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Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 8

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Un capriccio della Rivoluzione

CAPITOLO PRIMO
Teodoro Dolci e l'arcivescovo Romilli

Correva l'autunno dell'anno 1847, e sulle provincie Lombardo-venete pesava più grave che mai il giogo della dominazione straniera.

Il molto reverendo don Dionigi Quaglia cappellano di Capizzone, una sera chiamò a sè il nipote Teodoro e, fiutata una enorme presa di tabacco, gli tenne il seguente discorso:

– Questa mattina per mezzo dell'imperiale regio commissario di Almenno ho ricevuto il dispaccio ufficiale che ti nomina a maestro elementare del paese. Prima di entrare in carica, sarà bene che tu dia l'ultima mano alla tua educazione morale e scientifica, onde corrispondere alle speranze che ho in te riposte ed alla fiducia che l'imperiale regio governo si è degnato accordarti. Da gran tempo io aveva stabilito di farti viaggiare; perocchè i viaggi sviluppano le facoltà mentali, e confermano le teorie col battesimo della pratica. Ora, la buona occasione è venuta. Domani entra in Milano monsignore Bartolomeo Romilli, il quale va a prender possesso in quella città della cattedra arcivescovile. Monsignor Romilli fu mio collega di seminario, una gemma d'uomo… un talento, un vero mostro di sapere…! Aggiungi ch'egli è anche bergamasco, quindi orgoglio e vanto della nostra nazione. Io desidero che tu assista alla solennità… Se io non fossi tanto inoltrato negli anni, volontieri verrei ad accompagnarti… Ma questi benedetti reumi nelle gambe non mi dànno più requie… Basta! Sia fatta la volontà di Dio! Prendi questo taccuino, Teodoro. In esso noterai tutte le chiacchiere che udrai fare a Milano sul conto del nuovo arcivescovo; poi, tornando a Capizzone, mi descriverai punto per punto le cerimonie dell'ingresso. È inutile che io ti raccomandi di esser savio e prudente durante il viaggio; tu fosti sempre un buon figliuolo. Guardati dai pericoli; tira via per la tua dritta; cedi sempre il passo alle persone di riguardo; rispetta le autorità e i funzionari pubblici. Partirai colla vettura del Brunetto, il quale ti condurrà all'albergo dell'Agnello, e poi alla sera ti accompagnerà a vedere l'illuminazione. Il padrone dell'Agnello mi conosce. Annunziati nipote di don Dionigi Quaglia, e sarai accolto come un principe. Mercoledì il Brunetto verrà a riprenderti colla vettura, e tornerai nelle braccia di tuo zio. —

Alla fine della parlata, il dabben prete si levò di tasca un marengo con poche monete spicciole, e lo porse a Teodoro. Questi baciò la mano allo zio, e andò tosto a coricarsi.

Caterina, la serva di don Dionigi, verso le quattro del mattino seguente entrò nella camera di Teodoro per isvegliarlo. Il giovinetto si pose indosso gli abiti di festa, e scese sulla piazza ove la vettura del Brunetto lo attendeva.

Nell'attraversare il sagrato, gli occhi di Teodoro levaronsi furtivamente verso una finestra. «Mi duole di partire senza vedere Dorotea,» pensò egli sospirando. Ma i cavalli scalpitavano, e la frusta del vetturino dava il segnale della partenza. Il giovane salì in serpa, fece tre volte il segno di croce, e la carrozza prese la via per Milano.

Prima di procedere nel racconto, schizziamo brevemente il ritratto del nostro eroe.

Teodoro Dolci da pochi giorni avea compiuti i vent'anni. Egli non era uscito mai da Capizzone, modesto paesello della provincia bergamasca. Orfano dalla infanzia, era stato allevato dallo zio materno, il molto reverendo cappellano don Dionigi Quaglia, uomo di ottimo cuore, che aveva trasfusa nel nipote tutta la sua scienza, insegnandogli a leggere, a scrivere di buona calligrafia, a servir messa, a far conti e a coniugare i verbi regolari.

Se Teodoro quanto a coltura dello spirito potea chiamarsi il più distinto giovine di Capizzone, don Dionigi nell'educarlo avea scordato ch'egli apparteneva al sesso mascolino. Il molto reverendo avea stillato nel cuore del nipote una morale debilitante, quella morale di sommissione e di abnegazione, che a questo mondo non giova gran fatto, ma nell'altro ci fa degni del paradiso.

All'età di quindici anni, Teodoro usciva di casa condotto a mano dallo zio o dalla vecchia servente, i quali ad ogni tratto lo ammonivano: Bada a quel sasso! – guardati da quel mulo! – non toccare quell'arbusto! – quelle bacche son velenose!

La timidità di Teodoro era divenuta proverbiale a Capizzone, e avea singolarmente reagito anche sulla di lui costituzione fisica. Il nipote di don Dionigi avea le guancie olivastre, l'occhio fisso e intorpidito, le labbra languide e semiaperte, la testa mollemente ricurva sul petto, le spalle rattratte, e due braccia interminabili che quasi toccavano il tallone.

All'età di vent'anni, Teodoro sembrava incapace di concepire un'idea, di fare un atto qualunque che non fosse dipendente dall'altrui volontà. Nondimeno l'educazione non può soffocare gli istinti, e il giovine montanaro da qualche tempo nutriva nell'anima un segreto, un tormento… una passione. Senza consultare lo zio, Teodoro avea osato amare una persona di sesso diverso, Dorotea Melazza, la figlia del sagrestano. Più volte i due amanti si erano incontrati la sera in sul sagrato all'ora dell'Angelus, per iscambiarsi un colpo di gomito. Quel gesto, più che ad una dichiarazione, equivaleva ad un contratto nuziale. La mattina in cui Teodoro dovette partire per Milano, soffrì uno spasimo al cuore, che gli fece comprendere per la prima volta tutta la forza e la misura dei prôpri sentimenti.

Dopo ciò, mettiamoci noi pure in cammino, e seguiamo il nostro eroe nel suo primo viaggio.

Il nipote di don Dionigi dondolava nel vano della serpa senza dir motto.

«Quale strano capriccio è venuto in capo a mio zio! – pensava egli; – io stavo tanto bene a Capizzone! Davvero non so comprendere il matto gusto che provano taluni a viaggiare!.. Oimè, le mie ossa!.. Mi pare che la vettura penda a sinistra… La cavalla grigia è mal ferma sulle gambe!.. E dàlle con quella frusta! Il Brunetto vuol condurmi al precipizio!.. Chiudiamo gli occhi… Povera Dorotea! Che dirà ella quando saprà ch'io sono partito? Non veggo l'ora di tornare a Capizzone!»

Il viaggio fu lungo e noioso. Verso le cinque pomeridiane, la vettura del Brunetto giunse alle porte di Milano, nell'ora appunto in cui il nuovo arcivescovo entrava trionfalmente pel corso Orientale.

– Misericordia! quante carrozze! che confusione! – esclamò Teodoro. – Per carità… Brunetto… torniamo indietro… od almeno restiamo qui, finchè non sia passata tutta quella gente! —

Il Brunetto per tutta risposta diede una frustata ai cavalli e penetrò nella fila delle carrozze, che facevano corteggio alla nuova Eminenza.

L'ingresso dell'arcivescovo Romilli in Milano dava il primo impulso alle dimostrazioni patriottiche di un popolo fremente che anelava alla indipendenza ed alla libertà. Le acclamazioni, i viva della moltitudine, anzichè al prelato bergamasco, eran volti a Pio IX, al pontefice iniziatore di civili riforme, a lui, che dal Vaticano avea benedetto il vessillo tricolore, e bandita la crociata contro i dominatori stranieri. Il nuovo arcivescovo, attraversando il corso di porta Orientale, si sforzava di sorridere alla folla plaudente: ma le grida, gli urli del popolo avean suono di minaccia, e il nome di Pio IX, troppo spesso ripetuto, feriva l'orecchio del timido prelato come tuono foriero di tempesta. Teodoro Dolci, l'ingenuo campagnuolo, era ben lungi dal comprendere lo scopo misterioso e solenne di quella festa, ignorava che quelle grida popolari erano il preludio di una rivoluzione. Egli si tolse il taccuino di tasca e vi segnò colla matita: Entusiasmo di popolo; grida Viva Romilli! viva Pio IX! viva l'Italia! Il poveretto, compiacendo di tal guisa ai desiderii dello zio don Dionigi, non poteva prevedere quali funeste conseguenze erano per derivargli da quelle riottose annotazioni.

La vettura del Brunetto impiegò due buone ore per condursi da porta Renza all'albergo dell'Agnello. Teodoro, stordito dal baccano e dall'insolito spettacolo della moltitudine, non udiva, non vedeva più nulla. Appena la vettura fermossi alla porta dell'albergo, il nipote di don Dionigi rotolò dalla serpa, e cascò sulla pancia dell'albergatore.

– Non ci sono più alloggi! – gridò l'oste incrollabile, – tutte le camere sono occupate da parecchi giorni.

Teodoro levossi il cappello e, ricordando i consigli dello zio, affrettossi a rispondere:

– Io sono il nipote del molto reverendo sacerdote don Dionigi Quaglia di Capizzone…

– O quaglia o pernice, qui non vi sono più camere da alloggiare forastieri, – replicò bruscamente l'albergatore. – I circostanti proruppero in una risata, e il povero campagnuolo si inchinò fino a terra.

Ma il Brunetto, cui premeva liberarsi del suo raccomandato, tirò in disparte un cameriere e gli disse all'orecchio: – Mettimi questo gaglioffo sul granaio o nella cantina, tanto ch'egli passi la notte. Ho bisogno che tu me lo levi dai piedi: perocchè io non saprei che farmi di lui in una serata come questa! —

Il cameriere fece d'occhio al padrone; questi sorrise malignamente, e volgendosi a Teodoro: – Entrate, – gli disse; poichè siete nipote di… vostro zio, cercherò di alloggiarvi alla meglio nella mia locanda. – E gli astanti a ridere di bel nuovo.

Il Brunetto levò dalla vettura un involto, lo porse al garzone, poi risalì in serpa.

– Che! tu parti, Brunetto? mi lasci qui solo… fra tanti pericoli?..

– Non temete, signor Teodoro; quando avrò collocate le mie bestie, verrò a tenervi compagnia. —

La vettura scomparve dietro la cantonata, e il timido campagnuolo portò la mano agli occhi per asciugare una lagrima. Colla vettura del Brunetto scompariva per lui ogni ricordo di Capizzone. Teodoro sentiva per la prima volta il dolore dell'isolamento morale.

CAPITOLO II
Prime armi di Teodoro Dolci

Sospinto dai camerieri, dai piccoli e dai pressati avventori, il timido campagnuolo trovossi nel mezzo della sala terrena.

– Il signore desidera pranzare?

– Io pranzare! – risponde Teodoro al cameriere; – da noi a Capizzone non si pranza… Io non sono un signore… Però avrei caro di mangiare un boccone così alla buona… perchè nel corso della giornata non ho preso verun cibo… tranne il caffè della Caterina…

– La si accomodi a quel tavolo…

– Signor cameriere… cameriere!..

– Le dico di prender posto a quel tavolo, e di sbrigarsi nell'ordinare, perchè in oggi, come ella vede, non abbiam tempo da perdere.

Teodoro si inoltra timidamente nella sala terrena, ma non osa avvicinarsi alla tavola che gli viene indicata, per tema di dar noia agli altri commensali.

– Se questi signori mi permettessero… – balbetta il giovane campagnuolo, dopo breve esitazione, – io mi accomoderei alla meglio in quel cantuccio…

I commensali si stringono l'un presso l'altro; Teodoro si leva il cappello e si pone a sedere, avendo cura di occupare il minore spazio possibile. Alla vista di tante persone ben vestite, di tante facce sconosciute, l'allievo di don Dionigi Quaglia non osa levar gli occhi, non che muovere una mano. Al rumore dei bicchieri e delle forchette si uniscono le stridule voci dei camerieri e dei piccoli, le ciarle animate dei mangiatori. Questi ultimi, per buona ventura di Teodoro, colle eccentriche aspirazioni del dialetto e colla manifesta predilezione per certi commestibili, rivelano la loro origine bergamasca. Teodoro, vedendosi circondato da tanti compaesani, trae dal petto un largo sospiro, e si dispone a pranzare di miglior appetito.

– I baggiani non san fare la polenta! – grida l'uno in tono dispregiativo.

– Nè tampoco arrostire gli uccelli, risponde un altro.

– Anche in coteste inezie, – soggiunge un terzo a voce bassa, – si scorge l'influenza fatale di un governo che pose ogni opera nel tener divisi gli Italiani… Ma… Viva l'arcivescovo Romilli…!

– Viva Pio IX! – rispondono sommessamente altre voci.

Frattanto il cameriere mette dinanzi a Teodoro mezza dozzina di piatti e un boccale di vino, poi si allontana rapidamente per servire gli altri commensali.

– È tutta per me questa roba! – grida il campagnuolo, rimirando con occhi atterriti la ricca imbandigione… – Io preferirei un tozzo di polenta… e un bicchier d'acqua…

– Scelga ciò che meglio le aggrada, e ringrazii la Provvidenza che l'hanno servito sì tosto, – brontola il vicino di Teodoro sorridendo maliziosamente. – E beva un sorso di vino… perocchè non sono più tempi da rinfreschi codesti… Fuoco! fuoco ci vuole e non acqua… acciò la bomba scoppii più presto!

Teodoro non osa profferire veruna obiezione; egli intinge la forchetta in un piatto di fritelle, ma recandosi al labbro il ghiotto boccone, non può a meno di sclamare: «Che direbbe mio zio don Dionigi se mi vedesse mangiare tali ghiottonerie!.. Egli che mi ha tanto raccomandato la sobrietà e l'economia!»

Il rumore della conversazione va sempre crescendo; ma gli epigrammi, le arguzie, le fatidiche arringhe dei circostanti, tuttochè espresse nel più puro idioma bergamasco, non sono comprese dall'ingenuo montanaro. «O questi signori sono pazzi, – conchiude egli dopo aver ascoltato lunga pezza gli strani discorsi, – o ch'io ho lasciato il cervello a Capizzone.»

– Io propongo un brindisi al grande prelato italiano! all'aspettato dalle genti! al successore di Giulio II!.. – grida il vicino di Teodoro, levandosi in piedi e portando il bicchiere alle labbra. Tutti i commensali si levano in piedi e bevono senza dir motto, ma stralunando gli occhi e agitando la testa come invasati.

– E lei… giovanotto… lei non risponde all'invito?

– Io… non son uso a ber vino… – risponde Teodoro.

– Ah!.. lei non è uso a ber vino! Lei non è buon Bergamasco!

– Nè buon Italiano! – soggiunge il vicino di Teodoro.

E tutti i circostanti ammutiscono, lanciando occhiate di sospetto e di minaccia sull'allievo di don Dionigi, il quale sopraffatto dalla paura, divien rosso come brago e suda dai piedi alla testa.

– Io la consiglio di bere, e prontamente! – ripete un barbuto signore all'orecchio di Teodoro, con una voce che somiglia al ruggito d'una belva. L'atterrito campagnuolo, come automa commosso da meccanico impulso, si leva in piedi, gira intorno lo sguardo smarrito, poi stende la mano alla bottiglia, l'accosta alle labbra, e la vuota d'un fiato con grande stupore degli astanti che prorompono in acclamazioni di entusiasmo:

«Viva Pio IX! Viva Romilli! Viva i Bergamaschi! Viva l'Unione!»

– Voi siete dei nostri, – grida il vicino di Teodoro battendogli la mano sulla spalla. Ma il povero montanaro, dopo quell'atto di violento eroismo, è ripiombato sulla seggiola, immobile e floscio come un sacco di bambagia. La paura e i vapori del vino estinsero in lui il fuoco della vitalità, gli cristalizzarono lo spirito ed il corpo.

Giunge la notte. La sala dell'albergo vien rischiarata dal gaz, e frattanto sui balconi e sulle finestre della Corsia compariscono mille globi illuminati, e torcie, e lampade e lumi d'ogni foggia e colore. Lo spontaneo e splendido apparato di festa elettrizza i cittadini già commossi da generoso entusiasmo; il popolo percorre le vie cantando, e il torrente della folla ingrossa più che altrove presso la contrada dei Pattari per introdursi nel largo di piazza Fontana, ove ha dimora l'arcivescovo, e dove la illuminazione è più splendida.

I commensali dell'Agnello si sono sbandati. Teodoro s'è riscosso dal breve letargo, ma l'insolita bevanda gli ribolle tuttavia nel petto e gli annebbia il cervello de' suoi vapori.

«Brunetto! ove diavolo si è ficcato colui! egli avea promesso di tenermi compagnia!.. Oimè! qual vampa alla testa! se mio zio, se Dorotea mi vedessero!.. Perchè mai quei signori hanno voluto che io bevessi tanto vino!? In questa città mi pare che tutti sieno matti! S'io posso tornarmene salvo a Capizzone, giuro di non lasciare più mai quel caro paese!»

Di tal guisa farneticava Teodoro. Il padrone dell'albergo entrò per caso nella sala, e vedendo il giovinotto seduto a mensa col capo fra le mani: – Che diavolo fa ella costì? – gli chiese con quel piglio dolce-brusco che è proprio degli osti milanesi. – Perchè non va anche lei a vedere l'illuminazione di piazza Fontana?

Teodoro levossi in piedi, e inchinandosi rispettosamente: – Sarei ben lieto, – rispose, – di poterla obbedire, ma attendo un compagno… cioè… voleva dire… il signor vetturale Brunetto di Capizzone, che ha promesso onorarmi della sua compagnia.

– S'ella conta sulla parola del Brunetto di Capizzone, dovrà aspettarlo un bel pezzo! A quest'ora il Brunetto dormirà briaco fradicio in qualche bettolaccia di Ponte Vetero. D'altronde, s'ella vuol godere lo spettacolo della illuminazione, non ha che a fare due passi fuor dell'albergo e abbandonarsi alla corrente della folla, che in pochi minuti la trasporterà nel centro della piazza.

Teodoro per quell'istinto di sommissione all'altrui volere, che don Dionigi avea sì coscienziosamente coltivato nel suo giovane allievo, seguì l'albergatore fino alla porta che dà sulla Corsia, sdrucciolò dai gradini, e travolto nella mischia, ora sospinto, ora sollevato dall'onda della moltitudine, in meno di dieci minuti trovossi nel centro della piazza Fontana, rimpetto al balcone del palazzo arcivescovile.

Gli avvenimenti di quella memorabile serata erano il prologo della grande rivoluzione italiana del 1848. Gli Austriaci da lunga pezza diffidenti e presaghi della terribile catastrofe, in quella festa, in quelle acclamazioni chiassose fatte al nuovo arcivescovo, intravidero i sintomi della prossima insurrezione. Fatto è che, mentre il popolo stipato nella piazza invitava con urli feroci il ritroso prelato perchè si presentasse al balcone, parecchie pattuglie di soldati e poliziotti irruppero nella folla colle armi sguainate, suscitando uno scompiglio da non potersi descrivere. Alla vista delle sciabole e delle baionette, i cittadini che non s'attendevano quell'assalto violento, s'urtano l'un l'altro per uscire dalla mischia. Donne e fanciulli, rovesciati al suolo dall'urto dei fuggenti, son pesti e malconci; un dabben uomo, certo Ezechiele Abate, muore di crudele ferita; altri barbaramente percossi son tratti prigioni: in pochi minuti il popolo scomparisce, e i soldati assalitori rimangono padroni del campo. È debito della storia il convenire che in quella serata il valore austriaco trionfò su tutta la linea; nè mai esercito agguerrito ottenne più completa e più facile vittoria sovra un popolo inerme.

Che avvenne del nostro Teodoro durante la battaglia? Mi duole annunziarvi la trista novella… Teodoro ha riportato una grave ferita. Trascinato dalla corrente, il nipote di don Dionigi era giunto allo sbocco che mette in contrada Larga, quando uno scellerato di poliziotto gli piantò nella coscia la punta della baionetta.

«Aiuto! misericordia!» urlò il poveretto stramazzando a terra.

I circostanti, preoccupati ciascuno della propria salvezza, fuggono atterriti, abbandonando la vittima alla mercè del carnefice. Una sciabola acuta e lucente pende sul capo di Teodoro; il terribile poliziotto misura il colpo… Se la Provvidenza indugia un istante a soccorrerlo, il nipote di don Dionigi è bello e spacciato.

Ma la Provvidenza riserba a Teodoro una fine più gloriosa. Cinque o sei popolani, che ultimi rimasero nella piazza, veggono in passando l'orribile quadro: d'un calcio poderoso l'un d'essi lancia lo sbirro contro la parete; gli altri sollevano di terra il ferito, se lo recano in braccio, e spariscono dietro l'angolo della contrada di Sant'Antonio. Quando il poliziotto si volse per cercare la vittima, vide il luogo deserto, e udì in lontananza il fischio dei fuggenti, quel fischio schernitore, che i barabba di Milano lanciavano come protesta e minaccia contro gli esosi sicarii di una polizia abborrita.

CAPITOLO III
La fama

All'indomani, verso le undici del mattino, nella sala terrena dell'albergo dell'Agnello, la conversazione dei commensali è più animata che mai. Gli avvenimenti della sera precedente vengono narrati e commentati in mille guise; il numero dei morti e dei feriti ingrossa ad ogni tratto, ma nessuno sa ridire i nomi delle vittime.

– Presso l'osteria del Biscione fu trovato un orecchio di donna…

– Nel vicolo delle Ore fu raccolto stamattina un naso di fanciullo.

– Sa Dio quali atrocità furon commesse?..

– Le muraglie del palazzo arcivescovile sono tinte di sangue!..

Il proprietario dell'albergo si avvicina ad un gruppo, e dice con aria misteriosa:

– Si ricordano, loro signori, di quel giovanotto magro e sparuto che ieri sedeva a questa tavola?

– Ebbene?

– Io temo che ieri sera gli sia accaduta qualche disgrazia… Questa notte egli non è tornato all'albergo…

– Quel giovanotto, – osserva uno dei commensali, – aveva un certo viso…

– E una cert'aria da bulo!..

– Avete notato, – soggiunge un terzo, – con quale entusiasmo egli rispose al brindisi da me proposto in onore di Pio IX? I suoi occhi scintillavano come carboni ardenti, le sue guance eran pallide, le membra convulse…

– Egli vuotò la bottiglia d'un sorso, poi strinse le labbra e digrignò i denti con espressione feroce, come se avesse bevuto del sangue!..

– E dire che entrando nella sala egli aveva l'aria d'un timido seminarista! A prima giunta io lo credetti uno scemo!..

– Taluni fanno lo scemo per non pagar dazio! – esclama l'oste sorridendo. – Ma ecco il vetturino di Capizzone che forse ci darà novelle di colui…

– Ebbene? – dice il Brunetto entrando nella sala; – dov'è il forestiero che ieri a sera ho scaricato alla porta del vostro albergo?

– Gli è ciò appunto che io stava per chiederti, – risponde l'oste coll'usato sorriso.

– Che?.. il nipote di don Dionigi Quaglia sarebbe sparito?..

– Io temo piuttosto che la quaglia sia caduta nel laccio… ovvero nelle unghie di quei gatti che il conte Bolza ha scatenati ieri a sera in piazza Fontana.

Il Brunetto spalanca la bocca, e dà indietro due passi. I circostanti, vedendo la sorpresa e il terrore del vetturino, si abbandonano alle più strane congetture. – Qui gatta ci cova, – dice l'uomo dal brindisi; – quel forestiero è senza dubbio un affigliato di qualche società segreta, un emissario del Comitato di Lugano!

– Presto!.. un boccaletto di malvasia a quel bravo galantuomo! – grida un altro della comitiva, accennando al vetturale di appressarsi alla tavola.

Tutti si fanno intorno al Brunetto e lo assalgono di obblique dimande.

La curiosità degli sconosciuti allarma l'ombroso vetturino, il quale per tema di compromettersi, improvvisa una odissea di menzogne. Il contegno impaurito del dabben uomo, le frasi equivoche, le risposte contraddittorie destano negli uditori più vivi sospetti.

Frattanto un nuovo personaggio è entrato nella sala, un giovinotto di circa venticinque anni, dalla fisonomia vivace, dal piglio disinvolto ed ardito. L'albergatore scambia poche parole col nuovo venuto, indi, additandogli il vetturino: – Ecco l'uomo che vai cercando, – gli dice; – tu puoi parlargli liberamente; quei signori son tutti… della lega!

Il giovinotto si introduce nel crocchio, e presentandosi al vetturino: – Siete voi, – gli chiede, – il signor Brunetto da Capizzone?

– Io, per servirla!

– Quando riparte la vostra vettura?

– Domani alle quattro del mattino.

– Ebbene: io vi prego di recare questa lettera al sacerdote don Dionigi Quaglia… Badate che gli è uno scritto di somma importanza!.. Il signor Teodoro Dolci mi ha parimenti incaricato di avvertirvi ch'egli non può partire domani… trovandosi alquanto indisposto…

– Che! la signoria vostra ha veduto il signor Teodoro Dolci?.. Ove diavolo s'è egli ficcato? Gli è tutto il giorno ch'io lo cerco!..

– Il signor Teodoro… trovasi in luogo sicuro, in casa di persone fidate… di persone, che possono guarentirlo da ogni pericolo.

Pronunziando queste parole, il giovane gira intorno una occhiata diffidente.

La curiosità trabocca dagli occhi degli astanti.

Il vetturale non osa stendere la mano alla lettera, temendo ch'essa racchiuda qualche grave mistero politico da comprometterlo. L'oste, avido anch'egli di notizie e al tempo istesso desideroso di farsi un merito presso i suoi avventori, battendo leggermente sulla spalla del giovane: – Carletto, – gli dice, – io t'ho già avvertito che qui puoi parlare liberamente… Qui non vi è persona che patisca eccezione… Io conosco i miei avventori… e quando una tromba penetra qua dentro, sai bene ch'io mi affretto a prevenirne gli amici.

– Siamo tutti fratelli! – rispondono ad una voce i commensali. – Viva Pio IX! Viva Carlo Alberto!..

– Sì: viva Pio IX! viva l'Italia! – risponde il giovanotto animandosi di entusiasmo; – e si faccia presto una volta a purgare il paese da questi mostri!..

– Sottovoce per carità!.. Siamo vicini alla Corsia, – interrompe l'oste. – Io sono garante delle persone che stanno qui dentro, ma di fuori vi hanno delle orecchie acute…

– Ebbene? che importa? – riprende il giovane, moderandosi alquanto. – La bomba deve pure scoppiare o tosto o tardi; e vi giuro che le mani mi prudono ferocemente… Se vedeste come l'hanno concio, quel bravo montanaro?..

– Qual montanaro?..

– Ma… lui! Teodoro Dolci! l'eroe di Capizzone!

– Teodoro! – esclama il vetturale più sorpreso degli altri, – l'eroe di Capizz…

– Un fegato sano!.. un vero amico del popolo! un uomo d'azione!.. Ah! quando penso che i birboni hanno versato il sangue di quel valoroso, mi vien voglia di andar là fuori, afferrare pel collo il primo croato che mi vien incontro, e condannarlo alla morte del gatto! Basta!.. speriamo che il momento non sia lontano… Frattanto noi penseremo a guarire il povero ferito, perchè egli pure prenda parte alla lotta… E vi giuro ch'egli è uomo da far bene il dover suo!..

– La ferita non è dunque mortale?..

– No, grazie a Dio. Il signor Maestri spera che fra due o tre mesi Teodoro potrà uscire di casa. Vi giuro ch'egli si è battuto ieri a sera come un leone. Persone degne di fede giurano d'averlo veduto sull'angolo dei Pattari cacciarsi fra un drappello di poliziotti, e rovesciarne quattro d'una pedata!.. Questa notte nel delirio della febbre il poveretto balzava di tratto in tratto sui guanciali esclamando: «Viva l'arcivescovo! viva Pio IX! tutti dobbiamo morire!» Poi soggiungeva con voce più calma e coll'accento della ispirazione: «Suonerà la campana dell'Angelus… e allora ci rivedremo… Io sarò maestro dei poverelli e dei deboli… Io li condurrò sul cammino della salute!» Quel giovane non è soltanto un eroe, ma anche uno scienziato, un filosofo.

– Infatti, – balbetta il vetturino, – il signor Teodoro viene considerato la prima testa di Capizzone.

– Lassù, nelle vostre montagne, egli dev'essere conosciuto pel suo coraggio…

– Quanto a coraggio, – risponde il vetturino, – per dire la verità…

– Sciutt! – esclama il piccolo entrando nella sala. Tutti quanti ammutiscono, e volgendo gli occhi alla porta, veggono una figura sinistra che si è fermata per udire la conversazione…

Il giovane patriota esce dalla sala senza aggiunger parola. Il Brunetto ripone la lettera nel portafoglio, e riempie il bicchiere, mentre uno dei commensali chiede al vicino con voce distinta:

– E come va quest'anno colle dordine? Alla bressana del conte Modroni ho veduto prenderne l'altro dì circa seicento!

E da quel punto non si parlò che di dordine, quaglie e codirossi.

Ma il nome e le gesta di Teodoro Dolci nel corso della giornata passarono di bocca in bocca, e furono argomento di tutte le conversazioni milanesi. I fanatici portavoce di notizie rivoluzionarie a mezzanotte asserivano che Teodoro, nella famosa serata di piazza Fontana, aveva scannati dodici poliziotti, e messo in fuga un drappello di dragoni.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
380 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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