Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 10
CAPITOLO VI
La dimostrazione degli zigari
Dopo la perquisizione, la casa dell'Obrizzi non fu più visitata dagli agenti di polizia. Tornando a Capizzone, lo zio di Teodoro protestò contro ai rigori del Bolza; e la mediazione autorevole del commissario di Almenno ottenne grazia al terribile rivoluzionario di piazza Fontana.
Ma il Dolci era predestinato alla gloria; la rivoluzione voleva farne un eroe, trascinandolo capricciosamente dietro il suo carro.
Sul finire dell'anno, Teodoro cominciò a levarsi dal letto e a riprender vigore. Il povero campagnuolo vagheggiava con inquieto desiderio l'ora del ritorno alla patria. Rivedere il campanile di Capizzone, scambiare un tenero sguardo colla figlia del sagrestano, ricoverarsi nel nido tranquillo dell'antica cameretta, riprendere gli studi interrotti, erano i sogni dorati del pacifico montanaro.
Il 2 gennaio, don Dionigi deve recarsi a Milano per ricondurre il nipote al villaggio nativo. Con quanta impazienza Teodoro attende quel giorno!.. I minuti gli sembrano secoli. Carlo Obrizzi, il fanatico patriota, interpretando a suo modo tutti gli atti e le parole di Teodoro, ha per fermo che il villaggio di Capizzone sia un covo di rivoluzionari, e che l'eroe di piazza Fontana sia aspettato lassù per dirigere le operazioni di qualche comitato segreto.
È il primo dell'anno, dell'anno 1848, memorabile nei fasti della storia italiana. I Milanesi, per ostile dimostrazione contro il governo straniero, hanno concordemente stabilito di astenersi dallo zigaro. Infatti nelle vie, oltre all'usato frequenti, non veggonsi fumatori. Se qualcuno passeggia collo zigaro alla bocca, questi viene additato quale un birro provocatore, un poliziotto travestito, una spia. Gli ufficialetti austriaci e i pochi fautori del maleviso governo si mescono alla folla, lanciando a destra e a sinistra densi globi di fumo. Il dispetto, la collera, il desiderio di reagire contro l'audace manifestazione popolare, prorompe dall'occhio briaco dei poliziotti e dei commissari perlustratori. Una sanguinosa collisione fra popolo e soldati sembra imminente.
Teodoro Dolci, più per istigazione dei suoi ospiti che pel desiderio di vedere una città, dove era entrato con auspici tanto sinistri, alla vigilia della partenza uscì di casa in compagnia dei fratelli Obrizzi, e prese con essi la via del Corso.
– No! no! torniamo indietro! – esclamava il pacifico allievo di don Dionigi atterrito dalla folla. – E poi… vedo attorno certi abiti… che mi ricordano…
– Fingete di non vedere! – rispondeva l'Obrizzi. – Questi abiti già da gran tempo fanno montare il sangue agli occhi a tutti i buoni Milanesi. Ma per ora ci vuol pazienza. Il momento non è lontano…! E allora spero che tornerete da Capizzone. Frattanto vedete quanta concordia nel nostro popolo! Si è detto di non fumare, e non si fuma. Si è detto di star calmi e dignitosi, e tutti vanno via queti queti come agnellini. Ma a suo tempo gli agnelli si muteranno in lupi, e non dubito che allora c'incontreremo di bel nuovo, signor Teodoro… Ella vedrà che anche a Milano vi sono dei fegati sani! —
I due fratelli Obrizzi, traendo l'allievo di don Dionigi verso porta Renza, si effondono in parole di ammirazione per l'eccellente contegno del popolo, lanciando sorde imprecazioni dietro le spalle dei fumatori. Il Dolci si lascia condurre come una vittima; di tratto in tratto egli si arresta per riprender fiato; i subiti mutamenti di colore che si alternano sul di lui volto vengono dagli illusi operai interpretati quali sintomi di ire segrete, di impetuosi desiderii di vendetta.
Presso lo svolto della contrada di San Pietro all'Orto, vedendo che la folla sempre più divien grossa, Teodoro colla eloquenza della paura insiste presso i compagni perchè lo riconducano a casa.
– Ebbene! poichè vi piace retrocedere, volgetevi per di là, e tirate innanzi pian piano fino al terzo lampione. Fra due minuti vi raggiungeremo. —
I due operai abbandonano il bravo Teodoro, e prendono la via di San Pietro all'Orto per recarsi alla stamperia.
Destino! destino! chi può sottrarsi alla tua potenza misteriosa? I molti che ti adorano e ti temono come una divinità, non sono forse meno stolti di coloro che ti negano. Un povero montanaro viene a Milano colla santa intenzione di festeggiare l'ingresso di un vescovo e, in premio del devoto pensiero, riceve nella coscia un colpo di baionetta, che lo obbliga a letto per quattro mesi, e gli procura una gloria che può innalzarlo a cariche elevatissime, e più probabilmente alla forca. Questo istesso montanaro, dopo lunga malattia, sta per tornare al paese nativo, col pacifico desiderio di chiudere il resto della vita in solitudine ignorata; ed ecco il destino gli si para dinanzi un'altra volta, lo afferra pel collo, e lo trascina in una prigione!
Fra i mille che passeggiano il Corso, Teodoro è forse il più innocente in fatto di politica: tutta Milano è in fermento di rivoluzione: il popolo, che si agita nelle vie, freme di sdegni mal repressi, non respira che odio e desiderio di vendetta. L'allievo di don Dionigi è tutto assorto nella immagine polposa di Dorotea Melazza, la figliuola del sagrestano di Capizzone, che spera fra poco rivedere. Egli procede cautamente nella via, cedendo il passo a quanti gli vengono incontro…
Donde sbuccarono quelle due figuracce dal muso cagnesco? Teodoro dà indietro due passi per lo spavento. Ma i due gli si mettono alle coste e lo inchiodano alla muraglia.
– Signor prigante! – grida l'un d'essi presentando uno zigaro al Dolci – La prego assaggiare quanto star pono tabacco di nostro ponissimo imperatore!
– Tante grazie… signore! – balbetta Teodoro levandosi il cappello; – non sono avezzo a fumare! don Dionigi me l'ha proibito.
– Canaglia di Italiano! – rispondono i due aggressori, che nella fisonomia e nel linguaggio rivelano la loro origine tedesca; – ti aver proibito fumare perchè nostro pono imperatore chiuder bottega! —
E qui i due tedeschi briachi levano il bastone sul capo di Teodoro, mentre dalla folla indignata prorompe un ruggito di imprecazioni.
– Ladri! assassini! carnefici! – grida il popolo furente!
– Morte alle spie!
– Morte ai sicari dell'Austria!
– Abbasso i pollini!
– Viva l'Italia! —
I due fratelli Obrizzi, rompendo col gomito nerboruto quella muraglia di gente, cercano avvicinarsi a Teodoro per salvarlo dal nuovo pericolo. Urta, pesta, sospingi… Carlo è nel mezzo della folla…
Il pugno nodoso dell'operaio già pende sulla testa degli assalitori; quel pugno potrebbe spezzare un incudine e forse anco un cranio tedesco! Tardo soccorso! L'ala sinistra dell'esercito popolare non tenne fermo contro le baionette, e il commissario Siccardi potè avventarsi a Teodoro, afferrarlo per la cravatta, e darlo in balìa dei suoi birri.
I sicari della esosa polizia trascinavano la preda per le corsia dei Servi, incalzati dagli anatemi del popolo. Erano fischi da serpenti, urli da iene, ruggiti da diavoli.
Le vittime di Falaride abbrustolite nel toro di bronzo, non mandarono più spaventevole ruggito. Prima che il Dolci toccasse la porta di Santa Margherita, la scorta dei birri si era tanto ingrossata, che da ultimo essa costituiva un esercito di circa dugento guerrieri… Dugento guerrieri per condurre prigione l'allievo di don Dionigi! Tanto apparato di forze può sembrare superfluo… Eppure quei guerrieri tremavano di paura e avevano il viso giallo!
Ma il pericolo dei forti è cessato. Teodoro ha varcata la orribile soglia di Santa Margherita: le porte si chiudono, e il popolo respinto dalle baionette si disperde.
– Che diavolo è accaduto? – domanda il conte Bolza, scendendo nel cortile della sua reggia. – Qual delitto ha commesso codesto furfante? Fate un po' ch'io lo vegga in grugno costui!.. se non mi inganno l'ho veduto altra volta il manigoldo! Presto! frugategli indosso… mentre io mi sbrigo colle formalità del processo verbale. Questa non la è la giornata da perdersi in lunghi rapporti… Ehi! bel muso da forca! come vi chiamate? —
Il campagnuolo, istupidito dal nuovo disastro, tien l'occhio fisso nell'inquisitore senza rispondere parola, mentre il commissario Forconi, sbuffante di dispetto e di paura, enumera i delitti del catturato.
– Egli è uno de' pochi riottosi che rifiutano di fumare. Egli ha strappato lo zigaro di bocca a due uffiziali vestiti alla borghese. Egli ha tentato resistere alla forza pubblica. Egli ha esposto il nostro imperiale regio esercito di poliziotti ai pericoli d'una tumultuosa reazione popolare…
– Ebbene, signor faccia tosta? – riprende il Bolza volgendosi a Teodoro; – mi direte una volta il vostro nome?.. Dovrò io farvi appiccare senza le debite formalità?
– Signore! io sono innocente! – prorompe Teodoro colle lacrime agli occhi. – Io sono un povero diavolo venuto dalle montagne di Capizzone per vedere l'ingresso del signor arcivescovo Romilli, e fui ferito non so da chi nè per quali ragioni in piazza Fontana…
– Che! sarebbe ella mai?.. Mi consolo di cuore… Ma bravo! ma bene! E il commissario di Almenno voleva persuaderci… Gran talentone quel commissario!.. E il nostro imperatore tiene al suo servizio codesti mangiapane!.. Basta! a tempo debito lo serviremo anche lui, quel caro collega! —
Di tal guisa borbottando, il Bolza esamina gli oggetti rinvenuti nelle saccocce di Teodoro. Fra questi è un temperino rinchiuso in un astuccio e avvolto in parecchi fogli, un temperino che l'Obrizzi ha regalato al suo ospite qual pegno di amicizia.
– Ditemi un po', signor galeotto; vorreste spiegarmi per quali ragioni vi siete provveduto di questo istrumento di morte?..
– Se non m'inganno… per temperare le penne…
– E quali penne speravate di temperare…?
– Le penne che s'usano da noi a Capizzone, le penne d'oca…
– Scellerato! brigante!.. io so bene di qual'oca intendete parlare! conosco il gergo impudente della canaglia riottosa… Frattanto andate in prigione, e ricordatevi che l'oca ha due becchi, e guai a chi ardisce toccarla! —
Oltremodo soddisfatto del proprio epigramma, il conte chiuse il processo, accennando ai birri di condurre il prigioniero al numero 24.
Rinchiuso nella orribile cameraccia, il povero Dolci si gettò boccone sovra il pagliericcio.
Nel carcere e perfino sui gradini del patibolo ai martiri volontari è conforto il pensiero della pubblica riconoscenza, la speranza di una fama gloriosa. Ma il nipote di don Dionigi può egli forse immaginare che tutta Milano parli di lui coll'entusiasmo dell'ammirazione; che il nome di Teodoro Dolci si ripeta da mille labbra con quello dei Ferruccio e dei Balilla; che cento leggiadre fanciulle sospirino per l'eroe di Capizzone, e cento madri lo additino ai figliuoli quale esempio di fede e di virtù cittadine?
Il 2 gennaio, colla vettura del Brunetto, don Dionigi Quaglia giunse a Milano per ricondurre il nipote.
Immagina, lettore, qual rimanesse il buon prete all'annunzio della nuova sciagura.
– Ma dunque me l'hanno stregato, quel povero ragazzo! Che il diavolo gli fosse entrato nel corpo per trascinarlo alla eterna perdizione!..
– Non vi è dubbio, – rispose Carlo Obrizzi coll'enfasi consueta. – Il signor Teodoro è un vero diavolo. La si figuri, signor don Dionigi, che, per condurlo prigione, a mala pena bastarono dugento poliziotti armati dai piedi alla testa!!!
CAPITOLO VII
Il trionfo del martire
Come sono lente le giornate del prigioniero! Da oltre due mesi Teodoro languisce nel carcere di Santa Margherita; da oltre due mesi egli si trova segregato dal mondo, ignaro del proprio avvenire, privo di consolazioni e di speranze. La monotona visita del secondino che, senza proferire parola, gli getta la pagnotta come a cane famelico, è l'unica distrazione del prigioniero nelle notti interminabili, angosciose. Ignorando l'origine della propria sciagura, Teodoro attese lunga pezza un angelo liberatore in veste da prete, lo zio don Dionigi; e a lui piangendo volse preghiere e rimproveri, a lui stese le braccia desolate, nelle veglie e nei sonni. Ma l'angelo non apparve; e i lamenti del tapino si spensero sotto le gelide pareti. A poco a poco la rassegnazione passiva subentrò nell'animo di Teodoro; dopo due mesi di prigionia la vita mutossi per lui in letargo affannoso.
Il sul finire di marzo, una notte il prigioniero fu scosso da insoliti rumori… Lontano lontano gli parve udire un tuono come di temporale… poi squilli di campane… grida nelle vie, nel cortile; un correre, un agitarsi di persone ne' corridoi, ed altri strepiti non mai intesi. Una pioggia dirotta spinta dal vento assaliva la inferriata dell'angusta finestra, e, convertita in rigagnoli, a poco a poco allagava la stanza. Il sentimento della paura ridestossi nell'anima instupidita di Teodoro. Egli correva per la camera barcollando, e, raccomandandosi colle mani alla parete, pareva cercasse una breccia per isfuggire a nuovi e più crudeli disastri. «Oimè! – gridava il poveretto ravvivato dal terrore: – Iddio rinnova dunque il miracolo del diluvio! Questa città maladetta, ripiena di ingiustizia e di iniquità, sarà preda dell'acqua! Fra poco tutti saremo sommersi!.. Zio! mio buon zio! Caterina! Dorotea! santi e sante del Paradiso! venite in mio soccorso! abbiate misericordia di uno sfortunato che non ha fatto alcun male!»
Gl'insoliti rumori durarono tre giorni. Nel quarto era cessata la pioggia, ma i tuoni imperversavano tuttavia, e nel cortile s'udivano grida più distinte e più feroci, grida di vendetta e di morte.
Quel giorno il povero Teodoro non ricevette dal secondino la consueta pagnotta.
Pensate qual fosse il prigioniero all'indomani!.. Verso lo spuntare dell'alba, il miserello, che non aveva gustato cibo nè sonno, giaceva assiderato sul pavimento… le braccia appoggiate alla porta…! Non è mestieri ch'io spieghi, quali fossero gli strani rumori uditi da Teodoro negli ultimi giorni della sua prigionia. Erano la rivoluzione delle cinque giornate, erano la battaglia di un popolo fatto onnipotente dalla coscienza dei proprj diritti; erano il primo atto di quel dramma glorioso, che noi abbiamo veduto chiudersi dopo tanta complicazione di eventi ora prosperi ora avversi, col trionfo della indipendenza e della libertà italiana.
Il terribile palazzo di Santa Margherita è invaso dal popolo vincitore. I lupi della esosa polizia sono dispersi o stretti in catene. I cortili, le scale, i corritoi suonano di liete grida… le prigioni si disserrano… Le vittime della antica tirannide, uscendo dalle oscure caverne, respirano la libertà, e dinanzi ai vividi colori della bandiera italiana dimenticano le pene sofferte, risorgono a vita novella.
Carlo Obrizzi non ha dimenticato l'antico ospite, il martire di piazza Fontana. Il valoroso operaio, che fra i primi ha combattuto alle barricate, profitta della vittoria per correre a liberare l'amico.
Le porte dell'orribile cameraccia, ov'è sepolto Teodoro, si spalancano d'improvviso… L'Obrizzi, seguìto dai fratelli e dagli amici vestiti di velluto e armati di pistole e di pugnali, si gettano sul prigioniero, lo sollevano dal pavimento, e cercano rianimarlo coi gridi: – Viva l'Italia! Viva la libertà!
– Presto! la tua boccetta dell'acquavite! – dice l'Obrizzi all'un dei colleghi. – Dio sa quanto ha patito il povero ragazzo in questi ultimi giorni! Egli non ha più forza da reggersi in piedi. —
Il collega dell'Obrizzi si affretta a versare il liquore nelle fauci del prigioniero estenuato. Questi apre gli occhi, e vedendosi dattorno tante persone armate dalla testa ai piedi, giunge le mani tremando, e implora misericordia.
– Ma che? voi dunque non mi riconoscete? – esclama l'Obrizzi, – non ravvisate il vostro amico, il vostro ospite della contrada di Sant'Antonio! Noi siamo venuti a liberarvi! noi siam venuti a premiarvi del vostro coraggio, dei vostri generosi sacrifici a pro della patria! I Tedeschi non sono più a Milano… Ora i padroni siam noi!.. Coraggio adunque! Dimenticate il passato! e venite con noi a raccogliere quella palma di gloria che si addice ai martiri… ai valorosi… vostri pari!
– Bravo! bene! ben parlato! – gridano ad un punto i circostanti. – Venite, signor Teodoro! Tutta Milano vi attende per farvi festa! —
Così detto, i colleghi dell'Obrizzi prendono in sulle spalle Teodoro, e al grido reiterato di: Viva il riformatore di Capizzone! viva il martire di piazza Fontana! viva l'eroe del due gennaio! escono dalla camera, scendono le scale, e fuori all'aria aperta.
Al passare di Teodoro, quanti sono nella via si levano il cappello, agitano i fazzoletti; le guardie civiche presentano l'armi, le donne gettan fiori dalle finestre… E il corteo trionfale, preceduto dall'Obrizzi con bandiera spiegata, va sempre ingrossando fino agli Archi di porta Nuova. L'allievo di don Dionigi cogli occhi spalancati sembra interrogare tutto il creato per ottenere la spiegazione di quanto gli accade; uno strano sorriso gli increspa le labbra, il sorriso dell'uomo che è vicino ad impazzare, e vorrebbe afferrare un concetto che ad ogni istante gli sfugge. «Perchè mi hanno ferito in piazza Fontana? Perchè imprigionato nel mese di gennaio? Dove mi portano costoro? Che voglion dire quelle grida di evviva? Perchè tanta gente vestita di rosso, bianco e verde? E que' cavalieri in abito di velluto col cappello ornato di piume? Fosse questo il famoso carnevalone di Milano!.. Quanti mobili accatastati nella via!.. Forse per abbruciarmi vivo!.. C'era bisogno di dar fuoco agli armadi e ai pianoforti per arrostire un povero diavolo qual io mi sono? Oh questa senza dubbio è la fine del mondo!
Presso porta Nuova il corteo trionfale si arresta, e fra le acclamazioni e gli urli della folla, il nipote di don Dionigi vien trascinato sul poggio che domina gli Archi, ove, sotto un magnifico padiglione, siede un uomo di circa quarant'anni, l'avvocato Antonio Negri, capitano e comandante del quartiere.
– Signor capitano! – dice l'Obrizzi, ponendosi la mano al berretto in attitudine militare, – ho l'onore di presentarvi un eroe, un martire della libertà italiana, il celebre Teodoro Dolci da Capizzone, di cui per avventura avrete inteso parlare. Il poveretto languiva prigioniero a Santa Margherita fino dal 2 gennaio. Noi lo abbiamo disseppellito poco dianzi, ed ora lo conduciamo dinanzi a voi, non dubitando che avrete caro di stringergli la mano.
– Venga…! venga pure l'eroe di Capizzone! Egli farà parte del nostro esercito di volontari che deve partire domani per Rocca d'Anfo. Ho bisogno di uomini senza paura, e, per quanto ho inteso dire, costui dev'essere un'anima dannata! —
Dietro un cenno dell'Obrizzi, Teodoro Dolci, che infino a quel punto è rimasto fuori della tenda, viene introdotto e presentato al capitano, il quale movendogli incontro e stendendogli la destra:
– Cittadino Dolci! – gli dice, – nel libro della patria il vostro nome sta scritto a indelebili cifre. Voi molto avete sofferto… e grande sarà la vostra ricompensa. Parlate! chiedete! I migliori impieghi civili e militari si offrono a voi. —
Teodoro, che a stento si regge in piedi, nè osa levare lo sguardo sul personaggio che gli dirige la parola, con voce tremante e rotta dai singhiozzi:
– Eccellenza, – risponde, – poichè ella vuol degnarsi di accordarmi la sua protezione, io la prego di farmi ricondurre al mio paese nativo presso don Dionigi e Caterina che probabilmente mi attendono da un pezzo. Le giuro che io non ho commesso verun delitto. Quando la mia innocenza verrà riconosciuta, io spero ottenere l'impiego che l'augusto…
– Voi mi sembrate alquanto abbattuto nello spirito, – interrompe l'avvocato.
– Eccellenza… da due giorni non mi fu dato alcun cibo, e sento che le gambe mi tremano sotto… Ma non importa… Io son pronto a digiunare tutta la giornata purchè mi si riconduca a Capizzone.
– Presto! presto! – ordina il Negri ad uno dei suoi commiliti; – portate la colezione a questo bravo ragazzo! Gli eroi non vivono d'aria, e a stomaco digiuno talvolta vien meno anche il coraggio. —
Immantinente sotto il padiglione viene imbandita una mensa, e il Dolci dopo molti complimenti ed inchini, cedendo agli impulsi della fame, si getta sul pasto.
Il nipote di don Dionigi, sebbene non sia in grado di spiegare il mistero degli ultimi avvenimenti, nondimeno si accorge che la sua posizione è alquanto migliorata. I cibi saporiti e il vino generoso gli infondono un po' di energia; la presenza dell'Obrizzi, la vista dei giocondi colori che adornano il padiglione, l'allegria dipinta nel volto de' soldati cittadini, i suoni festosi delle bande musicali che passano nella via, tutto parla alla fantasia del timido montanaro un linguaggio pieno di conforto e di speranza.
Frattanto il Negri apre un enorme librone, e intingendo la penna nel calamajo, rivolge a Teodoro le seguenti domande:
– Voi dunque vi chiamate?..
– Teodoro Dolci, per obbedirla.
– Età?
– Venti anni… sette mesi e… cinque giorni.
– Nubile o ammogliato?
– Finora non ho moglie… per obbedirla. —
In profferire tali parole il pudico allievo di don Dionigi divenne rosso fin nel bianco dell'occhio.
– Non avete mai servito prima d'ora?..
– Ho servita la messa a mio zio don Dionigi.
– Farceur!… Le vostre gesta di piazza Fontana e l'eroismo che avete dimostrato il 2 gennajo vi fanno benemerito della patria più che dieci anni di servizio regolare… Qual è l'arme da voi favorita? Io posso offrirvi carabine, pistole, lance, tromboni…
– Io non chieggo d'esser armato, – rispose Teodoro, – ma se vostra eccellenza vuol farmi rendere il temperino che mi fu tolto il 2 gennaio prima che io andassi in prigione, le saprò grado di avermi risparmiata una spesa…
– La guerra dei coltelli e dei temperini è finita… Ora, grazie al cielo, abbiamo dei buoni fucili anche noi, e quanto prima avremo dei buoni cannoni. —
Ciò detto, il Negri, levandosi in piedi, ordina al tamburino di battere a richiamo. Tutti i militi della guardia nazionale accorrono sulla breccia, e si schierano in rango. Le cortine del padiglione sono levate, e il capitano conducendo l'allievo di don Dionigi innanzi alle schiere:
– Militi cittadini! – dice a voce alta, – ho l'onore di presentarvi nel signor Teodoro Dolci, uno de' più valorosi e benemeriti patriotti che l'Italia possa vantare. In compenso degli innumerevoli servigi che il signor Teodoro ha già resi alla patria, io lo nomino sergente maggiore nel corpo dei volontari, che fra poco partiranno con me per la spedizione di Rocca d'Anfo. Presentate le armi al nuove graduato!
– Viva l'Italia! viva il capitano Negri! – prorompono le schiere, – viva il sergente maggiore! e presto al campo! Sterminio e morte ai Tedeschi! —
I tamburi rispondono alle grida dei soldati; la folla del popolo, che tuttavia sta adunata sotto gli Archi, manda un ruggito di acclamazioni, mentre il Negri, levatosi la ciarpa tricolore, la cinge a Teodoro, quale insegna del grado.
– No… no!.. Eccellenza! – grida il nipote di don Dionigi, tremante di paura e di sospetto. – Io non ho fatto nulla, proprio nulla perchè io meriti esser trattato di tal guisa… Altro io non domando se non di morire oscuro ed ignorato nel mio paese…
– Che? rifiutereste il grado? preferireste servire nelle file dei semplici soldati?.. Signor Teodoro Dolci, voi siete un eroe dell'antica Sparta!.. Ma nè io nè la patria possiamo permettervi tanto sacrificio… Io però vi faccio solenne giuramento che sul campo di battaglia sarete tra i più esposti alle palle nemiche, e che a voi sarà concesso l'onore del primo attacco! —
Ciò detto, il capitano Negri strinse la mano di Teodoro, e scese dalla breccia seguìto da un picchetto di soldai, fra i viva reiterati della folla.
Sul finire di quella memorabile giornata, l'allievo di don Dionigi, con immensa carabina in sulle spalle, quattro pistole alla cintura ed una baionetta pendente sul fianco a guisa di sciabola, in compagnia dei fratelli Obrizzi, armati anch'essi di tutto punto, si recava al palazzo della Ville per prender possesso del nuovo alloggio, che il capitano Negri gli aveva destinato.
Teodoro Dolci venne introdotto in una magnifica stanza dipinta e fregiata con splendidezza regale. Un letto, con padiglione di seta e coltrici di damasco trapunte in oro, doveva accogliere quella notte il nipote di don Dionigi. La rivoluzione avea spinto il suo fantoccio nelle sale inaccessibili, ove i fantocci del dispotismo pochi mesi innanzi si credevano onnipotenti.
– In questo letto dormiva l'ex-augusto vicerè di Lombardia, – disse il custode del regale palazzo all'ospite novello.
Teodoro rimasto solo nella stanza, indugiò qualche minuto a coricarsi… Ma la stanchezza, la prostrazione dello spirito e del corpo poterono più che il rispetto dei ricchi arredi. Deposte con terrore le armi in un angolo della stanza, Teodoro gettossi vestito sul letto, spense d'un soffio le candela, e ravvolgendosi tra le coltri di seta, sia fatta, esclamò, la volontà di Dio! E il vicerè mi perdoni!