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Kitabı oku: «Impressioni d'America», sayfa 3

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Nel disgusto che ci danno quelle nuove forme, interviene dunque un resto di pregiudizio che sarà bene combattere e che andrà per necessità di cose scomparendo di per sè stesso. E scomparirebbe più presto se l'architettura ferrea di quei novatori fosse più sincera. Ma essa edifica col ferro e mentisce muri d'apparato. Noi ammiriamo con viva compiacenza estetica, i ponti sospesi e le immense arcate delle stazioni, dove la membratura ferrea ci appare schietta nella sua robusta sottigliezza. Perchè le fabbriche non si darebbero anch'esse per quello che sono? Non c'è vera originalità senza schiettezza.

CAPITOLO III.
L'intemperanza degli americani

Quando si affermano le qualità caratteristiche di un popolo ed in special modo di un popolo vario e progressivo quale l'americano, si parla ben inteso sulle generali. Le grandi città dell'Unione e segnatamente quelle prossime all'Atlantico, raccolgono oramai una società cosmopolita, nella quale i caratteri etnici sono in apparenza attenuati e modificati dalla convivenza con genti europee, dalla coltura, dai viaggi, dai parentadi, dalla vanità, dalla moda. L'europeo colto, che giunga in America, e frequenti per l'appunto tale società vi trova la più squisita gentilezza di modi e, sopratutto nelle donne, una grande cura di far risaltare le affinità e di nascondere le dissomiglianze di razza. I circoli eleganti di New-York sono al fatto di quanto segue giornalmente nelle grandi capitali d'Europa nel campo dell'arte, degli spettacoli, nelle feste, nella cronaca mondana, dell'almanacco di Gotha, e ne discorrono come di cose vicine e famigliari. Le signore americane le quali ostentano volentieri una sprezzante ignoranza intorno alla vita politica del loro paese, arrossirebbero di non saper nominare le dame d'onore della regina d'Inghilterra, o dichiarare il grado di parentela che corre tra le case d'Assia e di Mecklembourg o dare il suo giusto titolo ad un cameriere intimo di Sua Santità, il sommo Pontefice. È curiosa la conoscenza sicura che hanno quelle belle protestanti, delle cariche, delle cerimonie e degli intrighi vaticani e curiosissimo l'untuoso rispetto con cui ne discorrono. La corte papale esercita su di esse una seduzione, non guari dissimile nelle origini da quella che esce dai laboratorii di sartoria muliebre del Worth e dai prontuarii di casistica erotica di Paolo Bourget. I papisti sono consapevoli del fascino nobiliare che esercita il cattolicismo e lo mettono a partito. I preti ed i prelati cattolici residenti nelle grandi città americane, disciolti dall'obbligo di vestire l'abito sacerdotale, fanno una propaganda mondana che dà copiosi frutti. La loro aria di degnazione benevola, il loro distacco dalle cose terrene cui s'accostano indulgenti, il parlare sobrio e pacato, il loro rifarsi nei discorsi d'arte e di signoria da tradizioni universalmente rispettate, sono per essi altrettante cagioni di un predominio cui il fondamentale dissidio religioso aggiunge sapore.

Ma la importazione del gusto raffinato e mutevole dell'alta società europea e la levigatura che procede sempre dalla ricchezza, non modificarono se non in apparenza le tendenze native. A parole, i fashionables del caffè Del Monico, professano un'estetica delicata che deve costar loro una continua autovigilanza. Quella tenuità di pensamenti e di movimenti che è il non plus ultra della sciccheria, stride col loro fisico poderoso e bisognoso d'azione. Il formidabile individualismo onde trassero nel tempo ricchezza e grandezza, si adagia a stento nella disciplina convenzionale della nostra gente per bene. Quando si mettono per godere, vogliono godere oltre misura. Cento doganieri dell'estetica, appostati sull'entrata di un salone a respingerne ogni oggetto non bollato per raffinatissimo, non possono impedire che la raccolta di troppe cose squisite esprima un gusto se non eteroclito, eterodosso. Ogni particolare della vita di quei gaudenti, otterrebbe l'accessit dal più schifiltoso fra i dittatori della moda e della delicatezza parigina, ma il loro complesso tradisce per lo più quella inclinazione a fare in grande che è propria degli arricchiti. Eppure esiste in America una aristocrazia plutocratica, i cui titoli nobiliari risalgono a nonni milionari. Ma quel sottile smeriglio che è il milione da lungo tempo posseduto, non venne ancora a capo di levigare del tutto la ruvida scorza che salì dal ceppo agli ultimi rami. È certo che in America la lunga ricchezza non produsse ancora quello che noi pare supremo fiore dell'eleganza spregiudicata e sicura: l'amore del semplice. Lo produrrà mai? La domanda è oziosa. Meno ozioso il domandare se sarà bene che lo produca. Ed io sto per la negativa. Noi abbiamo cristallizzato il gusto. Il senso della misura, è conservatore per eccellenza, e nasce da timidità. Chi visita gli Stati Uniti, poichè si riebbe dal primo sbalordimento, prende a dubitare della nostra estetica legittimista. Se cerchiamo bene, poichè la gente capace di un giudizio genuino è molto scarsa, il consenso universale nei postulati estetici procede presso di noi da una riverenza tradizionale, non scevra di pigrizia. Noi non ammettiamo i novatori se non quando sono decrepiti e nell'essere stato riconosciamo la prima e principale ragione dell'essere. Così andiamo sempre più divezzando la gente pigra dal pensare col proprio cervello.

L'Americano, all'incontro, cura più il gusto presente che il passato. Il suo difetto di tradizioni secolari, che noi europei avvertiamo di subito e che sulle prime produce nelle nostre menti consuetudinarie un senso di disagio, lo franca dalla timidità rispettosa e lo aiuta a conseguire la personalità. Non è il caso ch'io riprenda, dopo tanti altri, la difesa della originalità americana e non voglio nemmeno dire che i prodotti estetici del nuovo mondo, mi siano tutti, nè la maggior parte, andati a genio. Italiano, sento all'italiana, in ciò solo più spregiudicato di molti miei connazionali, che non derido gli americani del loro sentire diverso dal mio. Perciò nel notare i loro tratti caratteristici, mi guardo bene dall'imputar loro a colpa, la differenza dai nostri. Noto e mi godo nel pensare che la fratellanza cosmopolita non induca per ora, e non sia per indurre mai, una uniformità stucchevole fra tutte le genti.

Del rimanente agli americani le nostre derisioni non fanno nè caldo nè freddo; essi gustano anzi volentieri le caricature che andiamo facendo dello Zio Sam e di Jonathan, e quelli stessi cui una vanità esotica consiglia di adottare le costumanze europee, a chi loro persuade che non ci riescono, rispondono con un sorriso fino fino, dove si può leggere insieme uno stupore canzonatorio ed un orgoglio indulgente. Sembrano dire: a me lo contate? Quasi che si tenessero della non riuscita. Non giurerei che non fosse un po' il caso dell'uva acerba, ma si può star certi che l'acerbità dell'uva non li accora di troppo. Credo per fermo che fra tutti i cittadini dell'Unione non se ne trovi pur uno così continuamente studioso di esotizzarsi come lo sono tanti nostri anglomani delle società per le corse.

Alla personalità degli americani giovò sopratutto il non aver essi nessuna paura del ridicolo. Il ridicolo in America non fa presa e dove non fa presa non esiste, perchè non è che un fantasima creato dalla paura. Anche nei paesi latini, dove può tanto, chi più lo teme più c'incappa dentro e, diciamolo, più merita di incapparci. Il ridicolo è un prodotto delle società da lungo tempo costituite, le quali finiscono sempre col chiudersi in un formalismo dommatico. Esso aiuta le serrate di classe contrastando l'entrata d'ogni classe a chi ne sta fuori e l'uscita a chi ci è dentro. Cane di guardia dello statu quo, non morde mai chi si appaga a quel grado di mediocrità che tutti possono conseguire, ma si avventa contro i solitari che lo soverchiano. Educatrice a qualità discrete, a gentili eleganze ed a virtù negative, la tema del ridicolo impigrisce l'esercizio delle attività individuali e frena i movimenti iniziatori. Perciò i paesi dove esso più agisce sono spesso retrogradi e sempre consuetudinari; e perciò ivi l'eccentricità, cioè l'essere dissimile dai più, induce sempre un'idea di ridicolo. Ora se badiamo al procedere della civiltà, noi troviamo che il minor numero di uomini eccentrici s'incontra nei popoli stazionarii ed il maggiore nei progressivi. L'America informi.

D'altra parte è da vedere se i milioni siano più discreti di qua che di là dell'Atlantico. In fatto di gusto, che vuol poi dire di senso artistico riferito a tutte le cose, le società dispendiose e gaudiose dei due continenti su per giù si bilanciano. Le case degli arricchiti ed anche le nuovissime di molti nobili di ceppo antico non sono meno lussureggianti e stupefacenti in Europa che in America; colla differenza che qui si tira a far colpo con poco, anche i duchi e principi, e là purchè ci paia, non si bada a lesinare. Tra un arazzo autentico e la sua imitazione ingannatrice, l'europeo si appaga del falso, mentre l'americano corre al vero. Ma nelle origini e nelle applicazioni del gusto, avvenne in questi ultimi anni in Europa un notevole rivolgimento. Il gusto raffinato che fu già nei secoli andati quasi esclusivo privilegio delle classi più ricche ed elevate, è venuto oggi in gran parte ritraendosi da quelle ed allargandosi nelle classi mediane. Il maggior merito di questa evoluzione spetta all'Inghilterra la quale nelle industrie artistiche più cura la purezza delle linee e la giustezza delle proporzioni che la ricchezza degli ornamenti. Al giorno d'oggi hanno un'eleganza più artistica gli oggetti usuali che quelli di mero lusso. Noi abbiamo perduto il secreto di quel fasto largo e riposato che spiegavano le salde aristocrazie dei secoli passati. Il nostro fasto farraginoso esprime la poca fede che i ricchi hanno nella sua stabilità e la fretta di goderne innanzi che venga l'ultima rovina. E tra i godimenti del lusso, non è ultimo quello di sfoggiarne il costo se non pure di mentirlo maggiore del vero.

Si dice che gli americani, nell'atto di mostrarvi un oggetto pregevole, sogliono sempre enunciarvene il prezzo. Dal sempre in fuori, il fatto è vero, ma la differenza tra essi e noi si riduce a questo, che essi lo spiattellano aperto mentre noi ci ingegniamo di farlo scaturire da un rigiro di parole. Per un loro atto di vanità, noi ne commettiamo due: vogliamo cioè farci belli della spesa e più belli del parerne incuranti. Non nego che al cospetto di un'opera artistica, quell'elemento commerciale messo là in lire e soldi, induca un senso disgustoso. Ricordo di aver visitato in New-York la casa di un ricchissimo raccoglitore di quadri. Egli stesso mi accompagnava davanti ad ogni dipinto e collocatomi nel buon punto di vista mi si piantava accanto a Cicerone e mi diceva: – Corot, dieci mila dollari. Millet, quindici mila e così via; – ma parlava con tale accento di recitazione obbligatoria e facendo così piena astrazione dalla propria qualità di possessore, che si capiva come la nozione del prezzo facesse, a suo criterio, parte integrante dell'opera e fosse inseparabile dal nome dell'autore. Ognuno di noi può invece rintracciare nella propria memoria qualche gustosa scenetta di Mecenati milionari i quali nell'atto di mostrare il quadro, loro ultimo acquisto, ne tacciono bensì con signorile noncuranza il prezzo, ma questo lo si vede di poi far capolino tra le pieghe del loro discorso finchè gli riesce di sbucarne di straforo, prendendo magari un'aria di protezione.

Non è dunque tanto nel gusto più o meno raffinato che io noto la differenza fra noi e gli americani quanto nella smania che questi hanno di affastellare in soverchia quantità gli elementi del piacere nella erronea credenza di moltiplicare i godimenti. Essi fanno come chi deliziatosi di una goccia d'essenza odorosa, ne vuotasse il boccettino sul fazzoletto. Di tali intemperanze nel piacere e nei piaceri più raffinati ai quali è meglio che a nessun'altro necessaria la misura, occorrono esempi ad ogni passo.

Un miliardario di New-York volle farsi la casa degna della borsa. Uomo colto, dimorato gran tempo in Europa e pregiatore delle cose artistiche, ci riuscì sulle prime in modo ammirevole; ma poi prese a sopraffare sempre aggiungendo nuove maraviglie alle antiche. E metti e metti, per poco le cose belle non cacciano di casa il buon padrone, il quale a cominciare dallo scalone se vuol salire nel suo quartiere deve accendere le lampade di pieno meriggio. Quello scalone di palazzo prende un buon terzo della piccola casa, che senza di esso sarebbe armonica e giusta. Vi si accede per un andito lungo e stretto che lungi dal predisporvi a tanta ampiezza, ne rimove il pensiero. Di uno stile cinquecentista tra l'italiano ed il tedesco fusi insieme in bella armonia, esso è tutto da capo a piedi un miracolo d'arte imitativa condotta con sì rara perfezione, che le parti nuove non stridono punto coi molti e preziosi oggetti autentici ivi raccolti. Coperto da un soffitto di legno scuro a cassettoni, le doppie branche e i larghissimi ripiani sono antichi, di legno scuro di noce operato ed incerato. Armi e armature dalla patina bruna in ogni canto e per ogni dove. Lungo le branche, sui ripiani, su per la cimasa della balustrata, mobili scolpiti, statue di legno, stoffe, una profusione di cose peregrine degne ognuna di figurare in un museo. Dentro una nicchietta oscura tra le due prime branche, uno stupendo Luca della Robbia fa da sfondo ad una fontanella. Perchè una fontana? Nelle case americane ed in quella poi, l'acqua sale pei muri a tutti i piani ed a tutte le stanze, e d'altra parte fra tanto apparato di legno scolpito e di tappeti orientali ed in luogo ben chiuso a studio di tepore, lo zampillo, così appropriato ai marmi, non pareva affatto richiesto. Ma l'abbondanza non è difetto e fontana sia. Se non che al cinquecento, alle riminiscenze italiane ed alle tedesche, ai ricchi arredi, alla piastretta di mastro Luca ed a quella specie di acquasantino, perchè non aggiungere il misterioso luccichio dei vetri colorati e dati i colori, perchè non farli robusti, tra il blu, il verde, il viola ed il porporino? Ma le finestre non sono amplissime, ma la casa dirimpetto ruba a questa il sole, ma i colori non lasciano passare che un fil di luce, ma il legno bruno non riflette quella poca, ed ecco che le costose meraviglie dormono al buio onde il visitatore deve cercarle ad una ad una col lanternino.

Vidi in un'altra casa, un salone giapponese stupefacente. Qui a dire mille, si fa torto al vero di una metà e non si è creduti per venti. Quel salone è costato 250 mila dollari, un milione e 250 mila lire, e le vale, e chi ci dovesse vivere tre giorni, pagherebbe, potendo, altrettanto perchè il Giappone non fosse mai esistito. È un salone di bronzo, ma intendiamoci, tutto di bronzo da capo a piedi, senza soluzione di continuità, tranne il pavimento che è in legno antico, un amore di pavimento rossiccio, segnato a fantastiche figure che è un peccato metterci su il piede. Il soffitto di bronzo ancor esso fa a primo vederlo l'effetto di una pioggia fina fina subitamente rappresa, della quale si contino tutte le goccie sospese per l'aria, tanto è irto di punte e di oggetti d'ogni maniera, che formano un intreccio serrato nel quale l'occhio non riesce sulle prime a raccogliere nessuna traccia di disegno. Ci si arriva di poi, tirando fra i punti più vicini quelle linee ideali che è così difficile rintracciare e seguire, ma che una volta trovate si fissano nella mente e vi prendono una realtà evidentissima. Allora escono mille figure geometriche che si compenetrano a vicenda moltiplicandosi all'infinito; ma ci vuole una fatica improba a trovarle e chi le trova è preso da una smania faticosa di cercarne dell'altre, e quella smania perdura anche quando non vi stanno più sotto gli occhi le cose che l'hanno generata e la sera a letto, allo scuro, è una danza vertiginosa di cubi, di trapezi, di parallelogrammi, di tutta la diavoleria esatta onde nascono le più fiere torture delle menti imaginose.

Buono che il soffitto, basta non voltare gli occhi in su, si può fare a meno di vederlo: ma le pareti, ma le cornici ed i battenti degli usci, ma il camino, quel formidabile camino tanto irto ancor esso di infiniti sottilissimi rilievi che a volerne fare la planimetria, ne uscirebbe l'area di una casa, quelli bisogna vederli per forza e patirne l'attrazione morbosa. Non mi dilungo a descrivere. Ogni parte di quel tutto mostruoso è un capolavoro dell'arte; e la raccolta indiscreta di tanti capolavori, produce una sensazione visiva identica a quella di un forte pugno nell'occhio. Appetto a quel salone che vorrebbe essere abitabile, un museo parrebbe intimo e domestico quanto il tinello di una villetta abitata tutto l'anno.

Altro esempio. In America, come a Londra, e come oramai in tutte le grandi città d'Europa, i Clubs, già un tempo destinati a solo trattenimento serale e notturno, vennero a poco a poco diventando quasi alberghi privilegiati, dove i soci possono passare l'intera giornata, attendere agli affari, desinare e all'occorrenza trovare alloggio fornito. In New-York sono elegantissimi: l'Union Club, il Manhattan Club, l'Athletic Club ed in modo speciale, vale a dire più d'ogni altro meticoloso nelle ammissioni dei nuovi soci, il Knikerbocker Club. Ma tutti questi da un maggior fasto in fuori, non sono dissimili dagli europei. Bisognava bene che la smania gaudente degli americani ne escogitasse uno di nuovo conio e questo fu il Club di Toxedo Park che in New-York stessa è noto solamente a pochissimi raffinati.

Toxedo Park in Pensilvania è una grande distesa di terreni dove sono raccolte molte e varie bellezze naturali. Solcate da acque perenni, abbellite da un lago e da colli boscosi ridentissimi, quelle terre furono comprate trenta o quarant'anni or sono da un ricco signore di New-York il quale contava forse di fondarvi una nuova città. Così suppongo, perchè così usa di frequente negli Stati Uniti; ma o sia errata la supposizione o fallisse l'impresa, fatto sta che la città non sorse, e le bellezze naturali non furono deformate. Se non che, l'uomo, già straricco, non voleva mettersi a dissodar terreni, nè vendere a spizzico quanto aveva acquistato in blocco e d'altra parte, una villa in così immensa proprietà sarebbe riuscita desolata come una trappa. Dopo alcuni anni di infruttifero possesso, gli amici vennero in aiuto al compratore.

Egli mettesse i terreni, essi avrebbero edificato la casa, dove tutti insieme sarebbero convenuti con pari diritti a villeggiare. Così nacque un Club campestre che a pensarlo appare il non plus ultra del genere. Ogni socio vi ebbe alloggi spaziosi e liberi per sè e per la famiglia e proprie scuderie e rimesse, senza contare quelle fornite ad uso collettivo, dalla comunità. Saloni comuni per i pranzi, i giuochi, il conversare, le feste; biblioteca, farmacia, servizio medico, ufficio postale e telegrafico e quanto altro il lusso e la raffinatezza possano imaginare, tutto fu nel nuovo club apprestato con larghezza di Nabab o di sultani. Come di ragione, un tale Eldorado fece gola a molti e fioccarono le domande di ammissione, tanto più che le linee ferroviarie avevano avvicinato i luoghi a New-York, donde coi treni direttissimi si può giungere a Toxedo Park con un'ora e mezzo di viaggio, quanto occorre per recarsi da un capo all'altro della città. Il numero dei soci fu accresciuto, e gli edifici furono ordinati a dimora permanente. I sociologhi ed i moralisti potranno esaminare se tale continuità di vita collettiva, intesa di continuo al godimento ed escludente ogni intimità domestica, non debba alla lunga inaridire gli animi ed intristirvi il fiore dei sentimenti delicati; ma oramai molta parte della società gaudiosa, suole anche in Europa, dimorare dieci mesi dell'anno negli alberghi e considerare la casa quale luogo di passaggio. Ad ogni modo, al punto di vista del piacere immediato, Toxedo Park non lasciava nulla a desiderare. Ci voleva proprio l'incontentabilità degli americani per viziarne, a studio di maggiori delizie, l'ordinamento. Cominciò un socio a volersi fabbricare una villa tutta sua in luogo a lui gradito entro i confini della comune proprietà. L'idea piacque a tutti, ma convenne per attuarla, deliberare la serrata della società ed inibire ulteriori ammissioni. I soci erano, non ricordo se trenta o quaranta: si decretò che non ne dovesse entrare più nessuno. E avanti a fabbricar ville, serbando il primo edificio a ritrovi collettivi. A primo aspetto, la trovata par deliziosa; ma a rifletterci! Al Club non ci si affeziona, o almeno non tanto che s'abbia a provare un grave rammarico nel ritrarsene quando la compagnia non ci torni gradita. Invece, la casa ideata da noi e venuta su sotto i nostri occhi e informata ai bisogni della nostra famiglia, della quale rispecchia l'indole e le abitudini, diventa, in breve, parte di noi stessi ed oggetto di un amore pieno di tenerezza nel possesso e di dolore nell'abbandono. Già il sapere che altri può vantare su di essa se non proprio un diritto di proprietà, almeno una ragione che limita la nostra proprietà e non ci lascia disporne a nostro talento, deve essere causa di continue punture. E poi, la convivenza con un numero fisso di persone e sempre quelle, può durare piacevole anni ed anni, ma può anche diventare domani, e diventerà certo col tempo, uggiosa e tormentosa. E il non poterla evitare affretta ed accresce l'uggia ed il tormento. Tutti siamo esposti alle vicinanze moleste, ma è raro che il fastidioso vicino sia comproprietario del nostro giardino ed erede necessario della nostra casa quando l'avversione che egli ci ispira ci inducesse ad abbandonarla.

È certo che alla seconda generazione, i soci di quella fantasiosa società, daranno del gran filo da torcere per intricati interminabili litigi ai giudici americani. Il troppo stroppia. La mia villetta umile e lontana dalle genti, può vantare su Toxedo Park l'immensa superiorità di non averci intorno quaranta vicini in possesso ognuno di un quarantesimo del diritto di venirmi a seccare.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 eylül 2017
Hacim:
210 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain