gregorio Artese. Questi e il patrino recitavano ora il Credo: l’uno a voce alta, l’altro a voce bassa di seguito. Giovanni reggeva il bambino sul braccio destro, su la mano che il giorno innanzi aveva seminato il frumento. La sinistra posava tra i nastri e i merletti candidi. E quelle mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, quelle mani incallite su gli strumenti dell’agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora nel reggere quell’infante avevano una delicatezza e quasi una timidezza così gentili che io non potevo desistere dal guardarle. Raimondo non piangeva; moveva di continuo la bocca piena d’una bava liquida che gli colava pel mento sul bavaglio trapunto.
Dopo l’esorcismo, il parroco bagnò il dito nella saliva e toccò i piccoli orecchi rosei proferendo la parola miracolosa:
– Ephpheta.
Quindi toccò le nari dicendo:
– In odorem suavitatis…
Quindi intinse il pollice nell’olio dei Catecumeni; e, mentre Giovanni teneva supino su le sue braccia l’infante, unse a questi in modo di croce il sommo del petto; e, come Giovanni lo rivolse prono, unse il sommo del dorso tra le scapole, in modo di croce, dicendo:
– Ego te linio oleo salutis in Christo Jesu Domino nostro…
E con un fiocco di bambagia deterse le parti che aveva unte.
Allora depose la stola paonazza, il colore della doglia e della tristezza; e prese la stola bianca in segno di gioia, ad annunziare che la macchia originale stava per essere cancellata. E chiamò Raimondo per nome, e gli rivolse le tre domande solenni. E il patrino rispose:
– Credo, credo, credo.
La cappella era singolarmente sonora. Da una delle alte finestre ovali entrava una zona di sole andando a ferire una lapide marmorea del pavimento sotto il quale erano i sepolcri profondi ove molti dei miei maggiori dormivano in pace. Mia madre e mio fratello stavano l’una accanto all’altro, dietro a Giovanni; Maria e Natalia si sollevavano su la punta dei piedi per giungere a vedere il piccolo, curiose, di tratto in tratto sorridendo e bisbigliando fra loro. Giovanni si volgeva un poco, qualche volta, a quei bisbigli, con un atto benigno in cui si mostrava tutta l’ineffabile tenerezza senile verso i fanciulli traboccante da quel gran cuore di avo abbandonato.
– Raymunde, vis baptizari? – domandò il ministro.
– Volo – rispose il patrino, ripetendo la parola suggerita.
Il chierico presentò il bacile d’argento ove luccicava l’acqua battesimale. Mia madre tolse la cuffia al battezzando, mentre il patrino lo porgeva prono all’abluzione. Il capo rotondo, su cui potei distinguere le eruzioni biancastre della crosta lattea, penzolò verso il bacile. E il parroco, attingendo l’acqua con un vàscolo, la versò tre volte su quel capo, facendo ogni volta il segno della croce.
– Ego te baptizo in nomine Patris, et Filii, et Spiritus sancti.
Raimondo si mise a vagire forte; più forte mentre gli asciugavano il capo. E, come Giovanni lo risollevò, io vidi quel viso arrossato dall’afflusso di sangue e dallo sforzo, aggrinzato dai moti della bocca, macchiato di bianchiccio anche su la fronte. Ed ebbi dai vagiti pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso, la stessa esasperazione d’ira. Nulla di lui m’irritava quanto la voce, quanto quel miagolio ostinato che mi aveva ferito così crudamente la prima volta nell’alba lugubre d’ottobre. Era per i miei nervi un urto intollerabile.
Il prete intinse il pollice nel sacro Crisma ed unse la fronte al battezzato, recitando la formula rituale che i vagiti coprivano. Quindi gli impose la veste bianca, il simbolo dell’Innocenza.
– Accipe vestem candidant…
Diede quindi al pattino il cero benedetto.
– Accipe lampadem ardentem…
L’Innocente si quietò. I suoi occhi si fissarono su la fiammella che tremolava in cima al lungo cero dipinto. Giovanni di Scòrdio reggeva sul braccio destro il nuovo cristiano e nella mano sinistra il simbolo del fuoco divino, con un’attitudine semplice e grave, guardando il sacerdote che recitava la formula. Egli avanzava di tutto il capo gli astanti. Nessuna cosa d’intorno era candida come la sua canizie, neppure la veste dell’Innocente.
– Vade in pace, et Dominus sit tecum.
– Amen.
Mia madre prese dal braccio del vecchio l’Innocente, se lo strinse al petto, lo baciò. Mio fratello anche lo baciò. Tutti gli astanti, l’un dopo l’altro, lo baciarono.
Pietro, al mio fianco, ancóra in ginocchio, piangeva. Sconvolto, fuori di me, balzai in piedi, uscii, attraversai di corsa gli anditi, entrai all’improvviso nella stanza di Giuliana.
Cristina mi domandò sottovoce, sbigottita:
– Che è accaduto, signore?
– Nulla, nulla. È sveglia?
– No, signore. Pare che dorma.
Discostai le cortine, entrai adagio nell’alcova. Da prima nell’ombra non scorsi se non il biancore del guanciale. M’appressai, mi chinai. Giuliana teneva gli occhi aperti, e mi guardava fissamente. Forse indovinò al mio aspetto tutte le mie angosce; ma non parlò. Richiuse gli occhi, come per non riaprirli più.
XXXIX.
Incominciò da quel giorno l’ultimo periodo precipitoso di quella lucida demenza che doveva condurmi al delitto. Incominciò da quel giorno la premeditazione del mezzo più facile e più sicuro per far morire l’Innocente.
Fu una premeditazione fredda, acuta e assidua che assorbì tutte le mie facoltà interiori. L’idea fissa mi possedeva intero, con una forza e una tenacità incredibili. Mentre tutto il mio essere si agitava in un orgasmo supremo, l’idea fissa lo dirigeva allo scopo come su per una lama d’acciaio chiara, rigida, senza fallo. La mia perspicacia pareva triplicata. Nulla mi sfuggiva, dentro e fuori di me. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. Simulai, dissimulai senza tregua, non soltanto verso mia madre, mio fratello, gli altri inconsapevoli, ma anche verso Giuliana.
Io mi mostrai a Giuliana rassegnato, pacificato, talvolta quasi immemore. Evitai studiosamente qualunque allusione all’intruso. Cercai in tutti i modi rianimarla, inspirarle fiducia, indurla all’osservanza delle norme che dovevano renderle la salute. Moltiplicai le mie premure. Volli avere per lei tenerezze così profonde e così obliose che ella potesse in quelle rigustare i sapori della vita più freschi e più sinceri. Ancóra una volta ebbi la sensazione di trasfondermi nel corpo fragile dell’inferma, di comunicarle un po’ della mia forza, di dare un impulso al suo debole cuore. Pareva che io la spingessi a vivere di giorno in giorno, quasi insuffiandole un vigore fittizio, nell’attesa dell’ora tragica e liberatrice. Ripetevo dentro di me: «Domani!». E il domani giungeva, trascorreva, si dileguava senza che l’ora fosse scoccata. Ripetevo: «Domani!».
Ero convinto che la salvezza della madre stesse nella morte del figliuolo. Ero convinto che, scomparso l’intruso, ella sarebbe guarita. Pensavo: «Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d’ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l’uno dell’altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall’anima di lei perfino l’ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell’amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova». La visione dell’avvenire m’accendeva d’impazienza. L’incertezza mi diveniva intollerabile. Il delitto mi appariva scevro di orrore. Io mi rimproveravo acremente le perplessità nelle quali m’indugiavo con troppa prudenza; ma nessun lampo ancóra aveva attraversato il mio cervello, non ero ancor riuscito a trovare il mezzo sicuro.
Bisognava che Raimondo sembrasse morire di morte naturale. Bisognava che anche al medico non potesse balenare alcun sospetto. Dei diversi metodi studiati nessuno mi parve eligibile, praticabile. E intanto, mentre aspettavo il lampo rivelatore, la trovata luminosa, io mi sentivo attratto da uno strano fascino verso la vittima.
Spesso entravo all’improvviso nella stanza della nutrice, palpitando così forte che temevo ella udisse i battiti. Si chiamava Anna; era una femmina di Montegorgo Pausula, esciva da una grande razza di viragini alpestri. Aveva talvolta l’aspetto d’una Cibele di rame, a cui mancasse la corona di torri. Portava la foggia del suo paese: una gonna di scarlatto a mille pieghe diritte e simmetriche, un busto nero a ricami d’oro, da cui pendevano due maniche lunghe dove ella di rado introduceva le braccia. Il suo capo si levava su dalla camicia bianchissima, oscuro; ma il bianco degli occhi e il bianco dei denti vincevano d’intensità il candore del lino. Gli occhi parevano di smalto, rimanevano quasi sempre immobili, senza sguardo, senza sogno, senza pensiero. La bocca era larga, socchiusa, taciturna, illustrata da una chiostra di denti fitti ed eguali. I capelli, così neri che davano riflessi di viola, partiti su la fronte bassa, terminavano in due trecce dietro gli orecchi attorte come le corna dell’ariete. Ella stava quasi di continuo assisa, reggendo il poppante, in attitudini statuarie, né triste né lieta.
Io entrava. La stanza per lo più era nell’ombra. Io vedevo biancheggiare le fasce di Raimondo su le braccia della cupa femmina possente che mi fissava con quegli occhi d’idolo inanimato senza parlare e senza sorridere.
Rimanevo là, talvolta, a guardare il poppante appeso alla mammella rotonda, singolarmente chiara in confronto del viso, rigata di vene azzurrognole. Poppava ora piano ora forte, ora svogliato ora mosso da un’avidità subitanea. La guancia molle secondava il moto delle labbra, la gola palpitava ad ogni sorso, il naso quasi scompariva premuto dalla mammella gonfia. Mi pareva visibile il benessere sparso per quel tenero corpo dall’onda di quel latte fresco, sano e sostanziale. Mi pareva che ad ogni nuovo sorso la vitalità dell’intruso divenisse più tenace, più resistente, più malefica. Provavo un sordo rammarico nel notare ch’egli cresceva, ch’egli fioriva, ch’egli non portava in sé alcun indizio d’infermità tranne quelle lievi croste biancastre innocue. Pensavo: «Ma tutte le agitazioni, tutte le sofferenze della madre, mentre egli era ancóra nel ventre, non gli hanno nociuto? O egli ha veramente qualche vizio organico non ancóra manifesto, che potrebbe svilupparsi in seguito e ucciderlo?».
Un giorno, vincendo la ripugnanza, avendolo trovato senza fasce nella culla, lo palpai, lo esaminai dal capo alle piante, misi l’orecchio sul suo petto per ascoltargli il cuore. Egli ritraeva le piccole gambe e poi spingeva forte; agitava le mani piene di fossette e di pieghe; si ficcava in bocca le dita terminate da unghie minuscole che sporgevano in fuori per un cerchiolino chiaro. Gli anelli della carne si arrotondavano morbidi ai polsi, ai malleoli, dietro i ginocchi, su le cosce, su gli inguini, sul pube.
Più volte lo guardai anche mentre dormiva, lo guardai a lungo, pensando e ripensando al mezzo, distratto dalla visione interiore del morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese. Egli aveva il sonno calmissimo. Giaceva supino, tenendo le mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A quando a quando le sue labbra umide facevano l’atto di poppare. Se mi giungeva al cuore l’innocenza di quel sonno, se l’atto inconscio di quelle labbra m’impietosiva, io dicevo a me stesso, come per raffermare il mio proposito: «Deve morire». E mi rappresentavo le sofferenze già patite per lui, le sofferenze recenti, le menti, e quanto d’affetto egli usurpava a danno delle mie creature, e l’agonia di Giuliana, e tutti i dolori e tutte le minacce che chiudeva la nuvola ignota sul nostro capo. E così rinfocolavo la mia volontà micidiale, così rinnovavo sul dormente la condanna. In un angolo, all’ombra, stava seduta a custodia la femina di Montegorgo, taciturna, immobile come un idolo; e il bianco degli occhi e il bianco dei denti non lucevano meno dei larghi cerchi d’oro.
XL.
Una sera (fu il 14 di dicembre), mentre io e Federico tornavamo alla Badiola, scorgemmo d’innanzi a noi sul viale un uomo che riconoscemmo per Giovanni di Scòrdio.
– Giovanni! – gridò mio fratello.
Il vecchio si fermò. Noi ci avvicinammo.
– Buona sera, Giovanni. Che novità?
Il vecchio sorrideva peritoso, impacciato, quasi che noi l’avessimo còlto in fallo.
– Venivo – balbettò – venivo… pel mio figlioccio.
Era timidissimo. Pareva che stesse lì lì per chiedere perdono di quell’ardire.
– Vorresti vederlo? – gli chiese Federico, a bassa voce, come per fargli una proposta in confidenza, avendo certo compreso il sentimento dolce e triste che moveva il cuore di quell’avo abbandonato.
– No, no… Venivo soltanto per domandare…
– Non vuoi vederlo dunque.
– No… sì… troppo disturbo forse… a quest’ora…
– Andiamo – concluse Federico, prendendolo per la mano come un fanciullo. – Vieni a vederlo.
Rientrammo. Salimmo fino alla stanza della nutrice.
Mia madre era là. Sorrise con benignità a Giovanni. Ci accennò di non far rumore.
– Dorme – disse.
Volgendosi a me, soggiunse con inquietudine:
– Oggi, verso sera, ha tossito un poco.
La notizia mi turbò; e il mio turbamento apparve così che mia madre credette di rassicurarmi soggiungendo:
– Ma poco, sai? appena appena; una cosa da nulla.
Federico e il vecchio già s’erano appressati alla culla e guardavano il piccolo dormente, alla luce della lampada. Il vecchio stava tutto chino. E nessuna cosa d’intorno era candida come la sua canizie.
– Bacialo – gli bisbigliò Federico.
Egli si sollevò, guardò me e mia madre con un’aria smarrita; poi si passò una mano su la bocca, sul mento dove la barba era mal rasa.
Disse sottovoce a mio fratello col quale aveva maggior confidenza:
– Se lo bacio, lo pungo. Certo, si sveglia.
Mio fratello, vedendo che il povero vecchio diserto si struggeva dal desiderio di baciare il bambino, lo incorò con un gesto. E allora quel grosso capo canuto si piegò su la culla piano piano, piano piano.
XLI.
Quando rimanemmo soli io e mia madre nella stanza, davanti alla culla dove Raimondo ancóra dormiva col bacio in fronte, ella disse pietosa:
– Povero vecchio! Sai tu che viene quasi tutte le sere? Ma di nascosto. Me l’ha detto Pietro che l’ha veduto gironzare intorno alla casa. Il giorno del battesimo, volle che gli indicassero di fuori la finestra di questa stanza, forse per venire a guardarla… Povero vecchio! Come mi fa pena!
Io ascoltavo il respiro di Raimondo. Non mi parve mutato. Il suo sonno era tranquillo. Dissi:
– Dunque oggi ha tossito…
– Sì, Tullio, un poco. Ma non t’impensierire.
– Ha preso freddo, forse…
– Non mi par possibile che abbia preso freddo; con tante cautele!
Un lampo mi attraversò il cervello. Un gran tremito interno mi assalì all’improvviso. La vicinanza di mia madre mi divenne a un tratto insopportabile. Mi smarrii, mi confusi, ebbi paura di tradirmi. Il pensiero mi balenava dentro con tale lucidità, con tale intensità che io temetti: «Qualche cosa dalla mia faccia deve trasparire». Era un timore vano, ma non riuscivo a dominarmi. Feci un passo avanti, e mi chinai su la culla.
Di qualche cosa mia madre s’accorse ma in mio favore, perché soggiunse:
– Come sei apprensivo tu! Non senti che respiro calmo? Non vedi come dorme bene?
Ma pur dicendomi questo, ella aveva nella voce l’inquietudine e non sapeva nascondermi la sua apprensione.
– Sì, è vero; non sarà nulla – risposi comprimendomi. – Rimani qui?
– Finché non torna Anna.
– Io vado.
Me n’andai. Andai da Giuliana. Ella m’aspettava. Tutto era pronto per la sua cena a cui solevo prender parte affinché la piccola tavola da malata le sembrasse meno uggiosa e il mio esempio e le mie premure la spingessero a mangiare. Io mi mostrai negli atti, nelle parole, eccessivo, quasi allegro, diseguale. Ero in preda a una particolare sovreccitazione, e n’avevo un’esatta conscienza, e potevo sorvegliarmi ma non moderarmi. Bevvi, contro la mia consuetudine, due o tre bicchieri del vino di Borgogna prescritto a Giuliana. Volli che ella anche bevesse qualche sorso di più.
– Ti senti un poco meglio; è vero?
– Sì, sì.
– Se tu sarai obediente, io ti prometto che per Natale ti farò levare. Ci sono ancóra dieci giorni. In dieci giorni, se tu vorrai, diventerai forte. Bevi ancóra un sorso, Giuliana!
Ella mi guardava un po’ attonita, un po’ curiosa, facendo qualche sforzo per prestarmi tutta la sua attenzione. Ella era già affaticata, forse; le palpebre incominciavano forse a pesarle. Quella positura elevata, dopo un certo tempo, provocava in lei ancóra talvolta i sintomi dell’anemia cerebrale.
Bagnò le labbra nel bicchiere che le porgevo.
– Dimmi, – io seguitai – dove ti piacerebbe di passare la convalescenza?
Ella sorrise debolmente.
– Su la Riviera? Vuoi che scriva ad Augusto Arici perché ci trovi una villa? Se Villa Ginosa fosse disponibile! Ti ricordi?
Ella sorrise più debolmente ancóra.
– Sei stanca? T’affatica forse la mia voce…
M’avvidi ch’ella stava per cadere in deliquio. La sostenni, le tolsi i guanciali che la rialzavano, l’adagiai mettendole il capo più basso, la soccorsi nei modi consueti. Dopo un poco, parve ch’ella riacquistasse i sensi. Mormorò come in sogno:
– Sì, sì, andiamo…
XLII.
Un’irrequietudine strana mi teneva. Talvolta era come un godimento, come un assalto di gioia confusa. Talvolta era come un’impazienza acutissima, una smania insofferibile. Talvolta era come un bisogno di vedere qualcuno, d’andare in cerca di qualcuno, di parlare, di espandermi. Talvolta era come un bisogno di solitudine, di correre a rinchiudermi in un luogo sicuro per rimanere solo con me stesso, per guardarmi bene a dentro, per sviluppare il mio pensiero, per considerare e studiare tutte le particolarità dell’evento prossimo, per prepararmi. Questi moti diversi e contrarii, ed altri innumerevoli moti indefinibili inesplicabili, si avvicendavano nel mio spirito rapidamente, con una straordinaria accelerazione della mia vita interiore.
Il lampo che aveva attraversato il mio cervello, quel guizzo di luce sinistra, pareva che avesse illuminato a un tratto uno stato di conscienza preesistente sebbene immerso nell’oscurità, pareva che avesse risvegliato uno strato profondo della mia memoria. Sentivo di ricordarmi ma, per quanti sforzi io facessi, non giungevo a rintracciare le origini del ricordo né a scoprirne la natura. Certo, mi ricordavo. Era il ricordo d’un lettura lontana? Avevo trovato descritto in qualche libro un caso analogo? 0 qualcuno, un tempo, m’aveva narrato quel caso come occorso nella vita reale? Oppure quel sentimento del ricordo era illusorio, non era se non l’effetto d’una associazione d’idee misteriosa? Certo, mi pareva che il mezzo mi fosse stato suggerito da qualcuno estraneo. Mi pareva che qualcuno a un tratto fosse venuto a togliermi da ogni perplessità dicendomi: «Bisogna che tu faccia così, come fece quell’altro nel tuo caso». Ma chi era quell’altro? In qualche modo, certo, io dovevo averlo conosciuto. Ma, per quanti sforzi io facessi, non riuscivo a distaccarlo da me, a rendermelo obiettivo. M’è impossibile definire con esattezza il particolare stato di conscienza in cui mi trovavo. Io avevo la nozione completa d’un fatto in tutti i punti del suo svolgimento, avevo cioè la nozione d’una serie di azioni per cui era passato un uomo nel ridurre ad effetto un dato proposito. Ma quell’uomo, il predecessore, m’era ignoto; e io non potevo associare a quella nozione le imagini relative senza mettere me stesso nel luogo di colui. Io dunque vedevo me stesso compiere quelle speciali azioni già compiute da un altro, imitare la condotta tenuta da un altro in un caso simile al mio. Il sentimento della spontaneità originale mi mancava.
Quando uscii dalla stanza di Giuliana, passai qualche minuto nell’incertezza girando per gli anditi alla ventura. Non incontrai nessuno. Mi diressi verso la stanza della nutrice. Origliai alla porta; udii la voce sommessa di mia madre; mi allontanai.
Ella non s’era mossa forse di là? Il bambino aveva avuto forse qualche accesso di tosse più grave? Io conoscevo bene il catarro bronchiale dei neonati, la malattia terribile dalle apparenze ingannevoli. Mi ricordai del pericolo corso da Maria nel suo terzo mese di vita, mi ricordai di tutti i sintomi. Anche Maria da principio aveva alcune volte sternutato, tossito leggermente: aveva mostrato molta tendenza al sonno. Pensai: «Chi sa! Se aspetto, se non mi lascio trascinare, forse il buon Dio interviene a tempo, io sono salvo».
Tornai indietro; origliai di nuovo; udii ancóra la voce di mia madre; entrai.
– Dunque, come sta Raimondo? – chiesi, senza nascondere il mio tremito.
– Bene. È quieto; non ha più tossito: ha il respiro regolare, il calore naturale. Guarda. Sta poppando.
Mia madre mi parve infatti rassicurata, tranquilla.
Anna, seduta sul letto, dava il latte al bambino che lo beveva con avidità, mettendo di tratto in tratto un piccolo rumore con le labbra nel suggere. Anna aveva il volto reclinato, gli occhi fissi al pavimento, un’immobilità bronzea. La fiammella oscillante della lampada le gittava luci ed ombre su la gonna rossa.
– Non fa troppo caldo qui dentro? – dissi, provando un po’ di soffocazione.
La camera infatti era caldissima. In un angolo, su la cupola d’un braciere si scaldavano alcune pezzuole, una fascia. Si udiva anche un gorgoglio d’acqua in bollore. Si udiva a quando a quando il tintinno dei vetri sotto le ventate che fischiavano o rugghiavano.
– Senti che tramontana si rivolta! – mormorò mia madre. Io non avvertii più gli altri rumori. Ascoltai il vento, con un’attenzione ansiosa. Mi corse qualche brivido per le ossa, quasi che m’avesse penetrato un filo di quel freddo. Andai verso la finestra. Nell’aprire uno scuretto, le dita mi tremavano. Appoggiai la fronte contro il vetro gelido e guardai di fuori, ma l’appannatura prodotta sùbito dall’alito m’impediva di vedere. Levai gli occhi e scorsi a traverso il vetro più alto scintillare il cielo stellato.
– È sereno – dissi, uscendo dal vano della finestra. Avevo dentro di me l’imagine della notte adamantina e micidiale, mentre gli occhi mi correvano a Raimondo che pendeva ancóra dalla poppa.
– Ha mangiato stasera Giuliana? – mi domandò mia madre, con un accento amorevole.
– Sì – le risposi, senza dolcezza; e pensai: «In tutta la sera tu non hai trovato un minuto per venire a vederla! Non è la prima volta che la trascuri. Hai dato il cuore a Raimondo».