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Kitabı oku: «Impressioni d'America», sayfa 2

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CAPITOLO II.
New-York

New-York, a chi vi giunga d'Europa, si palesa intera al suo primo apparire. Si palesa, non si mostra. L'occhio ne vede una minuscola parte, la mente vi riconosce i segni espressivi dei suoi caratteri. Nessun'altra città forse, è così di subito parlante allo spirito e così sincera. Le belle città digradanti al mare in anfiteatro, dicono di sè il meglio e nascondono le brutture; si sporgono in veduta pittorica mostrando più le cose che le genti e la vita. In New-York, le cose, la gente e la vita vi scolpiscono insieme di maniera che non potete disgiungere una nozione dall'altra. Al più si può dire che primeggi a misura di tempo l'azione. La gran città agisce prima di mostrarsi. Innanzi che appaiano le coste ed i fari della terra americana, dieci, dodici ore prima dell'arrivo vi si fanno incontro le alte vele triangolari dei piloti che scorrazzano al largo in traccia di navi giungenti. Presso i porti europei i piloti s'incontrano là dove ne occorre l'aiuto. Gli Americani fanno di questo servizio uno sport nautico che tradisce la loro temeraria attività e l'indole avventurosa. Spingono i loro legni a lontananze in quei mari e in quelle nebbie pericolosissime. Sono esili cutter, tutti ala, che meriterebbero l'antico nome di saettie, e sembrano briachi di velocità tanto rullano alla spinta della vela eccessiva. Come il locatiere abborda un vapore transatlantico, vi porta fasci di gazzette americane che i passeggieri sciolgono, leggono in crocchio, si scambiano a vicenda con avidità di affamati. Così è anticipata ai naviganti la cronaca del mondo e giungono a molti fortunati le notizie domestiche, mandate per telegrafo ad un prefisso giornale e da questo stampate in apposita rubrica: accortezza industriale che inumidisce molti occhi e illumina molti visi.

Appena imboccato il largo braccio di mare che separa lo Staten Island dalla punta di Hamiltonville comincia la vita di New-York. Di New-York, perchè la città imperiale non ostante la disputata autonomia dei luoghi finitimi, nel concetto degli Europei, incorpora in sè tutti i centri popolosi che la circondano. In realtà le navi, prima di giungere alla vera metropoli, costeggiano quattro città diverse, due delle quali, se non fosse la sua formidabile vicinanza, conterebbero fra le maggiori del mondo: New-Brighton, Bayonne, New-Jersey e Brooklyn. Ma se le rive, i colli e le fabbriche prendono diversi nomi e si spartiscono in più municipi, anzi in più Stati, la vita che scorre e si diffonde sulle acque trae dalla sola New-York quella varietà di caratteri onde l'estuario dell'Hudson è vantato fra i punti più interessanti e pittoreschi della terra. Quelle minori città non mostrano che scali e depositi, non mettono in mare e non ricevono che informi e pesanti navi carbonifere, non mandano altro suono che stridori di argani e di grue e quell'orribile ininterrotto stridore ferreo che fa vibrare i precordi. New-York aggiunge a questi attributi della operosità commerciale e meccanica, i segni di una attività varia, più signorile, vorrei dire più umana: elementi di vita intellettuale, d'arte, d'eleganza, di piacere. Essa alterna al gran lavoro delle navi partenti e giungenti, la vispa gaiezza di mille yachts a vela ed a vapore, nitidi, rilucenti, i quali mettono fra quelle note basse, acuti fischi in nota di ottavino e strilli di risate e gridolini di donne deliziosamente spaurite. Innanzi che appaia la punta della sua penisola essa pianta in mare, a faro, la statua della libertà; vi parla con un simbolo, vi saluta con una opera d'arte. Il primo lembo della sua terra è un giardino: gli edifici che più attirano i vostri sguardi quando la nave che vi porta è ancora in pieno moto, appartengono ai suoi giornali cosmopoliti: sono la cupola dorata e la specola astronomica del World e la guglia della Tribune. È bello al sole e nell'aria pulita di giorni sereni e festivi, più bello fra le nebbie ed il fumo delle giornate feriali, più alto delle più eccelse alberature, aereo telaio dove vanno e vengono di continuo come spole lunghissimi treni ferroviari e carri e vetture d'ogni maniera ed un popolo di pedoni, campeggia, scavalcando un braccio di mare e legando insieme due città e due Stati quello stupendo ponte di Brooklyn che è, credo, la più fantasiosa delle opere utili e la più artistica delle opere meccaniche compiute dall'uomo.

La baia di New-York offre uno spettacolo incomparabile. Non c'è sulla terra un'altra distesa di acque, così interamente circondata di fabbriche, così risonante ed echeggiante da ogni parte ad ogni parte, così piena di vita, così diversa negli aspetti e nei movimenti, così immaginosa, così potente motrice del pensiero. La sua smisurata grandezza è cagione di impressioni diversissime ed estreme. Quel mondo vi sta addosso e si perde negli orizzonti. Mentre le cose vicine svegliano ed appagano mille curiosità specifiche, le remote vi invogliano ad ozi contemplativi. Fino dove l'occhio giunge, da ogni lato, nello spessore delle città litorali, sopra l'immenso corso dell'Hudson, su pel braccio di mare della East River, è uno accavallarsi di giganteschi edifizî che rappresentano nelle nebbiose lontananze un vario ondeggiare di colli digradanti al mare. Quelle moli hanno di lontano la gravità riposata delle cose eterne e sembrano sorte col suolo. Io non vidi mai in altri luoghi l'opera dell'uomo, sola, scompagnata da ogni elemento naturale, naturalizzarsi così interamente e darmi un così pieno inganno di paesaggio. A ciò concorre un cielo mobilissimo che si rabbuia e chiarisce d'un colpo. Le conche alpine, esposte ai più mutabili venti, non hanno così subite vicende di torbo e di sereno. New-York è l'estremo punto continentale sottoposto alle grandi correnti che si dipartono dello stretto di Bering e per l'Alaska ed il Canadà e sopra un corso dell'Hudson, portano i cicloni all'Atlantico, che li sbattono di poi sulle coste occidentali d'Europa. L'America ci manda i suoi uragani e noi non le rendiamo la pariglia. I naviganti dicono che i fortunali dell'Atlantico contrastano sempre l'andata agli Stati Uniti e secondano il ritorno in Europa. Così gli elementi aiutano la gelosa politica americana che volge ora anche contro di noi la diffidenza rivolta dianzi contro i soli Cinesi. Ma le procelle sorvolano a New-York in turbini senza pioggia o vi rompono in fuggenti rovesci. Quella plaga è nota per una siccità atmosferica alla quale i fisici attribuiscono una speciale tensione elettrica che avvertono anche gli abitanti. Forse, la infrequenza delle pioggie, lasciando permanere nell'aria tanti polviscoli diversi, è cagione della straordinaria ricchezza di quei tramonti. I tramonti di New-York sono davvero meravigliosi. Il nostro arrubinarsi del cielo invernale dietro la trama degli alberi stecchiti non può rendere che una tenue immagine della smagliante intensità di quei colori. Quando il sole cadente batte sui pennacchi fumosi degli innumerevoli camini, è uno sventolare magico di gioielli diffusi. Per darne un'idea bisogna ricorrere ad un linguaggio che pare eccessivo. La città industriosa manda zampilli aerei di rubini, di smeraldi, di ametiste, di zaffiri, di topazi stemperati in vapori. Vi si potrebbe riconoscere un simbolo della fastosità americana se quella gloria crepuscolare non fosse troppo effimera e se della grandigia miliardaria non apparissero segni più positivi in ogni punto della città.

In ogni punto, fuorchè sul primo entrarvi, chi vi giunge d'Europa. I viaggiatori, ancora pieni gli occhi e la mente delle belle vedute dell'estuario, guardano delusi le informi, nude e mal costrutte tettoie che li accolgono allo sbarcare e li imprigionano in balia di odiosissimi doganieri. Nulla che attenui il disagio dell'arrivo ed agevoli le cure per lo scarico e la visita dei bagagli. L'ufficio telegrafico è una garetta con un solo sportello ed un solo commesso, il quale, benchè addetto ad un servizio internazionale per eccellenza, non mastica altra lingua fuori del suo inglese arrotondato e mastica male anche quella tanto è parco di parole e ringhioso. E parlo degli scali maggiori riservati ai passeggieri della prima e della seconda classe, perchè gli emigranti della terza sono condotti ad uno speciale deposito dove stanno gli uffici per la verifica delle loro carte e la loro ammissione nello stato americano.

Tutti i quartieri al mare, hanno in New-York un aspetto di degradazione incurabile. Mentre Chicago lavora e come può si adorna in ogni sua parte, New-York non si abbellisce se non dove può godere con agio. I quartieri bassi, dati ai più grossi traffici e più macchinosi, sono oscuri, sudici, mal selciate le vie, male aereate le case, angusti e malsani, degni in tutto della più tardiva fra le nostre cittaduzze di provincia. Si sa che il gran lavoro è brutale e poco meticoloso, ma alle sue inevitabili deturpazioni, non soccorrono quanto potrebbero i provvedimenti edilizî, tutti intenti a lavare, a lustrare, a infiorare l'alta città.

A primo aspetto quella ineguale distribuzione di cure, sa di spietato egoismo e sembra stridere nel concerto degli ordinamenti democratici; ma si noti che in quella parte della città non dorme quasi nessuno. I più ci vanno per affari e ne emigrano a lavoro compiuto verso le quattro pomeridiane. Bisogna vedere i treni che giungono la mattina e quelli che ne partono la sera: uno in coda all'altro, e sono cinque o sei linee diverse, e tutti riboccanti di gente. Nelle ore crepuscolari quelle vie sembrano pestifere: a notte prendono un aspetto fra il delittuoso ed il fatato. Nelle strade mal rischiarate, le finestre delle case deserte e silenziose, spandono luce dai vetri o sprizzano raggi dagli spiragli delle chiuse imposte. Durano così illuminate all'interno fino a giorno, per misura di sicurezza. Ogni banca, ogni fondaco ha il suo guardiano che passeggia quanto è lunga la notte su e giù per le stanze. A volte, dalla via si sentono i loro passi lenti e gravi come di persone crucciose e quel raggiare di case morte, e la veglia di quei solitari fa un senso di tristezza inquieta.

Dimora bensì, in certe strade di quei quartieri, la feccia della popolazione di New-York, un misto composto di tutte le miserie e di tutte le abbiezioni della terra; ma quelli non darebbero un soldo per la nettezza, non dico l'eleganza, delle vie e delle case. E non lo darebbero per più ragioni: perchè non ce l'hanno e perchè il pulito cesserebbe di esser tale al loro contatto. Prima che i luoghi, bisognerebbe nettare la gente e farla ordinata e prospera. Queste cose c'è chi le dice anche in America, ma gli americani, da qualche spirito filantropico in fuori, ci credono meno e ne ridono più di noi. Dove un solo Cornelio Vanderbilt possiede oltre 500 milioni, è naturale che migliaia di persone stentino la vita, e dove il Vanderbilt può trovare almeno una ventina di fortunati se non proprio di così olimpica nobiltà plutocratica come la sua (vogliono ce ne sia dei più ricchi), degni almeno di stringergli la mano e d'invitarlo a desinare, è da stupire che quelle migliaia, non siano per morte d'inedia ridotte a zero.

Del resto, la bassa città è più frequentata dai ricchi che dai poveri. Nè i ricchi si lagnano della sua degradazione, nè sembrano avvertirla. I maggiori trafficanti di New-York vi passano buona parte della giornata. La famosa Wall Street, chiamata la via dei milioni, è nel centro di essa. Gli Astor, i Gould, hanno i loro scrittoi in quei rioni. Fu, se non erro, nel dimesso scrittoio del Gould che un disperato minacciò anni sono il vecchio banchiere di farlo saltare in aria con un pugno di dinamite, se non gli dava sull'attimo un milione. Il Gould, intrepido ed incredulo, rifiutò e quegli lanciò a terra la carica che scoppiando l'uccise, lasciando tramortito, ma illeso, il re delle banche. Allo scoppio si gettò impaurito dalla finestra del suo banco che aveva lì presso, il Morosini, un italiano andato mozzo di un veliero in America cinquant'anni or sono e noverato ora fra i maneggiatori di miliardi. I quali miliardi sembrano avere una virtù preservativa perchè anch'egli ne uscì con poche ammaccature.

Io visitai nel suo studio, in Wall Street, un ricchissimo banchiere che avevo conosciuto anni addietro a Parigi. Uno sportman da disgradarne il Principe di Galles. Egli usa puntualmente al banco dalle dieci della mattina alle quattro pomeridiane, indi se ne va con un'ora e mezza di viaggio in Pensilvania dove dimora colla famiglia in un Club degno delle Mille ed una Notti, chiamato: Toxedo Park. Lo studio di quel raffinato uomo è di gran lunga meno comodo e bello del mio modestissimo. Noto, fra parentesi, e lo seppi da lui stesso, che la piccola casa dov'è il suo banco in Wall Street costò, trent'anni or sono a fabbricarla, quaranta mila dollari (200 mila lire) e che ora gli frutta ogni anno la medesima somma. Tutti quei Cresi sogliono raccogliersi sul mezzodì a far colazione in un Club-ristorante, nei pressi di City Hall, le cui sale sono povere e nude appetto alle sontuosissime degli altri circoli della città alta, cui pure appartengono i suoi frequentatori.

Chi vuole esaltare ad oltranza la civiltà americana, dirà qui che nel concetto di quegli operosi il lavoro, è austero e non comporta mollezze. Ma gli austeri lavoratori che non sdegnano di sedere a mensa in locali disadorni, vi pasteggiano Champagne a 30 lire la bottiglia e vi si stillano il cervello in esperimenti di alta gastronomia. Il che prova che dove il godimento è intenso, non ne rifuggono e che la loro austerità è sessualità grossa che non vuole scomodarsi per poco e che indugia il piacere e lo condensa per potervisi poi distendere in pieno.

Non sarà, spero, attribuito ad austerità o ad altre virtù astinenti quel colore orribile e uniforme che nella bassa città tinge dalla prima all'ultima tutte le case di ogni strada. Non si può dire che sia cattivo gusto di tempi andati perchè molte sono ritinte di fresco, nè che quello sia colore più solido e meglio appropriato al clima, poichè il rione accanto ne sfoggia con altrettanta imperterrita sicurezza un altro. È vera indifferenza all'estetica, dove l'estetica non darebbe che un fuggevole compiacimento.

Le strade che imbocca prime, per l'appunto, chi entra in New-York allo scendere dei vapori transatlantici, sono tinte di rosso da capo a fondo. Le case si descrivono in due parole: muraglie e buchi. Non un fregio, non una fascia, non una cornice, non uno stipite in aggetto. Costruzioni tozze di tre piani e così allineate e livellate per tutta la lunghezza della via, che si direbbe una casa sola interminabile. Mentre andavo internandomi in quei condotti scoperchiati, i più lerci tuguri del mio contado canavesano e valdostano, colle loro logge tarlate, e puntellate, col tetto a gronda e le scalette allo scoperto, mi tornavano alla mente quali squisite opere d'arte. La mente correva da sè, per raffronti ad umilissimi prodotti architettonici quasi temesse dal paragone cogli ottimi un disgusto eccessivo.

Ma la bruttezza del luogo è così assoluta che nulla può attenuare il disgusto. E lo crescono e lo mutano in sorda inquietudine i frequenti apparecchi di salvamento per i casi d'incendio. Nulla fa più pensare al pericolo che le vistose difese contro di esso. Ogni due finestre scende rasente la facciata della casa da un piano all'altro e dal più basso a terra, una scaletta ferrea a pioli, destinata alla fuga degli abitanti quando avessero a crollare le scale interne. Quelle scalette sono, come la casa, dipinte del color di fiamma viva, di maniera che danno quasi una visione permanente d'incendio, mentre rivelano la poca resistenza dei materiali e la fragilità delle costruzioni. Nell'alta città quelle pendule scalette non usano più. Il meraviglioso servizio delle pompe le ha rese inutili e l'estetica le ha bandite. Perchè durano in quei rioni dove sono quanto negli altri, solleciti ed efficaci i soccorsi dei pompieri e più vigorosa la spinta delle acque? Perchè occorsero un tempo, e perchè ivi non torna conto di mutare per abbellimento, nessuna cosa.

Tuttavia la bassa città ha essa pure qualche bell'edifizio e qualche punto pittoresco. Non parlo delle fastose sedi dei grandi giornali delle quali la grandiosità è squilibrata ed il fasto teatrale. Esse tengono una accanto all'altra un lato della piazza municipale dove stanno il palazzo del Governo, e quello immenso ed ormai insufficiente della posta. La chiesa della Trinità che sorge poco discosto, costrutta come quasi tutte le chiese d'America, nello stile fiammante inglese, passerebbe forse inosservata in una città europea, e nei recenti quartieri della stessa New-York, ma in mezzo a tanta secchezza di fabbriche, esprime una grazia riposata che mette pace nell'animo. Le s'apre ai fianchi un vecchio cimitero, fitto di alberi venerandi e di lapidi muscose mezzo nascoste nell'erbe: un recesso quieto che fa pensare ai tempi in cui le vie e le case circostanti invece che al solo lavoro erano date insieme al lavoro ed alla vita.

Io andai pensando più volte se la separazione assoluta del luogo dove l'uomo opera ed intende ai guadagni, da quello ove si riduce a vivere la vita, non contribuisca sempre più ad inasprire il formidabile individualismo degli americani. È certo che la casa, l'home degli inglesi, esercita sull'animo nostro un'azione mitigante, lo predispone e lo inclina all'esercizio delle virtù altruistiche. Chi abbandona la mattina i dolci luoghi della vita domestica e va e rimane per traffici fino a sera, in luoghi dove non ne resta nessuna traccia, e dove non c'è traccia nemmeno in altre vite somiglianti che gli ricordino la propria, si avvezza in breve a sdoppiare quasi interamente la propria natura, a separarne gli elementi effettivi dai volitivi ed intellettuali, lascia a casa l'umanità amorevole e soccorrevole per armarsi soltanto negli affari, di un egoismo aspro ed ingrato. Da ciò quella bella sentenza degli americani: Business is business – Gli affari sono gli affari – la quale autorizza ed incoraggia tutte le trappolerie e le soperchierie ed esclude dai traffichi, non dico la carità, che non domando tanto, ma la coscienza ed il rispetto dell'altrui diritto alla vita.

Quanto negli aspetti della bassa New-York sa ancora di grazia e di gentilezza, appartiene al tempo in cui la città ristretta in quei confini era di fatto abitata e non, come ora, frequentata solamente in certi giorni, in certe ore e per certe ragioni. Nè quel tempo è molto lontano. Sessant'anni or sono New-York terminava là dove sorge la City Hall: il palazzo del comune. È curioso notare come nè allora nè, non ostante i continui ingrandimenti, molto tempo di poi, essa fosse consapevole della propria vitalità espansiva. Lo spazio compreso fra la City Hall e la punta al mare misura una quindicesima parte di lunghezza della città d'oggi e nel suo punto più largo, vale a dire alla base del cono che si appunta al mare, una metà della larghezza media attuale. New-York è oggi trenta volte più grande che nel 1830, e questi dati stanno piuttosto al disotto che al disopra del vero. Or bene, quando si volle edificare nel 1830 il palazzo del comune e lo si collocò alla estremità superiore della città, l'onore dei marmi, a dispetto del disegno che ne voleva rivestito tutto l'edificio, fu conceduto alla sola facciata prospiciente l'abitato, perchè l'opposta che dava sui prati non ne meritava la spesa.

Vent'anni or sono, visto il gran diffondersi del cattolicismo e raccolti i quattrini, il Capitolo di New-York deliberò di erigere una cattedrale. L'arcivescovo, uomo illuminato ed accorto, designò all'uopo un luogo a monte della città, nell'aperta campagna, a qualche chilometro dall'abitato. Pensate lo stupore e le risa del Capitolo, dei fedeli e dei rivali presbiteriani. Monsignore fu trattato di pazzo o poco meno; si fecero le burlette sulla cattedrale in villeggiatura, sul viaggiare dei canonici per recarsi all'ufficio e dei fedeli per accorrere alle funzioni. L'arcivescovo aveva un bel dire che le cattedrali se non per omnia sæcula, si devono edificare per secoli parecchi e rifarsi dei recenti ingrandimenti a presagio e promesse maggiori in tempo assai prossimo: gli altri concedevano che la città sarebbe forse un giorno arrivata fino là, ma non oltre, e quando? e ancora! Oramai quello che s'era voluto fare s'era fatto e nessuno sperava certo di allungare Broadway fino al Pacifico. – La spuntò l'arcivescovo e per lo spazio di qualche mese, la bella chiesa che fu dedicata a San Patrizio, respirò l'aria aperta dei campi. Ma il pieno sole non le durò gran tempo. Essa sta ora nel mezzo dei più eleganti quartieri e due terzi circa della città, si stendono oltre le sue, ancor nuove, pareti.

D'allora in poi New-York ha fatto giudizio, ha imparato a conoscersi, o se pecca, è piuttosto di troppa, che di poca fede nei propri destini. Oramai stimolata dalla gelosia verso la più giovane Chicago, essa guarda ai villaggi che ancora le distano dieci, dodici, quindici chilometri, come a preda dovuta e sicura. E più guardano questi ad essa impazienti di farsi inghiottire. Quel ramo dell'Hudson chiamato Harlem-river che segnava due o tre anni or sono l'estremo confine del suburbio, vedrà sul principiare del secolo venturo una maggiore distesa di fabbriche a monte che a valle del suo corso. Le sue rive hanno ora il pittorico aspetto dei luoghi subitamente assaliti dalla febbre novatrice, che mostrano violenti contrasti fra il ieri già decrepito e il domani già quasi attuato. Il presente non vi ha nessun aspetto stabile. O luridi tuguri extraurbani, che minacciati dalla città galoppante incontro ad essi e predestinati al piccone demolitore, nessuno curò più di restaurare e di abbellire, o immensi castelli di travi che mal nascondono gli imminenti palazzi! La città smaniosa di piantare i segni delle sue conquiste scava entro i colli granitici le vie dei futuri quartieri e le conduce tosto a finimento. Incise fra enormi dadi di macigno levigati sui fianchi ed ancora coronati, al sommo, d'erbe selvagge, quelle vie già lastricate e scavato nelle lastre di gorello dell'acqua e sagomato il rialzo del marciapiede, lungo il quale già si allineano i fanali, fanno una veduta curiosa che ha insieme del fantastico e del puerile. La fervida fantasia industriale ha già segnato alla nuova città le plaghe, dove inerpicarsi su per i colli e quelle dove spianarsi ad agevolezza di traffichi. Là rimpolpa le chine di terra vegetale, alimento ai futuri giardini, qui, squarcia e rade le rupi. Così la città promessa si dispone in svariate prospettive e s'incorpora lembi di schietto paesaggio. Già l'attuale comprende nei suoi quartieri centrali vaste regioni boschive e sistemi di colli, fra i quali corre bensì un sapiente intreccio di strade, ma che pur serbano la sincerità dell'aperta campagna. – Il pomeriggio del sabato (poichè la settimana operosa termina in America il sabato al mezzodì) New-York si riversa nel Central-Park e ne invade con domestica padronanza ogni recesso. Ma la folla non vi ha l'aria colleggiale e domenicale della nostra, costretta dalla tirannide edilizia a procedere in processione lungo i viali. Il parco appartiene veramente in ogni sua parte ai cittadini, i quali ne prendono un possesso corporeo, non visivo soltanto come noi facciamo. Numerose brigate, bei fiori di ragazze e di giovani, si spandono nelle distese erbose, franche d'ogni vigilanza e vi giuocano a corsa, al salto, alla palla, ai birilli. – Presso di noi quei giuochi vogliono recinti privilegiati; là si fanno all'aperto con libero diletto degli attori e degli spettatori. Quelli vi cercano, nell'esercizio muscolare uno svago ed un sollievo alle cure ed alla concentrazione cerebrale indotta dagli affari; questi ne traggono l'orgogliosa coscienza nelle energie fisiche onde il sangue americano prevale sull'europeo, ed un compiacimento estetico che noi, per secolare abitudine, siamo avvezzi a domandare soltanto ai prodotti dell'arte.

Fino a pochi anni addietro, l'America tutta intesa alla conquista delle proprie terre, parve riconoscere alle vecchie società europee il privilegio della bellezza, e da queste prese a modello in ogni ramo dell'arte, le forme consacrate dai secoli. Conscia ora della sua integrità e della sua individualità, essa va rapidamente accogliendo e maturando una sua particolare idea del bello che, non disturbata da preconcetti storici e da tradizionali riverenze, ricava dalla osservazione diretta anzi dalla diretta fruizione della vita! La sua è si può dire una estetica sociale, cioè non disgiunta mai dalle applicazioni al benessere e confacente allo sviluppo progressivo della razza umana.

Presso il popolo americano, l'idea della bellezza è più associata all'esercizio ed ai movimenti della vita che alla immobilità dell'opera d'arte. Esso preferisce vedere bella gente e gagliarda nelle vie delle città, che bei monumenti nelle piazze e bei quadri nelle pinacoteche ed in generale stima che l'idea del bello si rinnovi e rimuti di continuo, a seconda che si rinnovano e rimutano gli aspetti ed i moti della vita. – Perciò l'estetica degli americani, più mutabile e progressiva della nostra e meno ombrosa e tirannica, non contrasta mai lo sviluppo delle attività meccaniche onde escono gli agi ed è centuplicato il godimento dei beni terreni, ma si va ad esso continuamente conformando.

All'artista europeo, quando egli è dimorato alcun tempo negli Stati Uniti, avviene spesso di provare un senso indefinibile di disagio intellettuale che egli non sa sulle prime a che attribuire. Egli osserva, nota, raccoglie una somma insperata di sensazioni che possono divenire sostanza d'arte, ma in pari tempo avverte che qualche cosa manca a quel complesso poderoso di cose, di fatti, di moti, di espressioni della vita. E per poco ch'egli rifletta e si abbandoni nelle ore crepuscolari alle care immagini patrie, s'accorge che un elemento imponderabile manca: la testimonianza del passato. Manca la storia, mancano i segni della storia, manca la profonda vibrazione ideale ond'è accresciuta la bellezza delle cose belle, mancano le immagini e le voci dei secoli morti.

Gli americani nella baldanza della loro gioventù non sanno dolersi di tale lacuna. Essi in argomento d'arte, deridono alquanto la nostra estetica legittimista e si compiacciono d'esserne affrancati. Il difetto di tradizioni, essi dicono, li salva dalle timidità rispettose e li aiuta a conseguire la personalità. E in argomento di costituzione sociale e di condotta politica, essi, non senza ragione, osservano che ai popoli d'Europa la memoria delle grandezze passate è cagione di errori, di vanità, d'ingiustizie, di prepotenze, di miserie; di eccidi presenti. Hanno ragione? Hanno torto? Chi lo può dire? E che giova cercarlo? Nessuna forza umana potrà far mai che quello che fu non sia stato, ed essi vanno ora edificando storia e tradizioni ai loro nepoti.

Certo a noi il noblesse oblige fu spesso causa nella vita privata e nella pubblica, di commettere azioni a criterio morale disoneste, a criterio politico pazze e crudeli, a criterio sociale o ingiuste o ritardatrici di giustizia. Ma eliminato il pregiudizio, ma vinta la vanità, ma fatto ragionevole l'ossequio, ma francate dall'ossequio le attività creatrici, chi vorrebbe soffocare le larghe pulsazioni della vita umana considerata nella continuità dei secoli? Certo la intemperanza estetica degli americani e la loro incontinenza nella fruizione della ricchezza, conseguono in molta parte dal silenzio del loro passato e dallo scarso loro patrimonio ideale. Nessun tesoro di miliardari può dare le gioie incontrastabili che proviamo passeggiando per una chiara notte sulla piazzetta di San Marco e rievocando dal palazzo dei Dogi i fantasimi della storia.

Ma quel difetto di storia, che a molti spiriti delicati d'Europa renderebbero quasi insopportabile il soggiorno del nuovo mondo, gli americani non lo possono nè lamentare nè avvertire. Essi stanno, rispetto a noi, come un uomo che non ama rispetto ad uno innamorato. A quello non par possibile che un essere ragionevole smarrisca la nozione della vita presente e delle cose che lo circondano, ed il senso dell'utile per i begli occhi di una donna che lo lasciano lui, freddo ed indifferente. A questi non par possibile che altri possa vivere senza amare e senza amare quella per l'appunto che a lui solo par donna. Noi siamo, rispetto all'arte degli americani, e parlo qui in modo speciale dell'architettura perchè è la sola dove essi abbiano conseguito una vera personalità, nelle identiche condizioni in cui si trovava il Vasari rispetto all'arte gotica; il quale ne chiamava maledizione di fabbriche, i prodotti. Diciamo subito che i nuovi saggi architettonici d'oltre oceano, non incontrano neanche in America la generale approvazione, e neanche quella del maggior numero. Ma i dubbiosi ed i dissenzienti, non condannano: stanno a vedere, persuasi che ai primi informi tentativi seguiranno vere e sicure opere d'arte originali e pratiche. A noi europei quelle moli scomposte danno un senso di apprensione e di inquietudine, senza indurci nello sgomento estetico e grandioso. L'immenso fabbricato dell'Auditorium di Chicago, dove c'è un albergo per un migliaio di avventori, una quantità grande di banche e di scrittoi d'ogni maniera, il Conservatorio di musica e, non ricordo se al sesto o al settimo piano un teatro capace di ottomila persone, fa più meraviglia a sentirne enunciata la capacità che a vederlo. La sua vastità manca di grandezza. La vastità non è e non può essere elemento d'arte. Lo è la grandezza che risulta dalla coordinazione delle parti. Può riuscire cento volte più grandioso un edificio cento volte più piccolo.

New-York non accolse ancora quelle babeliche moli che in Chicago assaltano il cielo con una temerità che sa di pazzia. Ma già i maggiori giornali s'insediarono in esili casoni giganti nei quali la comodità e la speditezza dei servizî sono sacrificate alla smania di sorpassare i vicini. In luogo di distendersi in piano, quegli edifizî si affilano in torri, onde le comunicazioni fra le diverse parti richiedono un continuo moto di ascensori. Tutte le colossali fabbriche di New-York hanno porte basse e tozze che il sovrastante edificio schiaccia ridicolmente, e piani soffocati. I due piani del palazzo Tolomei di Siena, ne darebbero otto di questi. Certe case di quattordici piani, non misurano una volta e mezza l'altezza del palazzo Strozzi. Curano bensì di mentire la frequenza degli scomparti per via di finestroni che salgono dal primo al quarto piano, ma quel vedere dalla strada, nell'altezza di una sola finestra, tre metri uno sopra l'altro, tre signori, seduti a tre scrivanie e persone e mobili quasi sospesi nell'aria ed appoggiati ad una parete trasparente, induce un senso d'inquietudine irritante. Dove posano i due piani intermedî? Se ci stanno e reggono pesi, si capisce che hanno base sufficiente; ma se la scienza costruttiva si appaga della stabilità reale, l'arte architettonica vuole anche l'apparente perchè l'occhio ha la sua logica. Non nego che la nostra estetica architettonica s'informi ai massicci e grossi materiali costruttivi durati in uso per tanti secoli. Già la nozione razionale e sperimentale che abbiamo della stabilità, va conciliandosi colle forme snelle consentite dai materiali metallici: ma i sensi impigriti della secolare abitudine, sono più tardi della ragione, e non sempre quello che ci persuade li appaga.