Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 8
– Sono malata – ella disse alfine, con una lentezza angosciosa.
– Ma come malata? – io balbettai, fuori di me, credendo sentire nel suono di quelle due parole una confessione che corrispondeva al mio sospetto. – Come malata? Da morirne?
Non so in che modo, non so con quale voce, non so con quale atto proferii la domanda estrema; non so veramente neppure se mi uscì intera dalle labbra, se ella la udì intera.
– Tullio, no; non volevo dire questo, no, no… Volevo dire che non è colpa mia se sono così, un poco strana… Non è colpa mia… Bisogna che tu abbia pazienza con me, bisogna che tu mi prenda ora così come sono… Non c’è null’altro, credi; non ti nascondo nulla… Potrò guarire, poi; guarirò… Tu avrai pazienza; è vero? tu sarai buono… Vieni qui, Tullio, anima. Anche tu sei un poco strano, mi sembra; sospettoso… Ti spaventi sùbito; ti fai bianco; chi sa che imagini… Vieni qui, vieni qui; dammi un bacio… Ancóra uno… ancóra uno… Così. Baciami; riscaldami… Ora arriva Federico.
Parlava interrottamente, un po’ roca, con quella intraducibile espressione, carezzevole, tenera, inquieta, ch’ella aveva già avuto verso di me alcune ore prima, sul sedile, per calmarmi, per consolarmi. Io la baciavo. Poiché la poltrona era ampia e bassa, ella che era sottile mi fece posto al suo fianco e mi si strinse addosso rabbrividendo e con una mano prese un lembo del suo mantello e mi coprì. Stavamo come in un giaciglio, avvinti, a petto a petto, mescolando gli aliti. E io pensavo: «Se il mio alito, se il mio contatto potessero trasfonderle tutto il mio calore!». E facevo uno sforzo di volontà illusorio perché la trasfusione avvenisse.
– Stasera – bisbigliai – stasera, nel tuo letto, ti terrò meglio. Tu non tremerai più…
– Sì, sì.
– Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore…
– Sì.
– Io ti veglierò, mi beverò il tuo fiato, ti leggerò sul viso i sogni che sognerai. Forse mi nominerai, in sogno…
– Sì, sì.
– Qualche notte, allora, parlavi in sogno. Come mi piacevi! Ah che voce! Tu non puoi sapere… Una voce che tu non hai potuto mai intendere e che io solo ti conosco, io solo… E la riudrò. Chi sa che dirai! Forse mi nominerai. Quanto è caro l’atto della tua bocca mentre pronunzia l’u del mio nome! Pare l’accenno di un bacio… Lo sai? E ti suggerirò qualche parola all’orecchio, per entrare nel tuo sogno. Ti ricordi, allora, quando certe mattine indovinavo qualche cosa di quello che tu avevi sognato? Oh, vedrai, anima: sarò più dolce di allora. Vedrai di che tenerezze sarò capace, per guarirti. Tu hai bisogno di tante tenerezze, povera anima…
– Sì, sì – ella ripeteva ad ogni tratto, abbandonatamente, favorendo la mia illusione ultima, aumentando quella specie di ebrietà torpida che mi veniva dalla mia stessa voce e dal credere ch’ella ne fosse cullata come da una cantilena voluttuosa.
– Hai udito? – le chiesi, sollevandomi un poco per ascoltar meglio.
– Che? Arriva Federico?
– No. Ascolta.
Ambedue ascoltammo, guardando verso il giardino.
Il giardino s’era confuso in una massa violacea, rotta ancóra dal luccichio cupo della vasca. Una zona di luce persisteva ai confini del cielo, una larga zona tricolore: sanguigna in basso, poi arancia, poi verde del verde d’un vegetale morente. Nel silenzio crepuscolare una voce liquida e forte risonò, simile al preludio di un flauto.
Cantava l’usignuolo.
– È sul salice – mi susurrò Giuliana.
Ambedue ascoltammo, guardando verso l’estrema zona che impallidiva sotto la cenere impalpabile della sera. La mia anima era sospesa, quasi che da quel linguaggio aspettasse una qualche alta rivelazione d’amore. Che provò in quei minuti d’ascolto, al mio fianco, la povera creatura? A quale sommità di dolore giunse la povera anima?
L’usignuolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso, un getto di trilli facili che caddero nell’aria con un suono di perle rimbalzanti su per i vetri di un’armonica. Successe una pausa. Un gorgheggio si levò, agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di forza, per un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa. Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena di variazioni leggere, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte, modulato come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza pausa. Il canto divenne elegiaco, si svolse in un tono minore, si addolcì come un sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante solitario, un desio accorato, un’attesa vana; gittò un richiamo finale, improvviso, acuto come un grido di angoscia; si spense. Un’altra pausa, più grave. Si udì allora un accento nuovo, che non pareva escire dalla stessa gola, tanto era umile, timido, flebile, tanto somigliava al pigolio degli uccelli appena nati, al cinguettio d’una passeretta; poi, con una volubilità mirabile, quell’accento ingenuo si mutò in una progressione di note sempre più rapide che brillarono in volate di trilli, vibrarono in gorgheggi nitidi, si piegarono in passaggi arditissimi, sminuirono, crebbero, attinsero le altezze soprane. Il cantore s’inebriava del suo canto. Con pause così brevi che le note quasi non finivano di spegnersi, effondeva la sua ebrietà in una melodia sempre varia, appassionata e dolce, sommessa e squillante, leggera e grave, e interrotta ora da gemiti fiochi, da implorazioni lamentevoli, ora da improvvisi impeti lirici, da invocazioni supreme. Pareva che anche il giardino ascoltasse, che il cielo s’inchinasse su l’albero melanconico dalla cui cima un poeta, invisibile, versava tali flutti di poesia. La selva dei fiori aveva un respiro profondo ma tacito. Qualche bagliore giallo s’indugiava nella zona occidentale; e quell’ultimo sguardo del giorno era triste, quasi lugubre. Ma una stella spuntò, tutta viva e trepida come una goccia di rugiada luminosa.
– Domani! – io mormorai quasi inconscio, rispondendo a una sollecitazione interiore quella parola che conteneva per me tante promesse.
Poiché per ascoltare ci eravamo sollevati alquanto ed eravamo rimasti qualche minuto in quell’attitudine assorti, io sentii all’improvviso abbandonarsi contro la spalla il capo di Giuliana pesantemente come una cosa inanimata.
– Giuliana! – gridai, sbigottito. – Giuliana!
E, pel moto che io feci, quel capo si arrovesciò indietro pesantemente come una cosa inanimata.
– Giuliana!
Ella non udiva. Scorgendo il pallore cadaverico di quel volto che rischiaravano gli ultimi barlumi gialligni avversi al balcone, io fui percosso dall’idea terribile. Fuori di me, lasciando ricadere su la spalliera Giuliana inerte, non cessando di chiamarla per nome, mi misi ad aprirle l’abito sul petto con le dita convulse, ansioso di sentirle il cuore…
E la voce gaia di mio fratello chiamò:
– Colombi, dove siete?
X.
Ella aveva ricuperata in breve la conoscenza. Appena in grado di reggersi, aveva voluto sùbito montare in carrozza per tornare alla Badiola.
Ora, coperta dei nostri plaids, stava rannicchiata nel suo posto, silenziosa. Io e mio fratello di tratto in tratto ci guardavamo inquieti. Il cocchiere sferzava i cavalli. E il trotto serrato risonava forte su la strada che le siepi qua e là fiorite limitavano, in una sera d’aprile mitissima, sotto un cielo puro.
Di tratto in tratto io e Federico domandavamo:
– Come ti senti, Giuliana?
Ella rispondeva:
– Eh, così… un po’ meglio…
– Hai freddo?
– Sì… un poco.
Rispondeva con uno sforzo manifesto. Pareva quasi che le nostre domande la irritassero; tanto che, insistendo Federico a muovere qualche discorso, ella disse alfine:
– Scusa, Federico… Mi dà fastidio parlare.
Essendo spiegato il mantice, ella stava nell’ombra, nascosta, immobile sotto le coperte. Più d’una volta io mi chinai verso di lei per scorgerle il viso, o credendo ch’ella si fosse assopita o temendo ch’ella fosse ricaduta nel deliquio. Tutte le volte ebbi la stessa sensazione inaspettata di sgomento, accorgendomi ch’ella teneva nell’ombra gli occhi sbarrati e fissi.
Seguì un lungo intervallo di silenzio. Anche io e Federico ammutolimmo. Il trotto dei cavalli non mi pareva a bastanza rapido. Avrei voluto ordinare al cocchiere di spingerli al galoppo.
– Sferza, Giovanni!
Erano quasi le dieci quando giungemmo alla Badiola.
Mia madre ci aspettava, in pena per l’indugio. Quando vide Giuliana in quello stato, disse:
– Me l’imaginavo io, che lo strapazzo ti avrebbe fatto male…
Giuliana volle rassicurarla.
– Non è nulla, mamma… Vedrai che domattina starò bene. Un po’ di stanchezza…
Ma guardandola alla luce, mia madre esclamò spaventata:
– Dio mio! Dio mio! Tu hai un viso che fa paura… Tu non ti reggi in piedi… Edith, Cristina, presto, correte su a scaldare il letto. Vieni, Tullio, che la portiamo su…
– Ma no, ma no, – insisteva Giuliana, opponendosi – non ti spaventare, mamma, che non è nulla…
– Io vado a Tussi con la carrozza a prendere il medico – propose Federico. – Tra mezz’ora son qui.
– No, Federico, no! – gridò Giuliana; quasi con violenza, come esasperata. – Non voglio. Il medico non può farmi nulla. So io quel che debbo prendere. Ho tutto, su. Andiamo, mamma. Dio mio! Come v’allarmate sùbito! Andiamo, andiamo…
Ed ella parve aver riacquistata la forza a un tratto. Diede alcuni passi, franca. Su per le scale, io e mia madre la sorreggemmo. Nella stanza, ella fu assalita da un vomito convulso che le durò alcuni minuti. Le donne incominciavano a spogliarla.
– Va, Tullio, va – ella mi pregò. – Tornerai dopo a vedermi. Resta qui la mamma, intanto. Non ti prender pena…
Uscii. Rimasi in una di quelle stanze attigue, seduto su un divano, ad aspettare. Ascoltavo il passo delle donne di casa affaccendate; mi rodevo d’impazienza. «Quando potrò rientrare? Quando potrò rimanere solo con lei? La veglierò; starò tutta la notte al suo capezzale. Forse fra qualche ora ella si calmerà, si sentirà bene. Accarezzandole i capelli, forse riescirò ad addormentarla. Chi sa! Dopo un poco, tra la veglia ed il sonno, mi dirà: – Vieni.» Avevo una strana fede nella virtù delle mie carezze. Speravo ancóra che quella notte potesse avere una dolce fine. E come sempre, tra le angosce che mi dava il pensiero delle sofferenze di Giuliana, l’imagine sensuale si determinava diventando una visione lucida e durevole. «Pallida come la sua camicia, al chiaror della lampada che arde dietro le cortine dell’alcova, ella si sveglia dopo il primo sonno breve, mi guarda con gli occhi semiaperti, languida, mormorando: – Vieni a dormire anche tu..»
Entrò Federico.
– Ebbene? – disse affettuosamente. – Pare che non sia nulla. Ho parlato con Miss Edith or ora, per le scale. Non vuoi scendere a mangiar qualche cosa? Giù, hanno preparato…
– No, non ho appetito, ora. Forse più tardi… Aspetto che mi chiamino dentro…
– Intanto io vado, se non c’è bisogno di me.
– Va pure, Federico. Scenderò poi. Grazie.
Lo seguii con lo sguardo, mentre s’allontanava. E ancóra una volta mi venne dal buon fratello un sentimento di confidenza; ancóra una volta mi s’allargò il cuore.
Passarono tre minuti circa. L’orologio a pendolo, ch’era su la parete di contro a me, li misurò col suo ticchettio. Le sfere segnavano le dieci e tre quarti. Mentre io mi levavo impaziente per andare verso la stanza di Giuliana, entrò mia madre commossa dicendo sottovoce:
– S’è calmata. Ora ha bisogno di riposo. Povera figliuola!
– Posso andare? – le domandai.
– Sì, va; ma lasciala riposare.
Come io mi mossi, ella mi richiamò.
– Tullio!
– Che vuoi, mamma?
Ella pareva esitante.
– Dimmi… Dal tempo dell’operazione, hai più parlato col dottore?
– Ah, sì, qualche volta… Perché?
– T’ha rassicurato sul pericolo…
Ella esitava.
– … sul pericolo che potrebbe correre Giuliana, in un altro parto?
Io non avevo parlato col dottore; non sapevo che rispondere. Confuso, ripetei:
– Perché?
Ella esitava ancóra.
– Non ti sei accorto che Giuliana è incinta?
Percosso come da un colpo di maglio nel mezzo del petto, da prima non afferrai la verità.
– Incinta! – balbettai.
Mia madre mi prese le mani.
– Ebbene, Tullio?
– Non sapevo…
– Ma tu mi fai paura. Il dottore dunque…
– Già, il dottore…
– Vieni, Tullio, siediti.
E mi fece sedere sul divano. Mi guardava sbigottita, aspettando che io parlassi. Per qualche attimo, benché io l’avessi lì davanti agli occhi, non la vidi più. Una luce violentissima si fece nel mio spirito, a un tratto; e mi si presentò il dramma.
Chi mi diede la forza di resistere? Chi mi conservò la ragione? Forse nell’eccesso medesimo del dolore e dell’orrore io trovai il sentimento eroico che mi salvò.
Appena riacquistai la sensibilità fisica, la percezione delle cose esteriori, e vidi mia madre che mi guardava da presso con ansia, compresi che prima di tutto bisognava assicurare mia madre.
Le dissi:
– Non sapevo… Giuliana non m’ha detto nulla. Non mi sono accorto di nulla… È una sorpresa… Il dottore, sì, mi parlò di qualche pericolo… Perciò la notizia mi fa quest’impressione… Sai, Giuliana ora è così debole… Ma veramente il dottore non accennò a nulla di troppo grave; perché, essendo riescita l’operazione… Vedremo. Lo chiameremo qui; lo consulteremo…
– Sì, sì; è necessario.
– Ma tu, mamma, sei sicura della cosa? Te l’ha confessata Giuliana, forse? Oppure…
– Io me ne sono accorta, sai, dai soliti segni. È impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa… Sapendoti così apprensivo, m’ha pregata di non parlartene per ora. Ma io ho voluto avvisarti… Giuliana, tu la conosci, è così trascurata per la sua salute! Vedi: qui, invece di migliorare, mi sembra che vada ogni giorno peggiorando; mentre prima bastava una settimana di campagna per farla rifiorire. Ti ricordi?
– Sì, è vero.
– Le precauzioni, in questi casi, non sono mai troppe. Bisogna che tu ne scriva subito al dottor Vebesti.
– Sì, sùbito.
E, poiché sentivo che non avrei potuto dominarmi più oltre, mi alzai soggiungendo:
– Vado da Giuliana.
– Va; ma stasera lasciala riposare, lasciala tranquilla. Io scendo e poi torno su.
– Grazie, mamma.
E le sfiorai la fronte con le labbra.
– Figlio benedetto! – ella mormorò, allontanandosi.
Su la soglia della porta opposta mi fermai e mi volsi; e vidi sparire quella dolce figura ancóra diritta, così nobile nella veste nera.
Ebbi una sensazione indescrivibile, simile forse a quella che avrei avuta dal crollo fulmineo di tutta la casa. Tutto crollò, ruinò, dentro di me, intorno a me, irresistibilmente.
XI.
Chi non ha udito qualche volta proferire da uomini sventurati una frase di questo genere? «In un’ora ho vissuto dieci anni.» Una tal cosa è inconcepibile. Bene, io la comprendo. Nei pochi minuti di quel dialogo quasi pacato tra me e mia madre, io non vissi più di dieci anni? L’accelerazione della vita umana interiore è il più meraviglioso e il più spaventoso fenomeno dell’universo.
Ora, che doveva io fare? Impeti folli mi venivano, di fuggire lontano nella notte, o di correre alle mie stanze per chiudermi, per rimaner solo a considerare la mia ruina, a conoscerla tutta quanta. Ma seppi resistere. La superiorità della mia natura si mostrò in quella notte. Seppi svincolare dall’atroce torsione qualcuna delle mie facoltà più virili. E pensai: «È necessario che nessuno dei miei atti apparisca singolare, inesplicabile, a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa».
Innanzi all’uscio della stanza di Giuliana m’arrestai, impotente a frenare il tremore fisico che mi scoteva. Udendo giungere pel corridoio suono di passi, entrai risoluto.
Miss Edith usciva dall’alcova su la punta dei piedi. Mi accennò di non far rumore. Mi disse sottovoce:
– Sta per addormentarsi.
Se ne andò, socchiudendo l’uscio dietro di sé, pianamente. La lampada ardeva sospesa nel mezzo della volta, con un chiarore placido eguale. Su una sedia era posato il mantello amaranto; su un’altra sedia, il busto di raso nero, il busto che Giuliana s’era tolto a Villalilla nella mia breve assenza; su un’altra sedia, l’abito grigio, quel medesimo ch’ella aveva portato con tanta finezza tra i fiori di lilla eleganti. La vista di quelle cose mi diede un tale spasimo che di nuovo ebbi l’impeto di fuggire. Mi volsi all’alcova, discostai le cortine; vidi il letto, vidi sul guanciale la macchia cupa dei capelli, non la faccia: vidi il rilievo del corpo rattratto sotto le coperte. Mi si presentò allo spirito la verità brutale in tutta la sua più ignobile brutalità. «Ella è stata posseduta da un altro, ha ricevuta l’escrezione di un altro, porta nel ventre il seme di un altro.» E una serie d’imagini fisiche odiose mi si svolse davanti agli occhi dell’anima, che io non potevo serrare. E non furono soltanto le imagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch’io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d’un feto adulterino…
Chi avrebbe potuto imaginare un castigo più feroce? E tutto era vero, tutto era certo!
Quando il dolore eccede le forze, istintivamente l’uomo cerca nel dubbio un’attenuazione momentanea della sofferenza insofferibile; pensa: «Forse io m’inganno; forse la mia sciagura non è quale mi appare; forse tutto questo dolore è irragionevole». E, per protrarre la tregua, intende lo spirito perplesso ad acquistare una nozione più esatta della realtà. Ma a me il dubbio non si presentò neppure per un attimo; io non ebbi neppure un attimo d’incertezza. M’è impossibile esplicare il fenomeno che si svolse nella mia conscienza divenuta straordinariamente lucida. Pareva che per un segreto spontaneo processo, compiutosi in una sfera interiore oscura, tutti gli inavvertiti indizii relativi alla cosa tremenda si fossero coordinati tra loro formando una nozione logica, completa, coerente, definitiva, irrefragabile; la quale ora mi si manifestasse d’un tratto assorgendo nella mia conscienza con la rapidità di un oggetto che, non più trattenuto al fondo da legami ignoti, venga su la linea dell’acqua a galleggiare e vi rimanga insommergibile. Tutti gli indizii, tutte le prove erano là, in ordine. Io non dovevo compiere alcuno sforzo per ricercarli, per sceglierli, per riunirli. Fatti insignificanti, lontani, s’illuminavano nella nuova luce; lembi di vita recente si ricolorivano. E l’avversione insolita di Giuliana per i fiori, per gli odori, i suoi turbamenti singolari, le sue nausee mal dissimulate, i suoi pallori subitanei, quella specie di nube continua tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa di certe sue attitudini; e le pagine segnate con l’unghia nel libro russo, il rimprovero del vecchio al conte Besoukhow, la domanda estrema della piccola principessa Lisa, e quel gesto con cui ella mi aveva tolto di mano il libro; e poi le scene di Villalilla, le lacrime, i singhiozzi, le frasi ambigue, i sorrisi sibillini, i quasi lugubri ardori, le volubilità quasi folli, le evocazioni della morte, tutti gli indizii si aggruppavano intorno alle parole di mia madre incise nel centro della mia anima.
Mia madre aveva detto: «È impossibile ingannarsi. Fino a due o tre giorni fa, Giuliana negava o almeno diceva di non esserne certa… Sapendoti così apprensivo, m’ha pregata di non parlartene…». La verità non poteva essere più chiara. Tutto, dunque, ormai era certo!
Entrai nell’alcova; m’appressai al letto. Dietro di me le cortine ricaddero; la luce divenne più fievole. L’ansietà mi tolse il respiro, tutto il sangue mi si fermò nelle arterie, quando io giunsi al capezzale e mi chinai per guardare più da vicino la testa di Giuliana, quasi celata dal lenzuolo. Io non so che sarebbe avvenuto s’ella avesse alzato la faccia ed avesse parlato, in quel momento.
Dormiva ella? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.
Rimasi là qualche minuto, in piedi, aspettando. Ma dormiva ella? Non si moveva, giacendo sul fianco. La bocca nascosta dal lenzuolo non dava segno di respirazione al mio udito. Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta.
Come mi sarei contenuto s’ella si fosse accorta della mia presenza? Non era quella l’ora delle interrogazioni, l’ora del colloquio. S’ella avesse sospettato che tutto m’era noto, a quali estremità si sarebbe spinta in quella notte? Avrei io dunque dovuto simulare un’ingenua tenerezza, avrei dovuto mostrarmi perfettamente ignaro, persistere nella espressione del sentimento che m’aveva dettato le dolci parole, quattro ore innanzi, a Villalilla. «Stasera, stasera, nel tuo letto… Vedrai come saprò tenerti. Ti addormenterò. Mi dormirai tutta la notte sul cuore…»
Girando lo sguardo intorno smarrito, scorsi sul tappeto gli scarpini lucidi e sottili, su la spalliera d’una sedia le lunghe calze di seta cinerina, le giarrettiere d’amoerro, un altro oggetto di segreta eleganza, tutte cose di cui i miei occhi d’amante s’erano già dilettati nelle intimità recenti. E la gelosia dei sensi mi morse con tanta furia che fu un prodigio se io mi trattenni dal gittarmi su Giuliana per risvegliarla e per gridarle le parole folli e crude che mi suggeriva la collera subitanea.
Mi ritrassi vacillando, uscii dall’alcova. Pensai con un cieco sgomento: «Come finiremo?».
Mi disponevo ad andarmene. «Scenderò. Dirò a mia madre che Giuliana dorme, che ha un sonno molto calmo; le dirò che anch’io ho bisogno di riposo. Mi ritirerò nella mia stanza. Domattina poi…» Ma rimanevo là perplesso, incapace di varcare la soglia, assalito da mille paure. Mi volsi ancóra verso l’alcova, con un moto repentino, come se avessi sentito uno sguardo sopra di me. Mi parve che le cortine ondeggiassero; ma fu un abbaglio. Eppure qualche cosa come un’onda magnetica a traverso le cortine veniva a penetrarmi; qualche cosa a cui non resistevo. Entrai nell’alcova una seconda volta, rabbrividendo.
Giuliana giaceva nella medesima attitudine. Dormiva? Soltanto la fronte, fino ai sopraccigli, era scoperta. Mi sedetti, presso al capezzale; ed aspettai. Guardavo quella fronte pallida come il lenzuolo, tenue e pura come una particola, sororale, che tante volte le mie labbra avevano baciata religiosamente, che tante volte avevano baciata le labbra di mia madre.
Non v’appariva segno di contaminazione; alla vista era sempre la stessa, là nulla al mondo poteva ormai cancellare la macchia che vedevano su quel pallore gli occhi della mia anima!
Alcune parole, proferite da me nell’ultima ebrezza, mi tornarono alla memoria. «Io ti veglierò, ti leggerò sul viso i sogni che sognerai.» Ripensai: «Ella ripeteva ad ogni tratto: – Sì, sì». Domandai a me medesimo: «Di che vita ella vive, entro di sé? Quali sono i suoi propositi? Che ha ella risoluto?». E guardavo la sua fronte, là non più considerai il mio dolore; ma mi piegai tutto a raffigurare il suo dolore, a comprendere il suo dolore.
Certo, doveva essere una disperazione inumana, la sua; senza tregua, senza limite. Il mio castigo era anche il suo castigo, ed era per lei forse un castigo anche più terribile. Laggiù, a Villalilla, pel viale, sul sedile, nella casa, ella aveva certo sentita la verità nelle mie parole, aveva certo letta la verità nella mia faccia. Ella aveva creduto al mio amore immenso.
«… Tu eri nella mia casa mentre io ti cercavo lontano. Ah, dimmi tu: questa rivelazione non vale tutte le tue lacrime? Non vorresti averne versate anche più, anche più, per una tale prova?
– Sì, anche più!…»
Così aveva ella risposto, così tutta la sua anima aveva risposto, con un soffio che veramente m’era parso divino. «Sì, anche più!…»
Ella avrebbe voluto aver versato altre lacrime, avrebbe voluto aver sofferto un altro martirio per quella rivelazione! E, vedendo ai suoi piedi appassionato come non mai l’uomo da anni perduto e pianto, vedendo aprirsi d’innanzi a sé un gran paradiso ignoto, ella s’era sentita impura, aveva avuta la sensazione materiale della sua impurità, aveva dovuto sopportare la mia testa sul grembo fecondato dal seme di un altro uomo.. Ah, come mai, veramente le sue lacrime non mi avevano piagata la faccia? Come mai avevo potuto io beverle senza avvelenarmi?
Rivissi in un attimo tutta la nostra giornata d’amore. Rividi tutte le espressioni, anche le più fuggevoli, apparse sul volto di Giuliana dal momento del nostro ingresso a Villalilla; e tutte le compresi. Una gran luce s’era fatta in me. «Ah quando io le parlavo del domani, le parlavo dell’avvenire!… Che spaventosa parola doveva essere per lei quel Domani su le mie labbra!…» E mi tornò alla memoria il breve dialogo avvenuto sul limitare del balcone al conspetto del cipresso. Ella aveva ripetuto sommessamente, con un sorriso tenue: «Morire!». Aveva parlato di fine prossima. Aveva domandato: «Che faresti tu se io ti morissi, all’improvviso? Se, per esempio, domani io fossi morta?». Più tardi, nella nostra stanza, ella aveva gridato stringendosi a me: «No, no, Tullio; non si parla dell’avvenire… Pensa a oggi, all’ora che passa!». Non tradivano tali atti, tali parole un proposito di morte, una risoluzione tragica? Era manifesto ch’ella aveva risoluto di uccidersi, ch’ella si sarebbe uccisa, forse in quella notte medesima, prima del domani indifferibile, non essendoci per lei altro scampo.
Quando cessò il raccapriccio che mi venne dal pensiero del pericolo imminente, io considerai in me stesso: «Sarebbero più gravi le conseguenze della morte di Giuliana o quelle della sua incolumità? Poiché la ruina è senza riparo e l’abisso è senza fondo, una catastrofe immediata è forse preferibile alla prolungazione indefinita del dramma spaventevole». E la mia imaginazione mi faceva assistere alle fasi della nuova maternità di Giuliana, mi faceva vedere il nuovo essere procreato, l’intruso che avrebbe portato il mio nome, che sarebbe stato il mio erede, che avrebbe usurpato le carezze di mia madre, delle mie figliuole, di mio fratello. «Certo, soltanto la morte può interrompere il corso fatale di questi eventi. Ma il suicidio resterebbe segreto? Con qual mezzo Giuliana si ucciderebbe? Accertata la morte volontaria, che penserebbero mia madre, mio fratello? Qual colpo ne riceverebbe mia madre? E Maria? E Natalia? E che farei allora io della mia vita?»
Non riuscivo, veramente, a concepire la mia vita senza Giuliana. Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell’impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancor provato contro di lei un senso d’odio o di rancore o di disdegno. Non m’era balenato alcun pensiero di vendetta. Invece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. «Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l’esempio del coraggio virile, dell’abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo.» E questa sollevazione dell’anima, questa cosa buona, mi veniva da lei.
La guardai da presso. Rimaneva ancóra immobile, nella medesima attitudine, con la fronte scoperta. Pensai: «Ma dorme? Se invece fingesse di dormire per allontanare ogni sospetto, per farsi credere calma, per esser lasciata sola? Certo, se il suo proposito è di non arrivare a domani, ella cerca di favorirne l’esecuzione con ogni mezzo. Ella simula il sonno. Se il sonno fosse reale, non sarebbe così tranquillo, così fermo, in lei che ha i nervi sovreccitati. Ora la scuoto…». Ma esitai: «Se realmente dormisse? Talvolta, dopo una grande dispersione di forza nervosa, anche in mezzo alle più fiere inquietudini morali il sonno piomba grave come una sincope. Oh le durasse questo sonno fino a domani e potesse ella domani levarsi rinfrancata, a bastanza forte per sostenere il colloquio tra noi inevitabile!». Guardavo fissamente quella fronte pallida come il lenzuolo; e, chinandomi un poco più, m’accorsi che diveniva madida. Una stilla di sudore spuntava sul sopracciglio. E quella stilla mi suscitò l’idea del sudor freddo che annuncia l’azione dei veleni narcotici. Sùbito mi balenò un sospetto. «La morfina!» E per istinto il mio sguardo corse al tavolo da notte, di là dal capezzale, come a cercarvi la fiala di vetro contrassegnata dal piccolo teschio nero, dal noto simbolo mortuario.
Erano su quel tavolo una boccia d’acqua, un bicchiere, un candeliere, un fazzoletto, alcune forcine che rilucevano; non v’era altro. Feci un esame rapido di tutta l’alcova. Un’ansietà angosciosa mi stringeva. «Giuliana ha la morfina. Ne ha sempre avuta una certa quantità, liquida, per le iniezioni. Son sicuro che ha pensato di avvelenarsi con quella. Dove tiene nascosta la bottiglietta?» Io avevo fissa dentro le pupille l’imagine della piccola fiala di vetro veduta una volta tra le mani di Giuliana, distinta da quel segno sinistro che usano i farmacisti per distinguere un tossico. La fantasia eccitata mi suggerì: «E se ella avesse già bevuto?… Quel sudore…». Tremavo, su la sedia; e un dibattito rapido si agitava dentro di me. «Ma quando? Ma come? Ella non è rimasta mai sola. – Basta un attimo per vuotare una fiala. – Ma in lei non sarebbe forse mancato il vomito… E quell’accesso di vomito convulso, dianzi, appena ella è giunta qui? Avendo premeditato il suicidio, forse ella portava seco la morfina. Non può essere ch’ella l’abbia bevuta prima di giungere alla Badiola, in carrozza, nell’ombra? Infatti, ella ha impedito che Federico andasse a chiamare il medico..» Io non conoscevo bene i sintomi dell’avvelenamento per morfina. Nel dubbio, la fronte bianca e madida, la immobilità perfetta di Giuliana mi atterrivano. Stavo per scuoterla. «Ma se m’inganno? Ella si sveglia ed io che cosa le dico?» Mi pareva che la prima parola di lei, il primo sguardo scambiato tra lei e me, la prima comunicazione diretta tra lei e me, dovessero cagionarmi un effetto straordinario, d’una violenza imprevedibile, inimaginabile. Mi pareva che non avrei potuto dominarmi, dissimulare, e che ella sùbito, guardandomi, avrebbe indovinata la mia consapevolezza. E allora?
Tesi l’orecchio, sperando e temendo che sopraggiungesse mia madre. Poi (non avrei tremato così nel sollevare il lembo d’un lenzuolo funebre per rivedere la sembianza di una persona estinta) scopersi a poco a poco il volto di Giuliana.