Читайте только на Литрес

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 9

Yazı tipi:

Ella aprì gli occhi.

– Ah, Tullio, sei tu?

Ella aveva la sua voce naturale. Cosa inaspettata: io potevo parlare.

– Dormivi? – le dissi, evitando di guardarla nelle pupille.

– Sì, m’ero assopita.

– Io dunque t’ho svegliata… Perdonami… Volevo scoprirti la bocca. Temevo che tu non respirassi bene… che le coperte ti affogassero…

– Sì, è vero. Ora ho caldo, troppo caldo… Levami qualcuna di queste coperte; ti prego.

E io mi alzai per alleggerirla di qualche coperta. M’è ora impossibile definire il mio stato di conscienza relativo a quegli atti che io facevo, a quelle parole che io dicevo e udivo, a quelle cose che accadevano naturalmente come se nulla fosse mutato, come se io e Giuliana fossimo ignari e immuni, come se là dentro non fossero l’adulterio, il disinganno, il rimorso, la gelosia, la paura, la morte, tutte le atrocità umane, in quell’alcova tranquilla.

Ella mi domandò:

– È molto tardi?

– No, non è ancóra mezzanotte.

– La mamma è andata a letto?

– Non ancóra.

Dopo una pausa:

– E tu… non vai? Devi essere stanco…

Non seppi rispondere. Dovevo rispondere che rimanevo? pregarla di lasciarmi rimanere? ripeterle le parole tenere proferite su la poltrona, nella nostra stanza, a Villalilla? Ma, rimanendo, in che modo avrei passata la notte? Là, su la sedia, a vegliare, o nel letto accanto a lei? In che modo mi sarei condotto? Avrei potuto simulare sino in fondo?

Ella soggiunse:

– È meglio che tu vada, Tullio… per questa sera… Io non ho bisogno più di nulla; non ho bisogno d’altro che di riposo. Se tu rimanessi… sarebbe male… È meglio che tu vada, per questa sera, Tullio.

– Ma tu potresti aver bisogno…

– No. E poi, in ogni caso, c’è Cristina che dorme qui accanto.

– Io mi stendo là, sul canapè, con una coperta…

– Perché vuoi soffrire? Tu sei molto stanco: si vede dalla faccia… E poi, se io ti sapessi là, non dormirei. Sii buono, Tullio! Domattina, presto, tu verrai a vedermi. Ora abbiamo bisogno di riposo, tutt’e due: d’un riposo completo…

Ella aveva la voce fioca e carezzevole, senza alcun accento insolito. Tranne l’insistenza nel persuadermi ad andarmene, null’altro accusava in lei il proposito funesto. Ella pareva prostrata di forze ma calma. Di tratto in tratto chiudeva gli occhi, come se il sonno le aggravasse le palpebre. – Che fare? Lasciarla? Ma la sua calma appunto mi spaventava. Una tale calma non poteva venirle che dalla fermezza del proposito. Che fare? Tutto considerato, anche la mia presenza durante la notte sarebbe stata vana. Ella avrebbe potuto benissimo mandare ad effetto il suo pensiero, essendosi preparata, avendo pronto il mezzo. Questo mezzo era veramente la morfina? E dove teneva ella nascosta la fiala? Sotto il guanciale? Nel cassetto del tavolo da notte? In che modo farne ricerca? Bisognava palesare tutto, dire all’improvviso: «Io so che tu ti vuoi uccidere». Ma quale scena sarebbe seguita? Non sarebbe stato possibile nascondere il resto. E che notte, allora, sarebbe stata quella? – Tante perplessità esaurivano ogni mia energia, mi dissolvevano. I miei nervi si rilasciavano. La stanchezza fisica diveniva sempre più grave. Tutto il mio organismo entrava in quello stato di sfinimento estremo in cui ogni funzione volontaria sta per essere sospesa, in cui azioni e reazioni non si corrispondono più o non si compiono. Io mi sentivo incapace di resistere più oltre, di lottare, di operare in una qualunque maniera utile. Il sentimento della mia debolezza, il sentimento della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere mi paralizzavano. Il mio essere pareva colpito come da una paralisia repentina. Io provavo Un bisogno cieco di sfuggire anche a quell’ultima oscura conscienza dell’essere. E finalmente tutte le mie ansietà si risolsero in un pensiero disperato. «Avvenga che può, c’è anche per me la morte.»

– Sì, Giuliana, – dissi – ti lascio in pace. Dormi. Ci vedremo domani.

– Non ti reggi!

– Già, è vero; non mi reggo… Addio. Buona notte!

– Non mi dai un bacio, Tullio?

Un brivido di ripugnanza istintiva mi attraversò. Esitai. In quel punto entrava mia madre.

– Come, sei sveglia? – esclamò mia madre.

– Sì, ma ora mi riaddormento.

– Sono stata a vedere le bambine. Natalia era desta. M’ha domandato sùbito: «È tornata la mamma?». Voleva venire…

– Perché non dici a Edith che me la porti? S’è messa a letto Edith?

– No.

– Addio, Giuliana – interruppi.

E m’appressai, e mi chinai a baciarle la guancia ch’ella mi porgeva sollevandosi un poco su i gomiti.

– Addio, mamma. Vado a coricarmi perché ho un sonno che m’acceca.

– E non prendi nulla? Federico è rimasto giù ad aspettarti…

– No, mamma; non ho voglia. Buona notte!

E baciai su la guancia anche lei. Ed uscii senza indugio, senza volgere uno sguardo a Giuliana; raccolsi le poche forze che mi restavano e, appena fuori della soglia, mi misi a correre verso le mie stanze, per tema di cadere prima di aver raggiunta la mia porta.

Mi gettai bocconi sul letto. M’agitava quell’orgasmo che precede i grandi scoppi di pianto, quando il nodo dell’angoscia sta per disciogliersi, quando la tensione sta per allentarsi. Ma l’orgasmo durava, e il pianto non veniva. La sofferenza era orribile. Un peso enorme mi gravava in tutto il corpo, un peso che io sentivo non sopra ma dentro di me come se le mie ossa e i miei muscoli fossero divenuti di piombo compatto. E il mio cervello pensava ancóra! E la mia conscienza era ancóra vigile!

«No, non dovevo lasciarla, non dovevo consentire ad andarmene così. Certo, quando mia madre si sarà ritirata, ella si ucciderà. Il suono della sua voce quando ha espresso il desiderio di rivedere Natalia!..» Un’allucinazione s’impadronì di me, subitamente. – Mia madre usciva dalla stanza. Giuliana si levava a sedere sul letto, si metteva in ascolto. Poi, sicura d’essere alfine sola, prendeva dal cassetto del tavolo da notte la bottiglia della morfina; non esitava un attimo; con un gesto risoluto, la vuotava d’un fiato; si ritraeva sotto le coperte; si metteva supina, ad aspettare… – La visione imaginaria del cadavere giunse a una tale intensità che io, come un ossesso, m’alzai; girai tre o quattro volte intorno alla stanza urtando contro i mobili, inciampando nei tappeti, gesticolando paurosamente. Aprii una finestra.

La notte era tranquilla, piena d’un gracidare di rane monotono e continuo. Le stelle palpitavano.

L’Orsa brillava incontro, distinta. Il tempo fluiva.

Rimasi alcuni minuti al davanzale, in attesa, fissando la grande costellazione che pareva alla mia vista perturbata avvicinarsi. Non sapevo, veramente, che attendessi. Mi smarrivo. Avevo un sentimento particolare della vacuità di quel cielo immenso. All’improvviso, in quella specie di pausa dubitosa, come se un qualche influsso oscuro avesse operato sul mio essere nella profondità dell’inconscienza, risorse spontanea la domanda non ancóra bene compresa: «Che avete fatto di me?». E la visione del cadavere, per poco interrotta, si riaffacciò.

L’orrore fu tale che io, pur non sapendo quale azione volessi compiere, mi volsi, uscii senza esitare, mi diressi verso la stanza di Giuliana. Incontrai Miss Edith nell’andito.

– Di dove venite, Edith? – le chiesi.

M’accorsi ch’ella si stupì del mio aspetto.

– Ho portato Natalia dalla signora che la voleva vedere; ma ho dovuto lasciarla là. Non è stato possibile persuaderla a tornarsene nel suo letto. Ha pianto tanto che la signora ha consentito a tenerla con sé. Speriamo che Maria non si svegli ora…

– Ah, dunque…

Il cuore mi batteva con tal veemenza, che non potevo parlare di seguito.

– Ah, dunque, Natalia è rimasta nel letto della madre…

– Sì, signore.

– E Maria… Andiamo a vedere Maria.

La commozione mi soffocava. Giuliana per quella notte era salva! Non era possibile ch’ella pensasse a morire in quella notte, avendo la bambina al suo fianco. Per miracolo, il tenero capriccio di Natalia aveva salvato la madre. «Benedetta! Benedetta!» Prima di guardare Maria addormentata, io guardai il piccolo letto vuoto dov’era rimasto un piccolo solco. Strane voglie mi venivano, di baciare il guanciale, di sentire se il solco fosse ancóra tiepido. La presenza di Edith mi teneva in disagio. Mi volsi a Maria, mi chinai trattenendo il respiro, la contemplai a lungo, ricercai a una a una le note somiglianze ch’ella aveva con me, quasi numerai le vene tenui che le trasparivano nella tempia, nella guancia, nella gola. Dormiva sul fianco, tenendo la testa abbandonata indietro così che tutta la gola rimaneva scoperta sotto il mento alzato. I denti, minuti come grani di riso mondi, lucevano nella bocca socchiusa. I cigli, lunghi come quelli della madre, spandevano dal cavo degli occhi un’ombra che toccava il sommo delle gote. Una gracilità di fiore prezioso, una finezza estrema distinguevano quella forma infantile in cui io sentivo fluire il mio sangue assottigliato.

Quando mai, da che le due creature vivevano, quando mai avevo provato per loro un sentimento così profondo, così dolce e così triste?

Mi tolsi di là a fatica. Avrei voluto sedermi tra i due piccoli letti e riposare il capo su la sponda di quello vuoto, aspettando il domani.

– Buona notte, Edith – dissi uscendo; e la mia voce tremava d’un tremito diverso.

Come giunsi alla mia stanza, di nuovo mi gittai bocconi sul letto. E ruppi alfine in singhiozzi, perdutamente.

XII.

Quando mi svegliai dal sonno greve e quasi direi brutale che a una certa ora della notte m’era piombato sopra di schianto, durai fatica a ricuperare la nozione esatta della realtà.

Dopo un poco, al mio spirito scevro dalle eccitazioni notturne la realtà si presentò fredda, nuda, incommutabile. Che erano le angosce recenti al paragone dello sgomento che allora m’invase? – Bisogna vivere! Ed era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: «Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all’ultima goccia, il sangue del tuo cuore». Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salirono dall’intimo dell’essere. E, intanto, bisognava vivere, bisognava accettare anche in quel mattino la vita! E bisognava, sopra tutto, agire!

Il confronto ch’io feci dentro di me, tra quel risveglio reale e il risveglio sognato e sperato a Villalilla il giorno innanzi, aumentò la mia insofferenza. Pensai: «È impossibile che io accetti un tale stato; è impossibile che io mi levi, che io mi vesta, che io esca di qui, che io riveda Giuliana, che io le parli, che io seguiti a dissimulare innanzi a mia madre, che io aspetti l’ora opportuna per un colloquio definitivo, che in quel colloquio io stabilisca le condizioni della nostra esistenza avvenire. È impossibile. E allora? La distruzione assoluta istantanea di tutto ciò che in me soffre… Liberarmi, sfuggire… Non c’è altro». E, considerando la facilità della cosa, imaginando l’azione rapida, lo scatto dell’arma, l’effetto immediato del piombo, l’oscurità consecutiva, io provai in tutto il corpo una tensione particolare, angosciosa e pur mista d’un senso di sollievo, quasi di dolcezza. «Non c’è altro.» E, benché l’ansia di sapere mi agitasse, pensai con sollievo che non avrei saputo più nulla di nulla, che quella stessa ansia sarebbe d’un tratto cessata, che tutto insomma avrebbe avuto fine.

Udii battere alla porta. E la voce di mio fratello gridò:

– Tullio, non ti sei ancóra levato? Sono le nove. Posso entrare?

– Entra, Federico.

Egli entrò.

– Sai che è tardi? Sono passate le nove…

– Mi sono addormentato tardi, ed ero stanchissimo.

– Come stai?

– Così…

– La mamma è levata. M’ha detto che Giuliana sta a bastanza bene. Vuoi che t’apra la finestra? È una mattina stupenda.

Spalancò la finestra. Un flutto d’aria fresca inondò la stanza; le tende si gonfiarono come due vele; apparve nel vano l’azzurro.

– Vedi?

La luce viva scoprì forse nel mio volto i segni dello strazio, perché egli soggiunse:

– Ma anche tu stanotte ti sei sentito male?

– Credo d’aver avuto qualche po’ di febbre.

Federico mi guardava con i suoi limpidi occhi glauchi; e in quel momento mi parve di avere su l’anima tutto il peso delle menzogne e delle dissimulazioni future. Oh, s’egli avesse saputo!

Ma, come sempre, la sua presenza fugò da me la viltà che già mi teneva. Una energia fittizia, come dopo un sorso di cordiale, mi rialzò. Pensai: «In che modo si condurrebbe egli nel mio caso?». Il mio passato, la mia educazione, l’essenza stessa della mia natura contrastavano qualunque riscontro probabile; però questo almeno era certo: – in caso di sciagura, simile o dissimile, egli si sarebbe condotto da uomo forte e caritatevole, avrebbe affrontato il dolore eroicamente, avrebbe preferito al sacrificio degli altri il sacrificio di sé.

– Fammi sentire… – disse, accostandosi.

E mi toccò la fronte con la palma della mano, mi prese il polso.

– Ora sei libero, mi sembra. Ma che polso ineguale!

– Lasciami levare, Federico, che è tardi.

– Oggi, dopo mezzogiorno, vado al bosco d’Assòro. Se tu vuoi ventre, faccio sellare per te Orlando. Ti ricordi tu del bosco? Peccato che Giuliana non stia bene! Altrimenti, condurremmo anche lei… Vedrebbe le carbonare accese.

Quando nominava Giuliana, pareva che la sua voce divenisse più affettuosa, più dolce, quasi direi più fraterna. Oh, s’egli avesse saputo!

– Addio, Tullio. Vado a lavorare. Quando comincerai ad aiutarmi?

– Oggi stesso, domani, quando vorrai.

Egli si mise a ridere.

– Che ardore! Basta: ti vedrò alla prova. Addio.

Ed uscì con quel suo passo alacre e franco, poiché lo sollecitava di continuo l’esortazione inscritta nel quadrante solare: – Hora est benefaciendi.

XIII.

Erano le dieci quando uscii. La gran luce di quel mattino d’aprile, che inondava la Badiola per le finestre e per i balconi spalancati, m’intimidiva. Come portare la maschera sotto quella luce?

Cercai di mia madre, prima d’entrare nelle stanze di Giuliana.

– Ti sei levato tardi – ella disse, vedendomi. – Come stai?

– Bene.

– Sei pallido.

– Credo d’aver avuto un po’ di febbre, stanotte, ma ora sto bene.

– Hai veduta Giuliana?

– Non ancóra.

– Ha voluto levarsi, quella benedetta figliuola! Dice che non si sente più nulla; ma ha un viso…

– Vado da lei.

– E bisogna che tu non trascuri di scrivere al dottore. Non dar retta a Giuliana. Scrivi oggi stesso.

– Tu le hai detto… che io so?

– Sì, le ho detto che tu sai.

– Vado, mamma.

La lasciai davanti ai suoi grandi armarii di noce, profumati d’ireos, dove due donne accumulavano la bella biancheria di bucato, l’opulenza di Casa Hermil. Maria, nella sala del pianoforte, prendeva la lezione da Miss Edith; e le scale cromatiche si succedevano rapide ed eguali. Passava Pietro, il più fedele dei servitori, canuto, un po’ curvo, portando un vassoio pieno di cristalli che tintinnivano poiché le braccia tremavano di vecchiaia. Tutta la Badiola, inondata d’aria e di luce, aveva un aspetto di letizia tranquilla. V’era non so qual sentimento di bontà diffuso per ogni dove: qualche cosa come il sorriso tenue e inestinguibile dei Lari.

Mai quel sentimento, quel sorriso m’avevano penetrata l’anima così a dentro. Tanta pace, tanta bontà circondavano l’ignobile segreto che io e Giuliana dovevamo custodire in noi senza morirne.

«Ed ora?» pensai, al colmo dell’angoscia, girando per l’andito come un estraneo smarrito, non potendo dirigere il mio passo verso il luogo temuto, quasi che il mio corpo si rifiutasse d’obedire all’impulso della volontà. «Ed ora? Ella sa che io conosco il vero. Tra noi due ogni dissimulazione è omai inutile. Ed è necessario che noi ci guardiamo in faccia, che noi parliamo della cosa tremenda. Ma non è possibile che questo duello avvenga stamani. Le conseguenze sono imprevedibili. Ed è necessario, ora più che mai, è necessario che nessuno dei nostri atti apparisca singolare, inesplicabile a mia madre, a mio fratello, a qualunque persona di questa casa. Il mio turbamento di iersera, le mie inquietudini, le mie tristezze si possono spiegare con la preoccupazione del pericolo a cui Giuliana va incontro essendo incinta; ma logicamente, agli occhi altrui, questa preoccupazione deve rendermi verso di lei più tenero, più sollecito, più premuroso che mai. La mia prudenza oggi dev’essere estrema. Bisogna che io eviti ad ogni costo una scena tra me e Giuliana, oggi. Bisogna che io sfugga l’occasione di rimaner solo con lei, oggi. Ma bisogna anche ch’io trovi sùbito il modo di farle comprendere il sentimento che determina queste mie attitudini verso di lei, il proposito che regola la mia condotta. E se ella persistesse nella volontà di uccidersi? Se ella avesse soltanto differita di qualche ora l’esecuzione? Se ella stesse già aspettando l’opportunità?» Questo timore troncò gli indugi e mi spinse ad agire. Somigliavo quei soldati orientali che erano spinti alla battaglia a colpi di frusta.

Mi diressi verso la sala del pianoforte. Vedendomi, Maria interruppe i suoi esercizi e corse a me tutta leggera e allegra, come a un liberatore. Ella aveva la grazia, l’agilità, la leggerezza delle creature alate. La sollevai tra le mie braccia per baciarla.

– Mi porti con te? – mi chiese ella. – Sono stanca. È un’ora che Miss Edith mi tiene qui… Non ne posso più. Portami con te, fuori! Let us take a walk before breakfast.

– Dove?

– Where you please, it is the same to me.

– Ma andiamo prima dalla mamma…

– Eh, ieri voi ve n’andaste a Villalilla e noi rimanemmo alla Badiola. Fosti tu, proprio tu, che non volesti condurci; perché la mamma voleva. Cattivo! We should like to go there. Tell me how you amused yourselves…

Ella cantava come un uccello, in quella lingua non sua, deliziosamente. Quel cinguettio non intermesso accompagnava la mia ansietà, mentre andavamo verso le stanze di Giuliana. Poiché io esitavo, Maria batté alla porta chiamando:

– Mamma!

Giuliana aprì, ella medesima, non sospettando la mia presenza. Mi vide. Sussultò forte come se avesse veduto un fantasma, uno spettro, qualche cosa di terrifico.

– Sei tu? balbettò, tanto piano che appena l’udii, mentre le labbra nel muoversi le si scoloravano: divenuta a un tratto, dopo il sussulto, più rigida di un’erma.

E ci guardammo, là, su la soglia; ci fissammo; fissammo per un istante l’uno su l’altra la nostra stessa anima. Tutto disparve intorno; tutto fra noi due fu detto, fu compreso, fu risoluto, in un istante.

Dopo, che avvenne? Non so bene, non ricordo bene. Ricordo che per qualche tempo ebbi di ciò che avveniva una conscienza quasi direi intermittente, come per una successione di brevi eclissi. Era, credo, un fenomeno simile in parte a quello prodotto dall’indebolimento dell’attenzione volontaria in certi infermi. Smarrivo la facoltà dell’attenzione: non vedevo, non udivo, non afferravo più il senso delle parole, non comprendevo più. Poi, dopo un poco, ricuperavo quella facoltà, esaminavo d’intorno a me le cose e le persone, ridiventavo attento e consciente.

Giuliana era seduta; aveva Natalia su le ginocchia. Anch’io ero seduto. E Maria andava da lei a me e da me a lei, con una mobilità continua, parlando senza posa, incitando la sorella, rivolgendoci una quantità di domande a cui non rispondevamo se non con qualche cenno del capo. Quel favellio vivace riempiva il nostro silenzio. In uno dei frammenti che io udii, Maria diceva alla sorella:

– Ah, tu hai dormito con la mamma, stanotte. È vero?

E Natalia:

– Sì, perché io sono piccola.

– Ah, ma la notte che viene, sai, tocca a me. È vero, mamma? Prendi me nel tuo letto, la notte che viene…

Giuliana taceva, non sorrideva, assorta. Poiché Natalia le stava su le ginocchia volgendole le spalle, ella la teneva cinta con le braccia alla vita; e le sue mani posavano nel grembo della figliuola congiunte, più bianche della vestetta bianca su cui posavano, e affilate, e dolenti, così dolenti che rivelavano esse sole una immensità di tristezza. Giungendole la testa di Natalia a fiore del mento, ella reclinata pareva premere la bocca su quei riccioli; così che quando io le gettavo uno sguardo, non vedevo la parte inferiore del volto, non le vedevo l’espressione della bocca. Né incontravo mai gli occhi. Ma ogni volta vedevo le palpebre abbassate, un poco rosse, che ogni volta mi turbavano a dentro come se lasciassero trasparire la fissità della pupilla che coprivano.

Aspettava ella che io dicessi qualche parola? Salivano intanto alla sua bocca nascosta parole improfferibili?

Quando alfine con uno sforzo mi riuscì di sottrarmi a quello stato d’inazione in cui s’erano avvicendate lucidità e oscurità straordinarie, io dissi (ed ebbi, credo, l’accento che avrei avuto nel continuare un dialogo già iniziato, nell’aggiungere nuove parole alle dette) io dissi piano:

– La mamma vuole che io avvisi il dottore Vebesti. Le ho promesso di scrivere. Scriverò.

Ella non sollevò le palpebre; rimase muta. Maria, nella sua profonda inconsapevolezza, la guardò attonita; poi guardò me.

Io m’alzai, per uscire.

– Oggi, dopo mezzogiorno, andrò al bosco d’Assòro, con Federico. Ci vedremo stasera, al ritorno?

Poiché ella non accennava a rispondere, ripetei con una voce che significava tutte le cose non espresse:

– Ci vedremo stasera, al ritorno?

Le sue labbra tra i riccioli di Natalia spirarono:

– Sì.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
310 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre