Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 7
Come un sogno stava d’innanzi a noi la casa. Su la facciata rustica, per tutte le comici, per tutte le sporgenze, lungo il gocciolatoio, sopra gli architravi, sotto i davanzali delle finestre, sotto le lastre dei balconi, tra le mensole, tra le bugne, dovunque le rondini avevano nidificato. I nidi di creta innumerevoli, vecchi e nuovi, agglomerati come le cellette di un alveare, lasciavano pochi intervalli liberi. Su quegli intervalli e su le stecche delle persiane e su i ferri delle ringhiere gli escrementi biancheggiavano come spruzzi di calcina. Benché chiusa e disabitata, la casa viveva. Viveva d’una vita irrequieta, allegra e tenera. Le rondini fedeli l’avvolgevano dei loro voli, dei loro gridi, dei loro luccichii, di tutte le loro grazie e di tutte le loro tenerezze, senza posa. Mentre gli stormi s’inseguivano per l’aria in caccia con la velocità delle saette, alternando i clamori, allontanandosi e riavvicinandosi in un attimo, radendo gli alberi, levandosi nel sole, gittando a tratti dalle macchie bianche un baleno, instancabili, ferveva dentro ai nidi e intorno ai nidi un’altra opera. Delle rondini covaticce alcune rimanevano per qualche istante sospese agli orifizi; altre si reggevano su le ali brillando; altre s’introducevano a mezzo, lasciando di fuori la piccola coda forcuta che tremolava vivamente, nera e bianca su la mota giallastra; altre di dentro escivano a mezzo, mostrando un po’ del petto lustro, la gola fulva; altre, fino allora invisibili, si spiccavano a volo con un grido acutissimo, scoccavano. E tutta quella mobilità alacre ed ilare intorno alla casa chiusa, tutta quella vivacità di nidi intorno al nostro antico nido erano uno spettacolo così dolce, un così fino miracolo di gentilezza che noi per qualche minuto, come in una pausa della nostra febbre, ci obliammo a contemplarlo.
Io ruppi l’incanto, alzandomi. Dissi:
– Ecco la chiave. Che aspettiamo?
– Sì, Tullio, aspettiamo ancóra un poco! – ella supplicò, paventando.
– Io vado ad aprire.
E mi mossi verso la porta; salii i tre gradini che parevano quelli di un altare. Mentre stavo per girare la chiave col tremito del devoto che apre il reliquiario, sentii dietro di me Giuliana che m’aveva seguito furtiva, leggera come un’ombra.
Ebbi un sussulto.
– Sei tu?
– Sì, sono io – bisbigliò ella, carezzevole, spirandomi nell’orecchio il suo alito.
E, standomi alle spalle, mi cinse il collo con le braccia in modo che i suoi polsi delicati s’incrociarono sotto il mio mento.
L’atto furtivo, quel tremolio di riso ch’era nel suo bisbiglio e che tradiva la sua gioia infantile d’avermi sorpreso, quella maniera d’allacciarmi, tutte quelle grazie agili mi ricordarono la Giuliana d’un tempo, la giovine e tenera compagna degli anni felici, la creatura deliziosa dalla lunga treccia, dalle fresche risa, dalle arie di fanciulla. Un soffio della stessa felicità m’investì, sul limitare della casa memore.
– Apro? – domandai, tenendo ancóra la mano su la chiave per girarla.
– Apri – ella rispose, senza lasciarmi, spirandomi ancóra il suo alito nel collo.
Allo stridere che fece la chiave nella serratura, ella mi legò più forte con le braccia, mi si serrò addosso, comunicandomi il suo brivido. Le rondini garrivano sul nostro capo; eppure quel lieve stridore ci parve distinto come in un silenzio profondo.
– Entra – ella mi bisbigliò, senza lasciarmi. – Entra, entra.
Quella voce, proferita da labbra tanto vicine ma invisibili, reale eppure misteriosa, spiratami calda nell›orecchio eppure intima come se mi parlasse nel mezzo dell›anima, e feminina e dolce come nessun›altra voce fu mai, io la odo ancóra, la udrò sempre.
– Entra, entra
Spinsi la porta. Varcammo la soglia, come fusi in una sola persona, pianamente.
L›andito era rischiarato da un›alta finestra rotonda. Una rondine ci svolazzò sul capo garrendo. Levammo gli occhi, sorpresi. Un nido pendeva fra le grottesche della volta. Alla finestra, mancava un vetro. La rondine fuggì via pel varco, garrendo.
– Ora sono tua, tua, tua! – bisbigliò Giuliana, senza distaccarsi dal mio collo ma girando flessuosamente per venirmi sul petto, per incontrare la mia bocca.
A lungo ci baciammo. Io dissi, ebro:
– Vieni. Andiamo su. Vuoi che ti porti?
Sebbene ebro, io mi sentivo nei muscoli la forza di portarla su per le scale in un tratto.
Ella rispose:
– No. Posso salire da me.
Ma non pareva ch›ella potesse, a udirla, a vederla.
Io la cinsi, come prima nel viale: e la sospinsi di gradino in gradino, così sorreggendola. Veramente pareva nella casa fosse quel rombo cupo e remoto che conservano in loro certe conchiglie profonde. Veramente pareva che nessun altro romore dall›esterno vi giungesse.
Quando fummo sul pianerottolo, io non aprii l›uscio di contro; ma volsi a destra pel corridoio oscuro, traendo lei per la mano, senza parlare. Tanto forte ella ansava che mi faceva pena, mi comunicava l›ambascia.
– Dove andiamo? – mi domandò.
Io risposi:
– Alla stanza nostra.
Quasi non ci si vedeva. Io ero come guidato da un istinto. Ritrovai la maniglia; aprii. Entrammo.
L’oscurità era rotta dall’albore che trapelava dagli spiragli; e vi si udiva più cupo il rombo. Io volevo correre verso quegli indizi per fare sùbito la luce, ma non potevo lasciare Giuliana; mi pareva di non potermi distaccare da lei, di non poter interrompere neppure per un attimo il contatto delle nostre mani, quasi che a traverso la cute le estremità vive dei nostri nervi aderissero magneticamente. Ci avanzammo insieme, ciechi. Un ostacolo ci arrestò, nell’ombra. Era il letto, il gran letto delle nostre nozze e dei nostri amori…
Fin dove s’udì il grido terribile?
VIII.
Erano le due del pomeriggio. Tre ore circa erano passate dal momento del nostro arrivo a Villalilla.
Avevo lasciata sola Giuliana per alcuni minuti; ero andato a chiamare Calisto. Il vecchio aveva portato il canestro della colazione; e, non più con sorpresa ma con una certa malizia bonaria, aveva ricevuto un secondo congedo bizzarro.
Stavamo ora, io e Giuliana, seduti a tavola come due amanti, l’uno di fronte all’altra, sorridendoci. Avevamo là vivande fredde, conserve di frutti, biscotti, aranci, una bottiglia di Chablis. La sala, con la sua volta a ornati barocchi, con le sue pareti chiare, con le sue pitture pastorali nei soprapporti, aveva una certa gaiezza antiquata, un’aria del secolo scorso. Pel balcone aperto entrava una luce assai mite, poiché nel cielo s’erano diffuse lunghe vene lattee. Nel rettangolo pallido campeggiava «il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima». Più giù, a traverso i ferri curvi della ringhiera appariva la delicata selva di color gridellino, la gloria primaverile di Villalilla. Il triplice profumo, l’anima primaverile di Villalilla, esalava nella calma a onde lente eguali.
Giuliana diceva:
– Ti ricordi?
Ripeteva, ripeteva:
– Ti ricordi?
Le più lontane ricordanze del nostro amore venivano a una a una su la sua bocca, evocate appena con qualche accenno discreto e pur riviventi con una straordinaria intensità nel luogo natale, tra le cose favorevoli. Ma quella sollecitudine affannosa, quel furore di vita, che m’avevano invaso nel giardino alla prima sosta, ora anche mi rendevano quasi insofferente, mi suggerivano visioni dell’avvenire iperboliche da contrapporre ai fantasmi del passato troppo incalzanti.
– Bisogna che noi torniamo qui, domani, fra due, fra tre giorni al più, per rimanere; ma soli. Tu vedi: qui non manca nulla; non è stato portato via nulla. Se tu volessi, potremmo anche rimanere stanotte qui… Ma tu non vuoi! È vero che non vuoi?
Con la voce, col gesto, con lo sguardo io cercavo di tentarla. Le mie ginocchia toccavano le sue ginocchia. Ed ella mi guardava fissamente, senza rispondere.
– Imagini tu la prima sera, qui, a Villalilla? Andar fuori, restar fuori sin dopo l’Ave Maria, vedere le finestre illuminate! Ah, tu intendi bene… I lumi che si accendono in una casa per la prima volta, la prima sera! Imagini? Fino ad ora tu non hai fatto che ricordare, ricordare. Eppure, vedi: tutti i tuoi ricordi non valgono per me un momento di oggi, non varranno un momento di domani. Dubiti tu, forse, della felicità che abbiamo davanti? Io non t’ho mai amata come t’amo ora, Giuliana; mai mai. Intendi? Io non sono mai stato tuo come ora, Giuliana… Ti racconterò, ti racconterò le mie giornate, perché tu conosca i tuoi miracoli. Dopo tante cattive cose, chi poteva sperare una cosa simile? Ti racconterò… Mi pareva, in certe ore, d’essere tornato al tempo dell’adolescenza, al tempo della prima giovinezza. Mi sentivo candido come allora: buono, tenero, semplice. Non mi ricordavo più di nulla. Tutti tutti i miei pensieri erano tuoi; tutte le mie commozioni si riferivano a te. Certe volte, la vista d’un fiore, d’una piccola foglia, bastava a far traboccare la mia anima, tanto era piena. E tu non sapevi nulla; non t’accorgevi di nulla, forse. Ti racconterò… L’altro giorno, sabato, quando entrai nella tua stanza con quelle spine! Ero timido come un innamorato novello e mi sentivo morire, dentro, dal desiderio di prenderti fra le mie braccia… Non te n’accorgesti? Ti racconterò tutto; ti farò ridere. Quel giorno le cortine dell’alcova lasciavano intravedere il tuo letto. Non potevo distaccare gli occhi di là, e tremavo. Come tremavo! Tu non sai… Già due o tre altre volte io ero entrato nella tua stanza, solo, di nascosto, con una grande palpitazione; ed avevo sollevato le cortine per guardare il tuo letto, per toccare il tuo lenzuolo, per affondare la faccia nel tuo guanciale, come un amante fanatico. E certe notti, quando tutti già dormivano alla Badiola, io mi avventuravo, piano piano, fin quasi alla tua porta; credevo di ascoltare il tuo respiro… Dimmi, dimmi: stanotte potrò venire da te? Mi vorrai? Di’: mi aspetterai? Potremmo dormire lontani, stanotte? Impossibile! La tua guancia ritroverà il suo posto sul mio petto, qui… ti ricordi? Come dormivi leggera!
– Tullio, Tullio, taci! – m’interruppe ella, supplichevole, quasi che le mie parole le facessero male.
Soggiunse, sorridendo:
– Bisogna che tu non mi ubriachi così… Te lo dicevo, dianzi. Sono tanto debole; sono una povera malata… Tu mi dài le vertigini. Io non reggo. Vedi come mi hai già ridotta? Mi hai lasciata con mezz’anima…
Ella sorrideva, con un sorriso tenue, stancamente. Aveva le palpebre un poco arrossite; ma sotto quella stanchezza delle palpebre gli occhi le ardevano d’un ardore febrile e mi guardavano di continuo, con una fissità quasi intollerabile sebbene temperata dall’ombra dei cigli. In tutta la sua attitudine era qualche cosa d’innaturale che la mia vista non riusciva a cogliere né il mio spirito a definire. Quando mai la sua fisonomia aveva avuto quel carattere di mistero inquietante? Pareva che di tratto in tratto la sua espressione si complicasse, si oscurasse fino a divenire enigmatica. Ed io pensavo: «Ella è travagliata dal vortice interiore. Non vede ancóra chiaramente in sé medesima quel che è accaduto. Tutto, forse, dentro di lei è sconvolto. La sua esistenza non è mutata in un attimo?». E quella espressione profonda mi attirava e mi appassionava sempre più. L’ardore del suo sguardo mi penetrava nelle midolle come un fuoco vorace. Benché io la vedessi così affranta, ero impaziente di prenderla ancóra, di beverle tutta l’anima.
– Non mangi nulla – io le dissi, facendo uno sforzo per dissipare il vapore che mi saliva al capo rapidamente.
– Anche tu.
– Almeno bevi un sorso. Non riconosci questo vino?
– Oh, lo riconosco.
– Ti ricordi?
E ci guardammo dentro le pupille, alterati, nell’evocare il ricordo d’amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch’ella prediligeva.
– Beviamo dunque insieme, alla nostra felicità!
Urtammo i bicchieri ed io bevvi con foga; ma ella non bagnò neppure le labbra, come presa da una ripugnanza invincibile.
– Ebbene?
– Non posso, Tullio.
– Perché?
– Non posso. Non mi forzare. Credo che anche una goccia mi farebbe male.
Ella s’era coperta d’un pallore cadaverico.
– Ma tu ti senti male, Giuliana.
– Un poco. Alziamoci. Andiamo sul balcone.
Cingendola sentii la viva mollezza del suo fianco, poiché nella mia assenza ella s’era liberata del busto. Le dissi:
– Vuoi stenderti sul letto? Tu ti riposerai e io ti starò accanto…
– No, Tullio. Sto già bene, vedi.
E ci fermammo sul limitare del balcone, al conspetto del cipresso. Ella s’appoggiò allo stipite, e posò una mano su la mia spalla.
Dalla sporgenza dell’architrave, di sotto alla cimasa, pendeva un gruppo di nidi. Le rondini vi accorrevano e se ne partivano con un’attività incessante. Ma così piena era la calma del giardino sottoposto, così ferma era la cima del cipresso innanzi a noi, che quei frulli, quei voli, quei gridi mi diedero un senso di fastidio, mi dispiacquero. Poiché tutto s’attenuava, si velava, in quella luce quieta, desiderai una pausa, un lungo intervallo di silenzio, un raccoglimento, per assaporare tutta quanta la soavità dell’ora e della solitudine.
– Ci saranno ancóra gli usignoli? – dissi, ricordando le violente melodie vespertine.
– Chi sa! Forse.
– Cantavano verso sera. Non ti piacerebbe di riudirli?
– Ma a che ora ripasserà Federico?
– Tardi, speriamo.
– Oh sì, tardi, tardi! – ella esclamò, con una sincerità d’augurio così calda ch’io n’ebbi un fremito di gioia.
– Sei felice? – le domandai, cercandole negli occhi la risposta.
– Sì, sono felice – ella rispose, abbassando i cigli.
– Sai che amo te sola, che sono tutto tuo per sempre?
– Lo so.
– E tu ora… come mi ami?
– Come non potrai mai sapere, povero Tullio!
E, dicendo queste parole, ella si staccò dallo stipite e si appoggiò tutta su me con una di quelle sue movenze indescrivibili in cui era quanto di abbandonata dolcezza la più feminina delle creature può emanare verso un uomo.
– Bella! Bella!
Veramente bella appariva, illanguidita, arrendevole, molle, quasi direi fluida così che mi faceva pensare alla possibilità di assorbirla a poco a poco, d’imbevermene. Sul pallore del viso la massa dei capelli rilasciata sembrava che stesse per diffondersi in fiotto. I cigli le spandevano a sommo delle gote un’ombra che mi turbava più d’uno sguardo.
– Anche tu non potrai mai sapere… Se ti dicessi i pensieri folli che mi nascono dentro! È una felicità così grande che mi dà l’angoscia, mi dà quasi il desiderio di morire.
– Morire! – ella ripeté sommessamente, con un sorriso tenue. – Chi sa, Tullio, che io non ti muoia… presto!
– Oh, Giuliana!
Ella si sollevò diritta per guardarmi; e soggiunse:
– Dimmi, che faresti tu se io ti morissi, all’improvviso?
– Bambina!
– Se, per esempio, domani io fossi morta?
– Ma taci!
E io la presi alle tempie e incominciai a baciarla su la bocca, su le gote, su gli occhi, su la fronte, su i capelli, con baci rapidi e leggeri. Ella si lasciava baciare. Anzi, quando io mi arrestai, mormorò:
– Ancóra!
– Ritorniamo nella nostra stanza – io pregai, traendola.
Ella si lasciava trarre.
Anche nella nostra stanza il balcone era aperto. Entrava con la luce l’odore muschiato delle rose gialle che fiorivano là presso. Sul fondo chiaro delle tappezzerie i minuti fiori azzurri erano tanto sbiaditi che appena si vedevano. Un lembo del giardino si rifletteva nello specchio di un armario, sfondando in una lontananza chimerica. I guanti, il cappello, un braccialetto di Giuliana, posati su un tavolo, parevano aver già ridestata là dentro l’amorosa vita di un tempo, aver già diffusa un’aria nuova d’intimità.
– Domani, domani bisogna tornare qui; non più tardi – io dicevo, ardendo d’impazienza, sentendo venire a me da tutte quelle cose non so quale incitazione e quale lusinga. – Bisogna che domani noi dormiamo qui. Tu vuoi; non è vero?
– Domani!
– Ricominciare l’amore, in questa casa, in questo giardino, con questa primavera… Ricominciare l’amore, come se nulla ci fosse noto; ricercare a una a una le nostre carezze e trovare in ognuna un sapore nuovo, come se non le avessimo provate mai; e avere d’innanzi a noi molti giorni, molti giorni…
– No, no, Tullio; non si parla dell’avvenire… Non sai che è un cattivo augurio? Oggi, oggi… Pensa a oggi, all’ora che passa…
Ed ella si strinse a me, perdutamente, con un ardore incredibile, serrandomi a furia di baci la bocca.
IX.
M’è parso di udire i sonagli dei cavalli – fece Giuliana, sollevandosi. – Arriva Federico.
Ascoltammo. Ella doveva essersi ingannata.
– Non è l’ora? – mi domandò.
– Sì, sono quasi le sei.
– Oh, mio Dio!
Ascoltammo di nuovo. Non si udiva alcuno strepito che annunziasse la carrozza.
– Ma è meglio che tu vada a vedere, Tullio.
Uscii dalla stanza: scesi le scale. Vacillavo un poco; avevo una nebbia su gli occhi; mi sembrava che un vapore mi s’involasse dal cervello. Per la piccola porta laterale del muro di cinta, chiamai Calisto che aveva la sua abitazione là presso. Lo interrogai. – La carrozza non si vedeva ancóra.
Il vecchio avrebbe voluto trattenermi a discorrere.
– Sai, Calisto, che torneremo qui probabilmente domani, per rimanerci? – gli dissi.
Alzò le braccia verso il cielo, in segno d›allegrezza.
– Davvero?
– Davvero. Avremo tempo di discorrere! Quando vedi la carrozza, vieni ad avvertirmi. Addio, Calisto.
E lo lasciai per rientrare. Cadendo il giorno, le rondini aumentavano i clamori. L›aria s›era accesa, e gli stormi veementi la fendevano luccicando.
– Ebbene? – mi chiese Giuliana, volgendosi dallo specchio d›innanzi a cui stava già per mettersi il cappello.
– Nulla.
– Guardami. Sono ancóra troppo scapigliata?
– No.
– Ma che viso! Guardami.
Pareva veramente ch›ella si fosse levata dalla bara, tanto era disfatta. I suoi occhi avevano un gran cerchio violaceo.
– Eppure sono viva – ella soggiunse; e volle sorridere.
– Tu soffri?
– No, Tullio. Ma già, non so. Mi pare di essere tutta vuota, di avere la testa vuota, le vene vuote, il cuore vuoto… Tu potrai dire che t›ho dato tutto. Non ho lasciato per me, vedi, che appena appena un›apparenza di vita…
Ella sorrideva, pronunziando tali parole, stranamente; sorrideva d›un sorriso tenue e sibillino che mi turbava a dentro movendo indefinite inquietudini. Troppo ero intorpidito dalla voluttà, troppo ero offuscato dall›ebrezza; e i moti del mio spirito erano perciò pigri, la mia conscienza era ottusa. Non mi penetrava ancóra nessun sospetto sinistro. Pure, io la guardavo con attenzione, la esaminavo angustiato senza sapere perché.
Ella si rivolse allo specchio, si mise il cappello; poi andò verso il tavolo, prese il braccialetto, i guanti.
– Sono pronta – disse.
Parve cercare qualche altro oggetto, con lo sguardo. Soggiunse:
– Avevo un ombrello; è vero?
– Sì, credo.
– Ah, ecco: devo averlo lasciato laggiù, sul sedile, al bivio.
– Andiamo a cercarlo?
– Sono troppo stanca.
– Vado io solo, allora.
– No. Manda Calisto.
– Vado io. Ti coglierò qualche ramo di lilla, un mazzo di rose muscate. Vuoi?
– No. Lascia stare i fiori…
– Vieni qui. Siediti, intanto. Forse Federico tarderà.
Accostai al balcone una poltrona, per lei; ed ella vi si abbandonò.
– Già che scendi – mi disse – guarda se il mio mantello è da Calisto. Non sarà rimasto nella carrozza; è vero? Ho un poco di freddo.
Rabbrividiva infatti.
– Vuoi che ti chiuda il balcone?
– No, no. Lasciami guardare il giardino. A quest›ora, com›è bello! Vedi? Com›è bello!
Il giardino si dorava qua e là, vagamente. Le cime fiorite degli alberi di lilla pendevano in un color paonazzo vivo; e, come il resto dei rami fioriti in una massa tra bigia e turchiniccia ondeggiava all›aria, parevano i riflessi d›una seta cangiante. Su la peschiera i salici di Babilonia inchinavano le loro capellature soavi; e l›acqua vi traspariva col fulgore della madreperla. Quel fulgore immobile e quel gran pianto arboreo e quella selva di fiori così delicata in quell›oro morente componevano una visione maliosa, incantevole, senza realtà.
Ambedue per qualche minuto rimanemmo taciturni, in potere di quei prestigi. Una malinconia confusa m›invadeva l›anima; l›oscura disperazione che è latente in fondo ad ogni amore umano si moveva dentro di me. Davanti a quello spettacolo ideale, la mia stanchezza fisica, il torpore de› miei sensi, parevano appesantirsi. Mi occupavano il malessere, lo scontento, l›indefinito rimorso che seguono la cessazione delle voluttà troppo acute e troppo lunghe. Io soffrivo.
Giuliana disse, come in un sogno:
– Ecco, ora vorrei chiudere gli occhi e non riaprirli più.
Soggiunse, rabbrividendo:
– Tullio, ho freddo. Va.
Distesa nella poltrona, ella si restrinse in sé stessa come per resistere ai brividi che l›assalivano. Il suo volto, specie intorno alle narici, aveva la trasparenza di certi alabastri lividicci. Ella soffriva.
– Tu ti senti male, povera anima! – io le dissi, accorato, con un po› di sbigottimento, guardandola fiso.
– Ho freddo. Va. Portami il mantello, sùbito… Ti prego.
Corsi giù da Calisto, mi feci dare il mantello; risalii sùbito. Ella aveva fretta d›indossarlo. L›aiutai. Quando si riadagiò nella poltrona, nascondendo le mani dentro le maniche, disse:
– Sto bene, così.
– Vado allora a prendere l›ombrello, laggiù, dove l›hai lasciato?
– No. Che importa?
Io aveva una strana smania di tornare laggiù, a quel vecchio sedile di pietra dove avevamo fatta la prima sosta, dove ella aveva pianto, dove ella aveva pronunziate le tre parole divine: «Sì, anche più…». Era una tendenza sentimentale? Era la curiosità d›una sensazione nuova? Era il fascino che esercitava su me l›aspetto misterioso del giardino in quell›ora ultima?
– Vado e torno in un minuto – dissi.
Uscii. Come fui sotto il balcone, chiamai:
– Giuliana!
Ella si mostrò. Ho ancóra avanti gli occhi dell›anima, evidentissima, la muta apparizione crepuscolare: quella figura alta, resa più alta dalla lunghezza del mantello amaranto, e sul cupo colore quella bianca bianca faccia. (Le parole di Jacopo ad Amanda si sono legate, nel mio spirito, con l›imagine inalterabile. «Come bianca, questa sera, Amanda! Vi siete voi svenata per colorare la vostra veste?»)
Ella si ritrasse; anzi meglio è dire, per esprimere la sensazione ch’io n’ebbi: disparve. Ed io m’avanzai pel viale rapidamente, non avendo la piena consapevolezza di ciò che mi spingeva. Udivo risonare i miei passi nel mio cervello. Tanto ero smarrito che dovetti fermarmi per riconoscere i sentieri. Da che mi veniva quell’agitazione cieca? Da una semplice causa fisica, forse; da uno stato particolare de’ miei nervi. Così pensai. Incapace d’uno sforzo riflessivo, d’un esame ordinato, d’un raccoglimento, io ero in balia de’ miei nervi; su i quali le apparenze si riflettevano provocando fenomeni d’una straordinaria intensità, come nelle allucinazioni, Ma alcuni pensieri balenavano chiari sopra gli altri, si distinguevano; accrescevano in me quel senso di perplessità che già alcuni incidenti impreveduti avevano mosso. – Giuliana in quel giorno non m’era apparsa tale quale avrebbe ella dovuto apparire essendo la creatura ch’io conoscevo, la «Giuliana d’una volta». Ella non aveva assunto verso di me, in certe date circostanze le attitudini che io m’aspettavo. Un elemento estraneo, qualche cosa d’oscuro, di convulso, di eccessivo, aveva modificata, difformata la sua personalità. Dovevano queste alterazioni attribuirsi a uno stato morboso del suo organismo? «Sono malata, sono molto malata» ella aveva spesso ripetuto, come per giustificarsi. Certo, la malattia produceva alterazioni profonde, poteva rendere irriconoscibile un essere umano. Ma qual era la sua malattia? L’antica, non distrutta dal ferro del chirurgo, complicata forse? Insanabile? «Chi sa che io non ti muoia presto!» ella aveva detto, con un accento singolare che avrebbe potuto essere profetico. Più d’una volta ella aveva parlato di morte. Sapeva ella dunque di portare in sé un germe letale? Era ella dunque dominata da un pensiero lugubre? Un tal pensiero aveva forse accesi in lei quegli ardori cupi, quasi disperati, quasi folli, tra le mie braccia. La gran luce subitanea della felicità aveva forse reso a lei più visibile e più terribile il fantasma che la perseguitava…
«Ella potrebbe dunque morire! La morte potrebbe dunque colpirla anche tra le mie braccia, in mezzo alla felicità!» pensai, con una paura che mi agghiacciò tutto e per qualche attimo m’impedì di proseguire, quasi che il pericolo apparisse imminente, quasi che Giuliana avesse presagito il vero quando aveva detto: «Se, per esempio, domani io fossi morta?».
Il crepuscolo cadeva, umidiccio. Qualche soffio di vento passava tra i cespugli imitando il fruscìo che vi avrebbero messo animali veloci nel trascorrere. Ancóra qualche rondine dispersa gettava un grido, rombando per l’aria come il sasso d’una fionda. Su l’orizzonte occidentale la luce persisteva come il riverbero d’una vasta fucina sinistra.
Giunsi fino al sedile, trovai l’ombrello; non mi indugiai sebbene i ricordi recenti, ancor vivi, ancóra caldi, mi toccassero l’anima. Là ella s’era lasciata cadere, affievolita, vinta; là io le avevo detto le parole supreme, le avevo fatto la rivelazione inebriante: «Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano»; là io avevo raccolto dalle sue labbra quel soffio per cui la mia anima era balzata all’apice della gioia; là io avevo bevuto le sue prime lacrime, e avevo udito i suoi singhiozzi, e avevo proferito la domanda oscura: «È tardi, forse ? È troppo tardi?».
Poche ore erano trascorse e tutte quelle cose erano già così lontane! Poche ore erano trascorse e la felicità pareva già dileguata! Con un altro senso, non meno terribile, si ripeteva dentro di me la domanda: «È tardi, forse? È troppo tardi?». E la mia angoscia cresceva; e quella luce dubbia, e quella discesa tacita dell’ombra, e quei rumori sospetti nei cespugli già intenebrati, e tutte quelle parvenze ingannevoli del crepuscolo presero nel mio spirito un significato funesto. «Se veramente fosse troppo tardi? Se veramente ella si sapesse condannata, sapesse di portare già dentro di sé la morte? Stanca di vivere, stanca di patire, non sperando più nulla da me, non osando di uccidersi a un tratto con un’arma o con un veleno, ella forse ha coltivato, ha aiutato il suo male, l’ha tenuto nascosto perché si diffondesse, perché s’approfondisse, perché divenisse immedicabile. Ella ha voluto essere condotta a poco a poco, segretamente, verso la liberazione, verso la fine. Sorvegliandosi, ella ha acquistato la scienza del suo male; ed ora sa, è sicura di dover soccombere; sa anche forse che l’amore, la voluttà, i miei baci precipiteranno l’opera. Io torno a lei per sempre; una felicità insperata le si apre d’innanzi; ella mi ama e sa di essere immensamente amata; in un giorno, un sogno è divenuto per noi una realtà. Ed ecco, una parola viene alla sua bocca: – Morire! -» In confuso mi passarono d’innanzi le imagini truci che m’avevano travagliato nelle due ore d’attesa in quella mattina dell’operazione chirurgica, quando m’era parso di avere sotto gli occhi, precise come le figure di un atlante anatomico, tutte le spaventevoli devastazioni prodotte dai morbi nel grembo feminile. E un altro ricordo, anche più lontano, mi tornò portando imagini precise: – la stanza nell’ombra, la finestra spalancata, le tende palpitanti, la fiammella inquieta della candela contro lo specchio pallido, aspetti malaugurosi, e lei, Giuliana, in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se avesse inghiottito un veleno… E la voce accusatrice, la medesima voce, anche ripeteva: «Per te, per te ha voluto morire. Tu, tu l’hai spinta a morire».
Preso da uno sgomento cieco, da una specie di pànico, quasi che quelle imagini fossero tutte realtà indubitabili, io mi misi a correre verso la casa.
Alzando gli occhi vidi la casa inanimata, le aperture delle finestre e dei balconi piene d’ombra.
– Giuliana! – gridai, con un’ambascia estrema, slanciandomi su per i gradini, quasi che temessi di non giungere in tempo a rivederla.
Ma che avevo? Che demenza era quella?
Anelavo, su per le scale quasi buie. Entrai nella stanza a precipizio.
– Che è accaduto? – mi domandò Giuliana, sollevandosi.
– Nulla, nulla… Credevo che tu avessi chiamato. Ho corso, un poco. Tu come stai ora?
– Ho tanto freddo, Tullio; tanto freddo. Sentimi le mani.
Ella mi tese le mani. Erano di gelo.
– Sono tutta gelata, così…
– Mio Dio! Come ti sarà venuto questo freddo? Che potrei fare per riscaldarti?
Non ti prender pena, Tullio. Non è la prima volta… Mi dura ore ed ore. Non c’è nulla che giovi. Bisogna aspettare che passi… Ma perché tarda tanto Federico? È quasi notte.
Ella si riabbandonò alla spalliera, come se avesse consumata tutta la sua forza in quelle parole.
– Ora chiudo – io dissi, volgendomi al balcone.
– No, no; lascia aperto… Non è l’aria che mi dà questo freddo. Ho bisogno, anzi, di respirare… Vieni qui, piuttosto, accanto a me. Prenditi quello sgabello.
Io m’inginocchiai. Ella mi passò la sua mano gelida sul capo, con un gesto fievole, mormorando:
– Povero Tullio mio!
– Ma dimmi, Giuliana, amore, anima, – proruppi, non potendo più reggere – dimmi la verità! Tu mi nascondi qualche cosa. Qualche cosa tu hai, certo, che non vuoi confessare: un pensiero fisso, qui, nel mezzo della fronte, un’ombra che non t’ha lasciata mai, da che siamo qui, da che siamo… felici. Ma siamo veramente felici? Sei tu, puoi tu essere felice? Dimmi la verità, Giuliana! Perché vorresti ingannarmi? Sì, è vero; tu hai avuto male! tu stai male; è vero. Ma non è questo, no. È un’altra cosa, che non comprendo, che non conosco… Dimmi la verità, anche se la verità dovesse fulminarmi. Stamani, quando tu singhiozzavi, io ti ho chiesto: «È troppo tardi?». E tu mi hai risposto: «No, no…». E io ti ho creduta. Ma non potrebbe essere troppo tardi per un’altra ragione? Qualche cosa potrebbe impedirti di godere questa grande felicità che oggi s’è aperta? Intendo: qualche cosa che tu sappia, che sia già nel tuo pensiero… Dimmi la verità!
E la fissai; e, come ella rimaneva muta, a poco a poco non vidi se non gli occhi suoi larghi, straordinariamente larghi, e cupi ed immobili. Tutto disparve, intorno. E io dovetti chiudere le palpebre per dissipare la sensazione di terrore che quegli occhi avevano messa in me. Quanto durò la pausa? Un’ora? Un secondo?