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Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 9

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CAPITOLO IV
Lo zio di un rivoluzionario

Il sole volge al tramonto. Sulla piazzetta di Capizzone parecchi individui attendono la vettura del Brunetto che deve tornare da Milano. Il molto reverendo sacerdote don Dionigi Quaglia dirige ad ogni tratto la punta del naso e del cappello triangolare verso la strada maestra; la Caterina siede sovra una pietra a poca distanza dal padrone: la figliuola del sagrestano si aggira d'intorno, e attende il crudele fidanzato per fulminarlo d'una occhiata terribile appena sia disceso dalla vettura.

Gli abitanti di Capizzone ignorano i tragici fatti avvenuti a Milano. Don Dionigi ed il sindaco, i soli che nel paese leggano la Gazzetta uffiziale, ricevono i fogli arretrati di sei giorni, che prima di giungere a Capizzone, hanno percorse dieci o dodici case di Almenno.

Odesi in lontananza lo scoppiettio di una frusta, poi rumore di ruote… e la vettura del Brunetto compare all'estremo della contrada corteggiata da una nube di polvere. Don Dionigi e la Caterina aguzzano gli occhi… – Perchè mai Teodoro non ha ripreso il posto di serpa?.. – Il buon prete, commosso, inquieto, interroga coi cenni il vetturino, ma questi fa l'astratto. Le angoscie, i terrori di don Dionigi aumentano… La carrozza è già prossima… la carrozza ha traversato la piazza… la carrozza si arresta… e Teodoro non mette il capo agli sportelli, Teodoro non istende una mano per salutare lo zio…

– Ebbene? ove è desso? che è avvenuto di nostro nipote? – gridano ad un tempo don Dionigi e la Caterina, correndo presso il Brunetto che già ha posto piede a terra.

Il vetturino, muto. Egli cava dal portafoglio una lettera, e crollando il capo in segno di mestizia, la presenta a don Dionigi.

«I caratteri non sono di Teodoro, il foglio è segnato di nome di sconosciuto, non vi è più dubbio: Teodoro dev'essere morto o gravemente ammalato.» Il terribile dilemma si affaccia alla mente del buon sacerdote, e gli occhi di lui, già pieni di lacrime, a mala pena distinguono le cifre. Ma le novelle contenute in quella lettera sono di tal natura, che nell'animo di don Dionigi il dolore è paralizzato dalla sorpresa. «Ciò non è possibile! – esclama egli – Chi scrive di tal guisa dev'essere un matto, ovvero qualche sciagurato che vuol prendersi spasso nel tormentarmi!»

Dal contesto della lettera, che noi riproduciamo fedelmente, a ciascuno sarà facile argomentare quali strane sensazioni agitassero il dabben sacerdote.

«Molto reverendo,

«Il primo sangue fu versato… Il nome dei protomartiri sarà scolpito a note indelebili nelle pagine della storia… Viva l'Italia! Viva Pio IX! Teodoro Dolci è nel novero dei pochi eletti, egli ha mietute le prime palme nella battaglia del popolo!.. Teodoro Dolci è benemerito della patria. Perchè un popolo risorga di schiavitù, voglionsi grandi sacrificii di sangue… Teodoro Dolci ha già versato il suo sull'altare della patria. Assalito proditoriamente da sicari scellerati, dopo aver combattuto da prode, riportò una gloriosa ferita… Questa notizia, noi ne siamo sicuri, riempirà il di lei cuore di consolazione… perchè ci son noti gli alti sensi patriottici che la distinguono, e che Ella seppe ispirare fino dalla più tenera età nel nipote ed allievo. La ferita non è mortale… Teodoro Dolci potrà sopravvivere e sfidare nuovi combattimenti. Noi lo abbiamo trasportato in luogo sicuro. Io mi tengo onorato di dargli asilo in mia casa, e di prestargli que' soccorsi che il di lui stato richiede. La viva tranquillo, signor don Dionigi: il di lei nipote verrà medicato ed assistito come si deve. Siamo povera gente, ma abbiamo cuore; venderemo anche la pentola per far danaro da soccorrere un fratello. Se ella crede venire a Milano per accertarsi cogli occhi proprj del nostro buon volere, il signor Teodoro sarà oltremodo consolato della sua visita. Nei deliri della febbre il bravo giovanotto invoca ad ogni tratto il di lei nome… Egli mi ha pregato di scriverle, e mi ha detto di consegnare la lettera al vetturino acciò le pervenga più sicura. Noi dunque la attendiamo. In casa nostra v'è un letto ed una zuppa anche per lei. Aggradisca i sentimenti della mia stima… Viva Pio IX! Viva Carlo Alberto! Viva l'Italia!

«Milano, contrada Sant'Antonio, N. 1241.
«Di Lei devotissimo servo
«Carlo Obrizzi
«operajo tipografo.»

Don Dionigi ha letto dieci volte lo scritto senza comprenderne il senso. La Caterina ed altri, che per avventura si trovavano sulla piazza, vedendo lo stupore e la costernazione del prete, si fanno intorno al Brunetto e lo assalgono di interrogazioni; ma il vetturale, in luogo di rispondere, straluna gli occhi, agita le braccia, si stringe la testa fra le mani, poi, appressandosi a don Dionigi che è rimasto in disparte pietrificato, gli disse sottovoce: – Le raccomando di aver prudenza, e di badare come ella parla… e con chi… Una parola men cauta può farci appiccare tutti e due!.. Fra pochi minuti io sarò da lei per informarla di quanto ho potuto raccogliere a Milano circa l'affare del signor Teodoro. —

La Caterina, sgomentata dalle parole del Brunetto, tira don Dionigi per la falda della zimarra; e il povero prete si lascia condurre alla propria abitazione come un tapino che d'un tratto abbia smarrita la ragione.

Verso le nove della sera, per istrade oblique ed oscure, il Brunetto recossi alla casa del prete. Don Dionigi era seduto sovra una vecchia poltrona.

Non appena il vetturino mise piede nella sala, Caterina corse a sprangare la porta e le finestre, lanciò un'occhiata sospettosa dietro l'armadio e sotto la tavola, poi sedette sul gradino del focolare. Il vecchio prete era afflitto profondamente, ma più rassegnato e più calmo. Alla crisi violenta della sorpresa e del terrore succedeva nell'anima sensibile dell'ottimo religioso quella tristezza affettuosa che medita la sciagura per trovare il più pronto, il più efficace rimedio.

– Dì pure, Brunetto; non nascondermi nulla di quanto è accaduto a quel povero figliuolo!.. Io ho riletto venti volte questo foglio, nè altro ho potuto comprendere se non ch'egli dev'essere ferito… e in pericolo della vita.

– Dunque… poichè qui si può parlare liberamente… le dirò come è andata la faccenda. Noi siamo giunti a Milano nel punto in cui il signor arcivescovo entrava pel corso di porta Renza… Ho scaricato il signor Teodoro all'albergo dell'Agnello, poi ho condotto le bestie al Ponte Vetero al solito stallazzo. Sul far della sera io doveva tornare all'Agnello per accompagnare il signor Teodoro a vedere l'illuminazione. Giunto sulla piazza della Scala, tiro innanzi verso la contrada del Marino, ma la folla è tanto spessa, che mi riesce impossibile di proseguire pel mio cammino. A forza di spintoni e gomitate mi provo a rompere quel muro di gente… Ed ecco, presso allo sbocco di Santa Radegonda vien via una ondata di popolo, che mi sospinge contro le invetriate d'una osteria.. Al rumore dei vetri che cadono in pezzi, sbucan fuori il padrone ed i guatteri, i quali, senza chieder permesso, chiudono la porta all'improvviso, gridando a tutta voce: «o fuori o dentro!» Io fui tanto sfortunato da rimanere dentro! Parola d'onore, don Dionigi: il vino non mi dispiace, ma avrei data la mia cavalla grigia per rimaner di fuori, e per poter servire il signor Teodoro della mia compagnia! Vedendomi forzato a rimanere nella bettola, che si fa? per non sfigurare, ordino un boccale da dodici… Ed ecco, mentre sto per sedere ad una tavola, mi trovo in faccia il Ciccino, il cavallante di Sarnico. «Tò! chi veggo! il Brunetto!» E subito il sozio mi offre il bicchiere, e le ciarle cominciano. «Le persone di giudizio s'incontrano all'osteria – dice l'amico; – tu non sei di que' matti che vanno a farsi schiacciare per veder quattro lumi. E tanto più in una serata come questa; una serata pericolosa che non potrà finire senza sangue…» «Sangue!» esclamo io, e (parola d'onore, don Dionigi…) mi venne subito in mente il signor Teodoro. «Sicuramente! questa sera i Milanesi fanno dimostrazione.» E qui il Ciccino, che è una testa fina… un politico, mi racconta certe storie imbrogliate, da far rizzare i capelli!.. Infine io vengo a sapere che i Milanesi sono stufi di stare sotto i Tedeschi, e vorrebbero passare sotto i Piemontesi; che Pio IX ha promesso liberare tutti gli Italiani e ammazzare tutti i Tedeschi… insomma che fra pochi mesi la sarà una baldoria per tutti. Il mio collega parlava sì bene, che io mi sarei stato tutta la notte ad udirlo; e frattanto i bicchieri si vuotavano, e il vino colava per la gola come un balsamo… Signor don Dionigi: ella sa che nel bere io non uso oltrepassare i limiti dell'onesto; pure… quella sera… che vuole?.. il vino misto alla politica mi diede al cervello… Fatto è ch'io mi addormentai sul pancaccio dell'osteria, nè mi svegliai che alle otto del mattino, quando il guattero scese per riaprire la bottega. Il mio primo pensiero nello svegliarmi fu pel signor Teodoro… Corro all'albergo dell'Agnello per chieder notizie di lui, e là vengo a sapere l'orribile caso… là trovo lo sconosciuto che mi porge la lettera…

– Povero Teodoro!.. povero nipote mio! – esclama don Dionigi. – Senza dubbio egli si sarà trovato in piazza Fontana nell'ora della dimostrazione.

– Sicuramente!.. Egli si è trovato in piazza nel punto in cui i Tedeschi si gettavano sulla folla colle sciabole sguainate.

– E non potendo fuggire…

– Sicuramente!.. Non potendo fuggire, egli si ribellò ai gendarmi…

– Che! mio nipote ha osato ribellarsi ai gendarmi! – grida don Dionigi balzando dalla seggiola…

– A quanto pare, egli deve essersi ribellato, – prosegue ingenuamente il Brunetto, – poichè, se è vero quanto ho inteso dire all'osteria dell'Agnello, il signor Teodoro ne ha ammazzati quattordici e feriti altrettanti.

– Jesus Maria! – prorompe la Caterina; – il nostro Dorino ha ammazzati quattordici gendarmi!.. —

Ma le ultime parole del Brunetto, che produssero sì viva impressiono nella vecchia servente, anzichè aggravare, hanno alquanto mitigato il cordoglio di don Dionigi. L'inverosimiglianza del racconto è troppo evidente… L'animo del dabben sacerdote si riapre alla speranza… Teodoro avrà corso qualche pericolo; forse nella pressa della folla avrà riportata qualche leggera contusione; ma il fatto non può essere tanto grave qual venne esposto nella lettera dello sconosciuto e nella confusa narrazione del Brunetto.

Per chiarire prontamente ogni dubbio, don Dionigi risolvette di partire all'indomani alla volta di Milano, e, dopo aver vegliato la notte in preda alla più viva agitazione, alle quattro del mattino prese commiato dalla servente, e uscì tutto solo di casa per raggiungere la vettura del Brunetto.

L'assenza prolungata di Teodoro, la lettera misteriosa pervenuta a don Dionigi, alcune frasi sfuggite al Brunetto la sera precedente, voci vaghe e confuse di disordini avvenuti in Milano, le inevitabili indiscrezioni della Caterina, suscitarono fra gli abitanti di Capizzone i più strani sospetti, le più assurde dicerie. Sul far della sera, il barbiere del villaggio, tornando da Almenno ove era stato a raccogliere notizie, narrava a' suoi compaesani che a Milano era scoppiata la rivolta, e che il nipote di don Dionigi avea messo in fuga un esercito di ussari a cavallo, uccidendone parecchi a colpi di bastone.

Quest'ultimo incidente trovò degl'increduli. Troppo era nota agli abitanti di Capizzone la fiacchezza e la timidità del nipote di don Dionigi, perchè l'eroico bullettino venisse accolto senza discussione. Ma il barbiere con giornalistica audacia impose silenzio alle obbiezioni:

– Vergogna! – sclamò egli, levandosi con autorità nel mezzo del crocchio. – Mentre tutta Italia rende giustizia ad un nostro concittadino, voi soli osereste muover dubbio sul suo valore?.. Convengo che il nipote di don Dionigi non è il forte dei forti; convengo che prima d'ora egli non ha dato prove di grande coraggio… Ma il più gramo dei figli di Capizzone non val forse trenta gagliardi d'altro paese?

– Vero! verissimo! bravo! – gridarono cento voci.

Da quel momento nessuno osò opporsi al barbiere oratore.

CAPITOLO V
Un processo verbale

Il molto reverendo don Dionigi Quaglia giunge a Milano sul far della sera. Mentre i soliti commensali stanno pranzando all'albergo dell'Agnello, l'ingenuo sacerdote precipita nella sala.

– Mi abbisogna una camera per questa notte, – dice egli al padrone; – ma prima di coricarmi vorrei trovare una persona fidata che mi accompagnasse in contrada Sant'Antonio, alla casa N. 1241. Io sono don Dionigi Quaglia di Capizzone. —

Non appena don Dionigi ha proferito il proprio nome, l'albergatore afferra il prete pel braccio, lo trascina nel cortiletto, e spingendolo fin presso ai gradini della cantina: – Imprudente! – gli dice; – ella si è tradito da sè medesimo! Dopo il fatto di piazza Fontana, dopo la famosa istoria di Teodoro Dolci, il mio albergo è continuamente assediato dalle spie. In questo momento ce n'erano due là dentro… e famose! Se la polizia giungesse a scoprire il nascondiglio del signor Dolci, io son certo che lo farebbe appiccare senza chiedere il permesso a Vienna. —

Don Dionigi, ritto ed immobile presso la muraglia, rassomiglia ad uno sparviero inchiodato. Il naso e la punta del cappello rivolti al firmamento esprimono la desolazione del poveretto. «Oimè! – sclama egli, – Iddio mi ha dunque tolto il bene dell'intelletto! Io non so più in che mondo mi sia…»

Frattanto gli zelanti patriotti, che stavano pranzando nella sala terrena, vengono anch'essi nel cortile per istringere la mano allo zio di Teodoro e offrirgli servigio.

– Bisogna far presto! Le due soffie sono già in cammino per recare l'ambasciata al conte Bolza. Sarà bene prevenire il signor Teodoro e farlo trasportare in altra casa… Presto! non c'è un minuto da perdere. —

Così parlando, due giovanotti si impadroniscono del prete e lo traggono fuori dell'osteria, dirigendosi verso la contrada di Sant'Antonio. Don Dionigi si lascia condurre come un automa; e mentre i due sconosciuti gli intronano l'orecchio di complimenti e di esortazioni patriotiche, il buon prete invoca il soccorso della Provvidenza recitando il Veni creator spiritus.

Eccoci nella contrada di Sant'Antonio. Giunti alla casa N. 1241, la piccola comitiva si arresta, e i due sconosciuti si accommiatano da don Dionigi. – Addio, incorrotto ministro dell'Evangelo! Addio, lume e decoro del sacerdozio! A suo tempo la patria saprà distinguere i veri dai falsi apostoli, e come si mostrerà inesorabile nell'esterminio dei Giuda, così saprà esaltare i veri missionari della libertà evangelica!

Don Dionigi penetra nel vestibolo della casa, cerca a tastoni la scala, e con passo vacillante comincia a salire. Dopo aver bussato a tutte le porte dei piani inferiori, e subìte le invettive di dieci o dodici inquilini, finalmente al quarto piano egli trova l'abitazione di Carlo Obrizzi, l'abitazione ove Teodoro fu ricoverato.

Lode al buono, all'onesto popolano milanese! Carlo Obrizzi appartiene alla classe degli operai tipografi. Nelle officine del pensiero, fino dalla prima fanciullezza, egli respirò i sentimenti di indipendenza e di libertà, che esalano dalle lettere e dalla scienza in onta delle compressioni tiranne. La classe degli operaj tipografi, a Milano come a Parigi, come in tutte le città dell'universo, si distingue pel fervore delle aspirazioni liberali. Nelle tregue del popolo, essa medita e si agita in segreto, spargendo nelle masse meno istruite il germe fecondo della parola; nel giorno della lotta essa fornisce gli uomini più coraggiosi e intraprendenti; corre alle barricate, combatte, muore per difesa e gloria della patria. Fra i martiri del 1848, fra i volontarj che nel 1859 corsero ad ingrossare le file dell'esercito italiano, figurano primi gli operaj tipografi. Nelle rivoluzioni e nelle battaglie della patria essi rappresentano l'intelligenza e la forza del popolo.

Appena don Dionigi affacciossi alla porta della modesta abitazione, Carlo Obrizzi lo accolse con trasporto di affetto. Chiamò la moglie, i fratelli, i figliuoli; e tutti quanti furono dattorno al buon prete, e, baciandogli la mano e le vesti, lo introdussero nella camera da letto ove Teodoro giaceva sopito.

In vedere le guance pallide e sformate del povero malato, don Dionigi sentì per la prima volta la certezza di una sciagura, di cui infino a quel punto avea sempre dubitato. Il buon vecchio giunse le mani al petto, levò al cielo lo sguardo, indi proruppe in lagrime.

Teodoro aprì gli occhi, riconobbe lo zio, e fece uno sforzo per levarsi a baciargli la mano. – Chi mi avrebbe detto, quando partisti da Capizzone, che io doveva rivederti in tale stato! ma la colpa è tutta mia!.. Oh perchè non ti ho accompagnato io stesso a Milano!..

– Signor zio, – mormora Teodoro con fioca voce, io spero che voi rimarrete presso di me, ovvero mi farete ricondurre a Capizzone… Desidero morire nel mio paese!..

– Povero giovane! – esclama l'Obrizzi. – Io non credo ch'egli possa partire sì presto da Milano. —

Don Dionigi prende una seggiola, si avvicina al letto di Teodoro, e lo esorta ad essere paziente, a soffrire i tormenti per l'amor di Dio. Poi, vedendo che la voce del malato si fa sempre più fioca, si volge agli astanti per sapere da essi tutte le circostanze del fatto doloroso.

Il buon operaio dà principio al racconto… e coll'enfasi dell'entusiasmo esalta il coraggio, la fede, l'eroismo di Teodoro. Don Dionigi, udendo ripetere le gesta sanguinose del nipote, comincia a dubitare che egli abbia veramente provocata la reazione dei gendarmi.

– Che razza di rumore è questo?.. Chi ha picchiato alla porta con tanta violenza? La moglie dell'Obrizzi si affretta ad aprire… Un uomo di statura mezzana, dal volto ingrugnito, dall'occhio sinistro, entra nella camera, seguíto da due poliziotti armati, i quali si piantano in sentinella a' piedi del letto.

Don Dionigi balza dalla seggiola atterrito… L'Obrizzi e gli altri, che stanno d'intorno al letto, sembrano pietrificati dalla subita apparizione del sinistro personaggio, in cui riconoscono il conte Bolza, il feroce inquisitore della polizia austriaca.

– Ebbene?.. siamo noi sordi? ovvero si vuol provocarci a qualche atto di violenza?.. Chi è di loro… il signor Teodoro Dolci? In nome della legge io vi intimo di rispondere!

– Signor commissario, – risponde l'operaio reprimendo il dispetto e la collera. – Il signor Teodoro Dolci, come ella vede, è in quel letto malato…

– Egli non è in grado di poter rispondere – osserva timidamente don Dionigi…

– Zitto lei! signor rompi-torta!

– Nella mia qualità di zio credeva aver diritto…

– Ah! lei è lo zio di questo bel mobile!.. lei resti pure… E loro signori prendano subito la porta. —

Carlo Obrizzi, seguíto dalla moglie e dai fratelli, si ritira nella anticamera. Il conte Bolza cava di tasca uno scartafaccio, si avvicina al letto del ferito, e dà principio alla inquisizione:

– Dunque lei è quel carne di collo che si chiama Teodoro Dolci? —

Alla vista dei poliziotti armati e del feroce commissario che gli stava addosso col grugno, quasi volesse divorarlo, Teodoro si leva sui guanciali, e risponde con cenno affermativo del capo.

– Ha ella, nella sera di lunedì scorso, assalito proditoriamente un picchetto di gendarmi?..

– Signor commissario, – interrompe don Dionigi. Io le giuro che mio nipote non è capace di commettere… sì orribili eccessi…

– Zitto! le ripeto, signor menadubbi!.. I rapporti che noi abbiamo ricevuti da zelanti impiegati ci assicurano che il signor Teodoro ha ammazzato in piazza Fontana non meno di ventiquattro gendarmi, e feriti cinquanta dragoni dell'imperiale esercito… È ben vero che, dietro altri rapporti pervenutici in appresso, abbiamo constatato che nessun gendarme e nessun soldato delle nostre imperiali regie truppe rimase morto o ferito; ma ciò non toglie che il signor Teodoro siasi recato in sulla piazza con micidiali disegni. Risponda adunque, signor pendolo da forca: quante vittime s'era ella proposto di fare la sera dello scorso lunedì?..

– Stimatissimo signor commissario, – risponde di nuovo il prete, – ella vede che il mio povero nipote è tanto aggravato dal male, che per ora non è in grado di discolparsi; ma io, che conosco l'indole di questo povero figliuolo, io, che l'ho allevato coi santi principii della obbedienza e della religione, posso attestare che loro signori si ingannano.

– La imperiale regia polizia non può ingannarsi! Crederebbe ella di abbindolarmi colle sue ciarle? Non sa ella che nelle provincie dell'augustissimo nostro impero nessuno proferisce una parola, nessuno muove un sospiro che noi non ne siamo informati? Noi conosciamo anche lei, signor don Dionigi Quaglia! Ella è nel novero di quei preti briganti che in nome di Pio IX, con promesse di costituzioni e di franchigie, cercano sollevare il cervello dei pacifici cittadini. Ma l'Austria non ha paura nè di preti, nè di vescovi, nè di papi, nè di tutta l'altra canaglia che pretende muoverle guerra. E se, loro signori reverendissimi, non metteranno giudizio, noi pianteremo delle buone forche nelle sagrestie… anche per loro comodo. —

Don Dionigi esterrefatto ricade sulla seggiola, e passa la mano entro il collare che gli stringe la gola come un capestro. Frattanto, per cenno del conte Bolza, i due poliziotti depongono l'armi, e s'aggirano per la camera, mettendo sossopra i mobili e frugandone gli anditi più riposti.

Il conte commissario si getta sugli abiti di Teodoro, che stanno ripiegati sovra un tavolo e, cercando nella saccoccia, ne trae il portafoglio fatale, dove l'ingenuo campagnuolo ha abbozzate le memorie del suo viaggio.

– Ma bene! ma bravo!.. E questi sono i bei principi di moralità e di religione, che il reverendo don Dionigi Quaglia ha instillati nel nipote! – ripiglia il commissario, ridendo d'un ghigno infernale. – Si compiaccia di leggere, signor collarone da galera! —

Alla vista dello scritto, il prete si smarrisce; le fiamme della vergogna gli salgono al viso, quasicchè la coscienza gli rinfacciasse un delitto.

Infatti nel portafoglio di Teodoro si leggono parole criminose, parole da rivoluzionario consumato: Viva Pio IX! Viva l'Italia! morte ai Tedeschi!

Don Dionigi non sapendo di qual modo discolpare il nipote, lo guarda con occhio di mite rimprovero quasi volesse dirgli: Possibile che il mio buon Teodoro mi abbia ingannato?

Il conte Bolza, dopo aver visitate tutte le carte, che per avventura si trovavano nella stanza, si pose in tasca il portafoglio di Teodoro; indi, volgendosi al prete con aria di trionfo: – Molto reverendo, – gli dice, – credo avervi provato che la nostra polizia non s'inganna mai. Ora, per dimostrarvi che noi siamo clementi nel condannare non meno che vigili nello scoprire i delitti, sospendiamo per ora il processo contro il prevenuto signor Teodoro Dolci in causa della malattia che gli toglie il libero uso delle sue facoltà; a voi, maestro e complice responsabile del temerario attentato di piazza Fontana, ordiniamo di lasciare Milano entro il termine di otto ore; e per guarentigia delle autorità e del pubblico, terremo notte e giorno sorvegliata questa casa da due sentinelle, che verranno mantenute a tutte spese del proprietario signor Carlo Obrizzi. Signor don Dionigi, la riverisco! e soprattutto le raccomando di badare attentamente ai fatti suoi, perchè i nostri hanno l'occhio acuto e gli orecchi lunghi! —

Dopo tali parole, il conte Bolza uscì dalla camera, e la sua fronte, poco dianzi aggrottata, divenne radiante. Il famigerato ministro della polizia non era mai così lieto come quando si accorgeva di aver ispirato terrore. Nella casa dell'Obrizzi egli lasciava un giovanetto semispento, un prete pietrificato, un operaio furibondo di sdegno, una donna piangente e due bimbi che strillavano. Quantunque avezzo a siffatti trionfi, quella sera il conte commissario fu oltremodo contento di sè medesimo, e cenò del migliore appetito.

Don Dionigi passò la notte in orazione presso il letto di Teodoro, poi, verso l'alba, lo benedisse d'un paio di marenghi e, dopo averlo raccomandato alle cure degli onesti operai, raggiunse la vettura del Brunetto per tornare a Capizzone. Il cuore del dabben sacerdote era strozzato. Più che la malattia del nipote, all'anima candida di don Dionigi era crudele il sospetto ch'egli fosse colpevole.

Tutta Milano il giorno seguente seppe della perquisizione avvenuta in casa dell'Obrizzi. Persone autorevoli pretendevano sapere da buona fonte che, nel portafogli di Teodoro Dolci, il Bolza aveva rinvenuti due proclami incendiari, e lettere di famosi cospiratori e istigatori della rivoluzione.