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Kitabı oku: «Impressioni d'America», sayfa 4

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CAPITOLO IV.
I Bars e l'alcoolismo

I Bars (spacci di liquori), sono nelle grandi città degli Stati Uniti, così frequenti come da noi i caffè e le osterie, ma più frequentati. Gli avventori vi passano e si rinnovano di continuo. I Bars più eleganti sono annessi ai grandi alberghi. La piazza chiamata: Madison square che è il centro mondiale di New-York, ne conta due fastosissimi; quello del Fifth avenue hotel (albergo del quinto viale) e quello dell'Hôtel Hoffman. Quest'ultimo è costato, dicono, 100 mila dollari, cinquecento mila lire. Ha un salone solo, non amplissimo, ricco di celeberrimi quadri, fra i quali, protetto da un baldacchino che lo fa sembrare una pala d'altare curiosa in tal luogo, uno vantato per opera del Correggio. Nel centro, sorge un pilastro rivestito di scaffali pieni di bottiglie intorno al quale, oltre lo spazio riservato ai giovani di bottega, corre in cerchio la tavola del servizio. Lungo una delle pareti, sta un banco per la vendita dei sigari e lungo un'altra una tavola fornita di sostanziose ghiottonerie. Nello spazio libero, pochi tavolini e poche seggiole. Gli avventori bevono ritti e sostengono ritti, dal primo al penultimo, tutti i gradi della sbornia. All'ultimo chi ci arriva, provvede il pavimento sul quale il bevitore s'abbioscia per morto.

Il luogo, anche nell'ora della maggior ressa, è silenzioso. Gli americani sono più parchi parlatori che bevitori, e sembrano discorrendo fra loro, confidarsi continui secreti. I loro organi vocali danno in note basse e la lingua inglese si presta a meraviglia al parlare fra le labbra che non risuona ed alle proposizioni elittiche che fanno i dialoghi rapidi e brevi. Dal banco, non esce voce in tutto il giorno. Colla bibita richiesta, vi porgono una tessera dove ne è stampato il prezzo, ond'è rimossa ogni occasione di parole coi garzoni. Le ghiottonerie sostanziose non sono poste in vendita, ma offerte gratis agli avventori. Tutti gli spacci di liquori in America danno per soprappiù della bibita qualche boccone, a stimolo della sete ed a ritardo dell'ebrietà. Negli infimi stanno sul banco due ciotole piene l'una di pane sbocconcellato e tostato e di scheggie di cacio l'altro. A mano a mano che il Bar si fa più elegante, cresce la copia e la qualità di questi aiuti al bere. I primari imbandiscono: rostbeaf, salumi, caviale, pesci, pasticcini e certe insalate fantastiche veramente squisite. Il Bar dell'Hoffman house, ammanisce due volte al giorno un lunch nutritivo e ghiottissimo. Non si pagano che le bibite. Chi entrasse e pasciutosi si astenesse dal bere, ne uscirebbe senza por mano alla borsa. Ma la fede pubblica è in New-York così esemplare, che al solo sospetto di una tale soperchieria, si riconoscerebbe il forestiero, anzi l'europeo. Non vi sono forse certi servizi d'omnibus sprovvisti di fattorini? I passeggieri salgono e scendono senza che nessuno richieda loro il prezzo della corsa, che un salvadanaio nell'interno della vettura è destinato a ricevere. Le piccole cassette postali disseminate in gran copia per la città, portano sul piano superiore una minuscola ringhiera che ne fascia gli orli. Quando la cassetta è piena che di più non capisce, chi vuole impostare, in luogo di cercarne un'altra, depone le lettere ed i giornali su quel piano, a portata della mano della folla. E se così usa è segno che non nascono guai. Ordinamenti civili fondati sul presupposto della probità universale, mentre segue proprio il rovescio in casa nostra.

A chi arriva d'Europa, quel mangiare a ufo, dà sulle prime un certo senso di noia. Viene fatto di cercare intorno chi ringraziare e, non trovandolo, di ordinare ad alta voce la bibita venale e sanatrice, che non s'avesse a pensar male. Ma non pensa male nessuno e fate pur conto che il padrone non ci rimette. All'Hoffman bar la più semplice delle bevande, dall'acqua in fuori, costa 25 centesimi il bicchierino. Poco a unità di lira, molto a unità di dollaro. Il centesimo del dollaro vale un soldo e più. Non dico che quando uno si satolla ci rimetta, ma nessuno entra in quei luoghi per satollarsi. Gli alcoolisti non toccano cibo, gli altri ci capitano spinti dalla sete e non vedono l'ora di rinfrescarsi; se dopo il primo bicchierino, le ben disposte leccornie li invogliano ad uno spuntino, questo a sua volta li adesca a ribere, e due bevute pagano il lunch.

Già, nel primo soggiorno in America, quel nostro riferire i centesimi alla lira invece che al dollaro, è cagione di ingrate sorprese alla chiusa dei conti serali. Le piccole compere si moltiplicano in modo rovinoso. Un oggetto che da noi costa tre lire, è segnato in quelle vetrine: 75 cents. Che bazza! È così bello e finito che non più. Subito entrate a comprarlo, se anche non vi occorre, per non perdere l'occasione. Chi porge la moneta di un dollaro, tanto tanto s'accorge che il resto è un po' magro, ma chi paga con un biglietto di due, di cinque, di dieci dollari, tra la difficoltà di fare il conto e la vergogna di apparire novizio e la fede, la giusta fede della probità americana, intasca i copiosi spezzati e si gode uscendo, la beata illusione di un buon mercato eccezionale. Fragile gioia e costoso ammaestramento. E la lezioncina si rinnova al ritorno in Europa, dove, sulle prime, poichè si stette tanto tempo guardinghi per via di quel dollaro benedetto, il saper ridotta ad un quinto l'unità di moneta vi fa allentare la sorveglianza ed allargare la mano oltre misura. Così viaggiando s'impara e si sa che i buoni maestri costano caro.

Torniamo al Bar, dove si affolla innanzi l'ora del pranzo la società fiorita di New-York. Veramente fiorita, perchè l'uso di portar fiori all'occhiello è laggiù più comune assai che in Europa. Durante il mio soggiorno usavano i grisantemi che costavano, quelli doppi, un dollaro l'uno, come un dollaro l'una costavano le rose. Quegli uomini alti, robusti, elegantissimi e così regalmente infiorati, sono davvero belli e nobili. Esprimono al portamento una fierezza non priva di grazia; stanno eretti sulla persona, ma non impettiti, ritti, non irrigiditi, il loro saluto è dignitoso ma non asciutto, sono parchi di parole, ma non ammusonati. Ne è pieno il salone del Bar e l'atrio dell'attiguo albergo ed il larghissimo marciapiede all'aperto sulla piazza. In quell'ora diurna una sorsata basta alla sete degli avventori. Avviene bensì di notare qua e là qualche occhio appannato e qualche andatura meditata, ma sono casi rari e ad ogni modo, di vere cotte non appaiono traccie.

E non mi occorse nemmeno di avvertire in quei bevitori, l'abito alcoolico che si mostra a indubbi segni, anche quando chi ne è posseduto rifugge dal bere. Presso di noi, i bevitori tradiscono il vizio anche nei momenti di deliberata misura. Nell'atto in cui è loro mesciuta la sola bibita che si consentono, e più nel recarla alle labbra, il loro occhio brilla per cupido accendimento. È uno sguardo carezzevole e prelibatore pieno di tenerezze rattenute e frenato da propositi eroici. E quando rimettono vuoto sulla tavola il bicchierino che centellinarono deliziosamente, si capisce che la tentazione e la resistenza stanno sul filo della loro volontà in equilibrio instabile. Cansano gli sguardi del tavoleggiante per non essere indotti in peccato; posano il calicino sull'orlo del banco senza ritrarne la mano, tanto per indugiare la decisione: nessuno può dire se lo porgano per averlo ricolmo o se lo depongono sazi. Deciderà l'oculatezza del giovane di bottega o il Dio supremo dei bevitori e dei giuocatori: il caso.

Nulla di simile segue di quegli uomini poderosi, nei quali primeggia sempre, sia volta al bene o al male, la maggiore delle forze virili: la volontà consapevole. Al tono con cui ordinano la bibita predinatoria, si capisce che quella sarà l'unica di quell'ora, come al tono con cui ordineranno più tardi la prima delle serali, si capirà che ne verranno delle altre molte.

Chi s'appostasse presso il banco di un Bar nelle ore diurne sarebbe indotto a credere che la strombazzata incontinenza alcoolica degli americani sia una fiaba; chi ci capitasse alle dieci di notte, ne indurrebbe il disfacimento finale della razza americana. Contemperando le due impressioni opposte, ne esce pur sempre un senso di inquietitudine rispetto all'avvenire e di stupore malinconico rispetto al presente, ma insieme di ammirazione per la energia volitiva, la resistenza fisica di quel popolo. Dicono infatti che a differenza dei nostri, gli alcoolisti americani poichè passarono la notte intera piombati nella attonitaggine alcoolica, si trovano all'alba desti e destri a lavori di computo minuziosi e severi. Gli impiegati delle dogane, vegliano tra il Gin ed il Whisky, ma ne scuotono ad ora fissa il torpore ed ammammolati al discorrere sono acutissimi a far conti. Conobbi laggiù un uomo di molti e grossi affari, un impresario teatrale più volte milionario a milioni di dollari, generalissimo di un esercito danzante, cantante, suonante e recitante, scaglionato in parte nei vari Stati dell'Unione, in parte accantonato nei presidi teatrali d'Europa e navigante, in parte, a sue spese, attraverso l'Oceano, il quale fino dalle dieci della mattina sapeva d'alcool come un carettiere. E seguitava l'intera giornata e la sera, a tracannar liquori ed a fumare sigari inverosimili, il che nulla gli ottenebrava la mente che mostrava ad ogni occorrenza pronta ed accorta ad affari disparati e ferma a subite decisioni. Lo vidi attendere alle prove di un'opera in musica spettacolosa. Sedeva in platea coll'aria cascante di un apopletico, le labbra sporgenti per reggere al peso del grosso avana, ma sonnolento all'aspetto e tardo al parlare ed al gestire, aveva l'occhio ad ogni cosa: agli attrezzi, alle scene, al vestiario, ai cantanti. Ogni cinque minuti gli erano attorno i suoi commessi a parlargli piano all'orecchio, a dargli lettura di un telegramma, a fargli firmare una carta, ed egli passava d'una persona all'altra e d'una in altra faccenda, senza tradire nè sforzo, nè impazienza, nè stanchezza. Di quando in quando usciva dalla sala, e fattosi nell'atrio, imboccava la porticina del Bar annesso al teatro, dove gli mescevano, al primo vederlo, il consueto bicchierino.

Ricordo una notte che viaggiavo in sua compagnia nel suo magnifico vagone privato, una vera palazzina su ruote con due camerette padronali, una per i domestici, una cucina, un salone da pranzo ed un salottino da studio. Dopo una cena squisita inaffiata di Champagne, ch'egli non beveva perchè a tavola era astemio, ci eravamo ridotti nel salottino a discorrere. Parlava lento, con voce bassa alquanto nasale, ragionando in termini commerciali dello stravagante e pittoresco mondo degli artisti di teatro. Le grandi attrici, i virtuosi di fama mondiale, le cantanti principesche, le ballerine, le mime, tutta quella gente vertiginosa, piena di esaltazione, di seduzione, di sessualità e di peccato, passavano ne' suoi discorsi come elementi numerici di operazioni aritmetiche, si riducevano quasi a derrate trafficabili delle quali egli conosceva, i luoghi di miglior produzione e di più fruttifero consumo. E tra un'attrice e una cantante, tra una stagione teatrale in Boston ed un concerto a Filadelfia, erano grosse sorsate di Whisky che ingollava dalla fiaschetta tenuta a portata di mano sul tavolino. E bevi e bevi! Non m'esce dalla memoria quel vagone sontuoso, quel treno fuggente nella notte e sprizzante scintille che andavano ad incendiare le alte erbe sui margini della strada e quell'uomo contegnoso, briaco e sensato ed il suo ragionare da contabile.

Una volta, alla ventesima bevuta forse, accennai sorridendo a levargli di mano la fiaschetta e arrischiai il dubbio che il troppo bere gli potesse nuocere. Mi rispose con affabile sicurezza:

– Provatevi a propormi un affare e vedrete se ci vedo chiaro.

A un punto lo credetti vinto. Le parole che gli venivano sempre più lente, gli morivano sulle labbra e lo vidi assopito cogli occhi aperti. Le scosse del treno, lo sballottavano come un corpo inerte che non seconda i movimenti. Teneva, rammento, le mani posate aperte sulle ginocchia quasi a puntellare il busto che non cadesse all'avanti. Così ciondolava sui fianchi. Provavo un senso di inquieto disgusto, e già stavo per andarmene nel salone accanto, quando sentii i freni a mordere le ruote ed il treno fermarsi brusco. Entrò un moro fattorino della stazione, con un dispaccio. L'impresario subito desto, lo aperse, lo lesse, cercò sul tavolino un modulo telegrafico, vi scrisse rapidamente cinque o sei righe e lo consegnò al moro che lo facesse spedire. Come il treno fu in moto mi disse:

– Ho scritturato Tamagno.

Dicono che a differenza dei nostri, gli alcoolisti americani, poichè durano anni ed anni al vizio, un bel giorno piantano il segno e si comandano di ristare. Un atto violento di volontà li guarisce per sempre. Dicono; ma è poco credibile, o credibile di pochi e ad ogni modo se questo miracoloso rinsavimento salva l'individuo dalle estreme degradazioni, è lecito temere che i figli generati nel periodo dell'incontinenza, portino, nascendo, i germi di un progressivo indebolimento. Se vi ha paese cui siano necessarie le società di temperanza questo è l'America. Ma nel loro zelo virtuoso esse danno in pratiche barocche e puerili e si alienano colla intolleranza l'animo della gente veramente temperata. Il caso intanto sembra tenere le parti dei bevitori. Durante il mio soggiorno in America, i giornali fecero un gran parlare di un'agape astemia bandita dai bigotti e più dalle bigotte dell'astinenza, dove, per non so quale inquinazione delle acque, tutti i commensali furono assaliti da coliche violentissime e ne morirono parecchi. Pensiamo, le risate degli alcoolisti!

Anche le leggi intervengono, uscendo dall'ambito loro, a governare i costumi. Ma quando la legge esorbita, l'inganno e la frode le stanno ai fianchi. In parecchi Stati dell'Unione è inibita la vendita delle bevande fermentate. Ma la sorveglianza dei pubblici ufficiali si ristà alla forma dei recipienti, onde avviene che si spaccino impunemente vino, birra e liquori, colla sola avvertenza di tenerli entro i bricchi e le caffettiere invece che nelle bottiglie e di mescerli entro le chicchere, invece che nei bicchieri. Gli Stati che non inibiscono in modo assoluto la vendita delle bevande alcooliche, ne limitano lo spaccio ai soli giorni feriali. La domenica, nella stessa New-York, sono chiusi tutti i Bar e le birrerie. Chiusi, intendiamoci, in apparenza e la porta maggiore; ma se vi prenda sete del più velenoso fra i liquori, rivolgetevi a bassa voce e con rinforzo di qualche moneta d'argento al primo policeman in cui v'imbattete. Egli vi indicherà con un gesto il passaggio secreto che mena al Bar più vicino. Così per voler soverchiare il suo compito, la legge si chiarisce insufficente e diventa argomento di corruzione civile. A Gloucester nello Stato di Massachusetts, la derisione della legge fu condotta, nel tempo ch'io stavo in America, ai termini estremi. Una birreria molto frequentata di quella città, soleva la domenica affiggere alle pareti delle sue sale dei cartelli con questa scritta: In respect for the law ask for Ambrosia (Per rispetto alla legge, domandate: Ambrosia). S'intende che a chi domandava Ambrosia, era mesciuta birra, ma la maestà della legge era salva ed il birraio non ci pativa.

Chi entri nei Bar entro le dieci di sera ci trova un po' più fitta la stessa folla che dicemmo dianzi, ed a primo vedere non avverte nel suo aspetto nessun notevole mutamento. Sono pur sempre quegli uomini, alti, asciutti, eleganti e regalmente infiorati, se non che a guardar bene, la loro compostezza apparisce ora più dovuta a sforzo volitivo che a grazia naturale. Non stanno più eretti sulla persona ma impettiti, non ritti ma impalati, le loro faccie hanno un'espressione violenta, si direbbe che bevano con disgusto, costretti. Durano gran tempo inerti tra la folla come in piena solitudine, ignari di quanto li circonda. Nessuno più discorre, nemmeno sottovoce, col vicino. Quel luogo chiaro, pieno di gente taciturna, è più sinistro delle nostre infime taverne.

Ricordo di essere entrato in compagnia di alcuni europei nel Bar dell'Hoffman house la notte delle elezioni dello Stato di New-York. I due partiti che si contendevano il governo avevano posto il loro quartier generale nei due alberghi quasi attigui della piazza: Madison square. I democratici al Fifth avenue hotel, i repubblicani all'Hoffman house. Tutta la sera la gran piazza era stata gremita di popolo in attesa delle notizie elettorali che una specie di lanterna magica rifletteva in caratteri cubitali sulla immensa parete nuda di un teatro. Alternavano, ricordo, le notizie delle elezioni cogli annunzi industriali: – Il tal candidato ebbe in Albany 10 mila voti. – E subito dopo: – Se volete delle solide calze andate in Broadwai al tal numero. – Ogni annuncio di voti era accolto, a seconda delle parti, da strida, da clamori, da imprecazioni e da fischi. Entrammo nel Bar verso l'una dopo la mezzanotte. C'era una tal ressa che tutti i presenti si puntellavano a vicenda. Credevamo di trovarci l'eco delle recenti battaglie, dispute e concioni, i soliti segni della concitazione pubblica. Era un silenzio glaciale. Tutta gente in tuba, in soprabito nero, un fascio di milioni se non pure di miliardi, ed un aspetto funereo che metteva freddo nell'ossa. I repubblicani avevano vinto, eravamo fra i trionfatori. Questi dunque gl'inni della vittoria? Sulle prime, nel pigia pigia dell'entrata, noi stranieri ed ignari ci guardavamo ammirati di così misurato contegno. Ma poi! Occhi smarriti ed imbambolati, labbra cascanti, una rigidezza scomposta nei lineamenti, pallori inquietanti e su tutti i visi l'unghiata formidabile del veleno.

L'ultimo giovedì del novembre si celebra negli Stati Uniti il Thanksgiving day (giorno della resa di grazie), la festa bandita ogni anno dal Presidente dell'Unione, per ringraziare la Divinità dei beni concessi nell'annata. Erano quel giorno in New-York gli studenti delle due università di Yale e di Princeton, le più celebri d'America, convenuti per una gran gara al pallone che aveva divisa in due parti tutta quanta la città imperiale. Fino dalle prime ore della mattina, i quartieri centrali, in luogo di mostrare là squallida nitidezza che è attributo i giorni festivi di tutte le città americane, disertate dagli abitanti, erano più del solito popolosi e chiassosi. Si leggeva su tutti i visi una aspettazione gioconda e quella disposizione alla dimestichezza comunicativa che i giovani portano con sè dappertutto ed irradiano anche sulla gente matura. L'immensa metropoli pareva mutata in piccola città universitaria, tanto si associava alla vita degli studenti. Tutti i cittadini d'ogni età e d'ogni condizione, uomini e donne, portavano o sui cappelli, o sul braccio, o alla cravatta, o all'occhiello i colori di una delle due università, a seconda delle simpatie e delle scommesse. Yale era gialla. Princeton azzurra. Davanti le case, gli alberghi ed i clubs, immensi carozzoni scoperti, a quattro, a sei cavalli, infiorati ed inghirlandati di giallo o d'azzurro le ruote, i sedili, la groppa e la criniera, aspettavano le comitive dirette al campo della gara. Le brigate degli studenti scorazzavano da padrone tra la folla che si apriva plaudente ed augurante al loro passaggio. Era una festa tutta gentilezza, dedicata al fiore della gioventù americana.

La gara seguì, stupendo e ordinatissimo esercizio di forza e di destrezza. La sera, le vie ed i teatri brulicavano di studenti, ma il fiore d'America s'era avvizzito e spandeva odore d'acquavite. Irrompevano a forza nei teatri e vi spadroneggiavano con durezza. Non vi portavano il motteggiare delle nostre scolaresche in festa, le quali se disturbano l'attenzione delle pacifiche platee, danno in compenso spettacolo di salace giocondità, ma un tempestare assordante in nota unica e continua, che esprimeva l'immobilità delle loro menti intorpidite. Non sorrisi, nè risate. La loro prepotenza non attenuata da nessuna grazia, pareva di soldatesca conquistatrice. Per le vie barcollavano briachi di una ebrietà tenebrosa senza raggio di gaiezza. I meno funerei stamburavano a voce, curando di camminare in misura, ma la voce ed il passo erano affatto indipendenti l'uno dall'altra e si accordavano solamente nel ribellarsi ognuno per suo conto al rudimentale impulso volitivo ond'erano mossi. La voce rendeva suono di tamburo allentato per funerali, un suono così scomposto e stentato che pareva esprimere il delirio di un paralitico. Quale differenza dalle nostre canzoni bacchiche briose ed audaci e dalla esaltazione sottile e verbosa che sale al cervello dai nostri vini! Ed il passo! Un bimbo di tre anni avrebbe stramazzato a terra il più vigoroso di quegli atleti. A tarda notte molti giacevano come corpi morti, sui marciapiedi.

Questa brutalità di vizio appartiene in eguale misura alle classi ricche ed alle povere, anzi tenuto conto della qualità delle bevande e del loro potere innebriante il quale cresce in ragione inversa della bontà, si può ritenere che sia maggiore in quelle che in queste. È noto che dai clubs più fastosi, molti fastosissimi soci, poichè vi entrarono a piedi, escono nelle ore piccine portati a braccia dai domestici, i quali li cacciano in carrozza e giunti a casa li spogliano e li mettono in letto, senza ch'essi diano segno alcuno di rinvenimento.

Io giudico che l'americano sia più amante dell'ebrietà che del bere. La proposizione può parere paradossale, ma non è. Non mi avvenne mai di vedere un americano, intendo degli alcoolisti, centellinare un bicchierino di liquore e mostrare di assaporarne l'aroma. Si direbbe anzi che al loro palato disgusti l'acredine alcoolica e che costretto all'ufficio di imbuto esso si affretti a liberarsi dell'ingrata sostanza. Essi non bevono, tracannano. A vederli accostare alle labbra il calicino e versarlo di scatto, si capisce che la colonna liquida deve piombare serrata nelle fauci senza diffondersi a toccare le papille. L'atto non è infatti accompagnato da nessun segno di compiacenza. Cupi e fissi bevitori essi giungono all'ebrietà senza passare per l'ebrezza. La loro ebrietà non è una cima, è un pozzo; non vi salgono grado grado, inconsapevoli: vi si avventano con deliberato proposito. Bisogna dire che alle loro menti, pur tanto energiche e sempre affaticate dietro i traffichi ed i guadagni, faccia difetto l'energia che sa comandare il riposo e sospendere l'applicazione intellettuale. Da ciò il bisogno violento di paralizzare con aiuti esteriori l'attività cerebrale. O forse consci della invincibile seduzione alcoolica che tanto tanto li trascinerebbe alle ultime cotte, nella loro impazienza delle sensazioni estreme, amano a risparmio di tempo, arrivarci di un colpo. È la stessa sessualità grossa che ho già notato altra volta e che si palesa per mille vie, sdegnosa delle delicatezze indugiatrici, amante di quanto è enorme ed eccessivo.