Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8», sayfa 12
LIBRO TRENTESIMOTERZO
Il Re Filippo II nel governo de' suoi Regni calcò sentieri diversi di quelli, che calcati avea l'Imperador Carlo suo padre: costui, scorrendo per tutti i suoi ampj Dominj, s'adattò a più e diverse Nazioni, ed era accettevole non meno a' Spagnuoli, che a' Fiammenghi, Germani ed Italiani; all'incontro Filippo, partito che fu di Fiandra dopo la morte di Maria Regina d'Inghilterra sua seconda moglie, e risoluto di fermarsi in Ispagna, senza mai più vagare, si chiuse in Madrid, e postosi in braccio degli Spagnuoli, cominciò da quivi a reggere la monarchia secondo le loro massime; ed adulato da costoro, come per lo più prudente e saggio Re della Terra, ristretto in se stesso, dal suo gabinetto si pose a governare il Mondo. Da lui, alcuni dissero, che la Monarchia di Spagna cominciasse a declinare, o almeno, che si spargessero semi tali, che non potevano col correr degli anni germogliare, se non disordini, perdite e confusioni; poichè governando gli Spagnuoli con grande alterigia, si acquistarono l'odio delle Nazioni straniere; onde le Fiandre si perderono, ed in decorso di tempo, nel Regno di Filippo IV suo nipote, la Catalogna, Napoli e Sicilia si videro in pericolo; Portogallo sottratto, e la Monarchia finalmente ridotta in quello stato deplorabile, che fu veduta nel Regno di Carlo II, ultimo della sua maschile posterità e discendenza.
Di Filippo II, si è cotanto scritto e rescritto, che sarebbe abbondar d'ozio, se qui s'avessero a ripetere le medesime cose: solamente per ciò, che riguarda la politia del nostro Reame, si noteranno in questa Istoria alcuni de' più segnalati successi a quella attinenti, donde possa aversi contezza dello stato così civile e temporale, come ecclesiastico, nel quale si vide questo Reame, ne' quarantaquattro anni, che ei regnò, che tanti appunto ne corsero dall'anno 1554, nel quale gli furono dal padre rinunziati i Regni di Napoli e di Sicilia, sino a' 13 di settembre dell'anno 1598, nel quale morì. In questo spazio di tempo vi mandò egli otto Vicerè, oltre a sei Luogotenenti, che ressero il Regno in lor vece. Ed è cosa da recar stupore il numero de' milioni, che da quello si cavarono in questo tempo, per li donativi, che in varie occasioni gli furon fatti: de' quali lunghi cataloghi ne fecero i nostri Scrittori111, e di quelli per essere stati tanti, appena poterono tenerne un esatto ed accurato conto. Per ciò nel volume de' Capitoli, si leggono tante grazie e privilegi conceduti da questo Principe alla città e Regno di Napoli; ma sempre mal eseguiti e peggio osservati.
Prese egli, come si è detto, la possessione di questo Regno, vivente il padre, per mezzo del Marchese di Pescara, in tempo del Cardinal Pacecco, che si trovava Vicerè, avendogli il Pontefice Giulio III, successore di Paolo III, conceduta l'investitura del Regno renunziatogli dal padre, dichiarando in quella di non voler pregiudicare in cos'alcuna alle ragioni della Regina Giovanna sua ava, madre di Carlo V, che allora ancor vivea. Fu la Bolla spedita a' 3 di ottobre del 1554, e vien rapportata dal Chioccarello nel primo tomo de' suoi M. S. Giurisdizionali.
Mentre visse il Pontefice Giulio, ed in que' pochi giorni, che sedè in Roma Marcello II suo successore, le cose passarono fra noi in somma quiete e tranquillità. Il Cardinal Pacecco confermato dal nuovo Re al governo del Regno, proseguiva la sua prudente condotta, invigilando alla retta amministrazion della giustizia, di che presso noi ci restano ancora vestigj per quelle otto Prammatiche, che ancor si leggono ne' volumi delle nostre leggi112. Maggiori vestigj della sua saviezza ci restano nella Storia del Concilio di Trento del Cardinal Pallavicino, dove molto s'adoperò in quell'Assemblea, infin al 1560. Ma essendo appena intronizzato, morto il Pontefice Marcello a' 30 aprile del 1555, per l'elezione da farsi del nuovo Papa, fu a noi tolto il Cardinal Pacecco, il quale bisognò portarsi in Roma, lasciando per suo Luogotenente D. Bernardino di Mendozza, che non più di sei mesi governò il Regno.
Ma ciò, che fra noi pose in isconvolgimento e disordini il Regno, fu che l'elezione del nuovo Pontefice cadde in persona del Cardinal Giovan-Pietro Caraffa, che Paolo IV chiamossi. Costui essendo nemico de' Spagnuoli, e mal soddisfatto dell'Imperador Carlo, che gli avea attraversata nel Conclave l'elezione, portò nel Regno quella guerra, che saremo ora a narrare.
CAPITOLO I
Guerra mossa dal Pontefice Paolo IV al Re Filippo per togliergli il Regno. Sua origine, pretesto ed inutile successo
La guerra, che Paolo IV mosse nel Regno di Napoli, ancorchè avesse molti Scrittori, fu però cotanto accuratamente scritta da Alessandro d'Andrea napoletano, siccome colui, che vi fu presente, avendovi militato sotto il Maestro di campo Mardones, onde ragionevolmente posposti tutti gli altri, sarà da noi seguitato: tanto maggiormente, che il Presidente Tuano, descrivendola ancor egli nelle sue Istorie113, seguitò pure questo medesimo Scrittore. Le cagioni però onde nacque, e per quali pretesti fu mossa, è di mestieri che qui brevemente si narrino.
Giovan-Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, datosi nella sua giovanezza agli studi delle lettere, e sopra ogni altro della Teologia e delle lingue, riconobbe le sue fortune dal famoso Cardinal Oliviero Caraffa, che in Roma gli diè ricovero nella sua propria casa, non essendo allora che un semplice Canonico della Cattedrale di Napoli114. Per la resignazione che trovavasi aver fatta il Cardinal Oliviero del Vescovado di Chieti, fu da Giulio II nel 1505, ne' primi tempi del suo Pontificato, creato Vescovo di quella città; e per la perizia di molte lingue, che professava della latina, greca ed ebrea, entrò in somma grazia di Lione X, che lo mandò Nunzio in Inghilterra per raccogliere, come era allora il costume, il denaro di S. Pietro. Ferdinando il Cattolico, a riguardo di Lione, l'onorò anche nella sua Corte, ascrivendolo al suo Real Consiglio, e lo creò Vicario del suo Cappellan Maggiore, nelle quali dignità fu mantenuto anche da Carlo V suo nipote; il quale l'offerì anche l'Arcivescovado di Brindisi di molta maggior rendita, che quello di Chieti115; ma essendosi dato in questo tempo allo spirito, professando santità, non pur lo refutò, ma resignò anche nelle mani di Clemente VII, allora Pontefice, il Vescovado di Chieti, e fuggendo il cospetto degli uomini si ritirò in Monte Pincio, ove menò vita molto austera da Solitario; ma costretto poi a partir di là, per lo sacco dato a quella città, andò in Verona; indi portossi a Venezia, ove essendosi a lui associati Gaetano Tiene Vicentino, Bonifacio del Colle, Alessandrino, e Paolo Consigliere romano, istituì la Religione de' Chierici Regolari, i quali dal nome della sua Chiesa, che prima avea, si chiamarono (come s'è detto) Teatini; il cui Istituto, essendo stato da poi da Clemente VII approvato, lo rese assai famoso non meno per dottrina, che per santità, e probità della sua vita e costumi; tanto che Paolo III, in quella celebre promozione di nove Cardinali, che fece a' 22 decembre del 1536, lo creò Cardinale, e lo costrinse poi ad accettare la Chiesa di Chieti, innalzata fra questo tempo a dignità Arcivescovile.
Durante il Pontificato di Paolo III, fu da costui avuto in somma stima per la severità de' costumi ed austerità di vita che professava, mostrando gran zelo per la Sede Appostolica, e fu terribile persecutore degli Eretici, che nel suo tempo vedeva germogliare a truppe in varie Regioni in Europa. Egli fu autore a Paolo III d'innalzare il Tribunale dell'Inquisizione di Roma, e renderlo spaventoso per tante rigorose leggi e nuove forme introdotte: ciò che poi nel suo Pontificato accrebbe116, che, come si è veduto nel precedente libro, fece venire in orrore quel Tribunale, non pure agli stranieri, ma all'istessa Italia ed a Roma medesima: tanto che, lui morto, i Romani la prima cosa che fecero, bruciarono il Tribunale e le carceri, e a quanti prigioni ivi erano, diedero libertà. Quindi avvenne, che presso noi i Teatini si resero in ciò cotanto insigni, che non predicavan altro, che Inquisizione, e sovente essi erano, che andavano a denunziare i sospetti d'eresia, e proccuravano di farli imprigionare.
Ma mentre questo Cardinale dimorava in Roma presso Paolo III, fu scoverto, che egli, non meno che il Pontefice, era quanto avverso a Cesare ed alla Nazione spagnuola, altrettanto affezionato del Re di Francia, allora nemico di Carlo. L'odio che portava il Cardinale alla Nazione spagnuola, era nato da antiche cagioni: poichè avendo molti de' Caraffeschi, nell'invasione di Lautrec, seguitato il partito franzese, ne furono alcuni, quietato il Regno, aspramente castigati; onde Giovan Pietro non tralasciava odiarla. Anzi gli Spagnuoli tennero allora per certo, che ne' tumulti del 1547, insorti per l'occasione già detta dell'Inquisizione, egli avesse proccurato con tutti gli sforzi possibili (con promettere non pur il suo ajuto, offerendosi d'essere di persona in Napoli, ma anche de' suoi parenti) di persuadere al Pontefice di non lasciar perdere sì opportuna occasione d'occupare il Regno, e che dovea darne stretto conto a Dio, trascurando un tanto acquisto per la sua Chiesa. Ciò che non mancò il Duca d'Alba di rinfacciarglielo, essendo Papa, nella lettera che gli scrisse, prima di moversi questa guerra, la quale vien rapportata tutta intiera nella sua Istoria dal Summonte117. Per la qual cosa avendo gli Spagnuoli fatto avvertito Cesare dell'inclinazione del Cardinale verso i Franzesi, e dell'avversione agli Spagnuoli, fecion sì, che Cesare lo cassasse dal numero de' suoi Consiglieri. Ed oltre a ciò, avendo l'istesso Pontefice Paolo III, a preghiere del Cardinale, conceduto il Priorato Gerosolimitano di Napoli a Carlo Caraffa suo nipote, gli fu dal Toledo, allora Vicerè, proibito poterne prendere il possesso.
Ma essendo nell'anno 1549 per la resignazione fatta da Ranuccio Farnese, vacata la Chiesa di Napoli, Paolo III tosto la concedè al Cardinale, il quale avendosi fatte spedir le Bolle, si credette di doverne tosto esser posto in possesso; il Vicerè Toledo negò alle Bulle l'Exequatur Regium, e non volle mai permettere, che se gli si fosse dato; ed essendosene pochi giorni da poi morto il Pontefice Paolo, e rifatto in suo luogo, a' 8 febbrajo del nuovo anno 1550, Giulio III, questi scrisse una ben calda e pressante lettera all'Imperador Carlo V, pregandolo a non far differire più la possessione al Cardinal Caraffa della Chiesa di Napoli: esagera fra l'altre cose in questa lettera, che si legge presso il Chioccarello118, che fu tutta calunnia ed impostura, ciò che di lui s'era falsamente divolgato d'aver pensato in proximo Neapolitano tumultu, illud tuum Regnum nostro praedecessori tradere: nec vero nos (e' testifica) quid tale de hoc viro andivimus, etc. Nec is tantum rem moliri; tantos motus concire, pertenuibus ipse facultatibus, ausus esset. Lo pregava perciò a non fargli impedire il possesso, e gli mandò a questo fine un Nunzio a trattar di questo affare.
L'Imperadore, che col nuovo Pontefice non avea quell'inimicizia, che passava col suo predecessore, diede orecchio alle preghiere di Giulio; ed avendo fatto mettere in trattato questo affare, non meno in Roma, che in Ispagna ed in Napoli, dopo lungo pensare provando il Cardinale, quanto fosse tediosa la solita tardità degli Spagnuoli, finalmente ottenne alle sue Bolle l'Exequatur Regium, e venne ordine da Cesare, che se gli fosse dato il possesso.
Ma il Cardinale conoscendo, che venendo a Napoli, gli Spagnuoli non gli avrebbero data molta soddisfazione, mandò a prendere possesso il Vescovo Amicleo, che fece suo Proccuratore, il quale lo prese a' 2 luglio del 1551, e lo creò anche suo Vicario. Resse in questa maniera la Chiesa di Napoli per quattro anni per mezzo di questo Vicario, nè mai volle egli venire a risedere. Di che accortisi gli Spagnuoli, non lasciarono al suo Vicario di contrastargli spesso, e movergli sovente quistioni di giurisdizione, tenendolo sempre agitato ed inquieto.
Essendo a Giulio III succeduto Marcello II, che poco tempo tenne quella Sede, costui morto, venne il Caraffa a' 23 maggio del 1555 assunto al Pontificato col nome di Paolo IV. Fu maravigliosa cosa ad udire, come appena giunto a quella dignità, quella severità de' costumi la cangiasse tosto in superbia ed alterigia; e dimandato, come restava d'esser servito intorno al modo di vivere egli co' suoi nipoti, rispose, come conviene ad un Principe119. Gli Spagnuoli rimasero mal soddisfatti dell'elezione; onde il Re Filippo reputò far trattenere il Cardinal Pacecco in Roma, non permettendogli, che tornasse al suo governo di Napoli, affinchè colla sua prudenza ad accortezza proccurasse, o di raddolcire l'animo del nuovo Papa, ovvero scorgendo più da presso i suoi andamenti, farlo avvertito di ciò, che si meditava, per prevenirsi, in caso d'insulto, alla difesa.
Ma non passò molto tempo, che si scovrì l'animo del nuovo Pontefice essere tutto rivolto a vendicarsi degli Spagnuoli, ed a meditar nuove leghe con Errico Re di Francia per l'impresa del Regno, di che avvisato il Re Filippo, opportunamente mandò al governo di Napoli D. Ferdinando Alvarez di Toledo Duca di Alba, che allora essendo Governatore di Milano, avea il comando supremo delle armi spagnuole in Italia: quel famoso Capitano, che per le tante sue famose gesta si rese glorioso non meno in Germania ed Italia, che in Fiandra ed in Portogallo.
Il Duca d'Alba giunto in Napoli in qualità di Vicerè nella fine di quest'anno 1555, si pose ad osservar più da presso gli andamenti del Pontefice; il quale non meno per ingrandire i suoi nipoti; che per maggiormente premunirsi all'impresa, che meditava sopra il Regno di Napoli, avea, con pretesto che teneva pratiche segrete con gli Spagnuoli, tolto a Marcantonio Colonna lo Stato di Palliano in Campagna di Roma, concedendone l'investitura a Giovanni Caraffa Conte di Montorio suo nipote, con titolo di Duca di Palliano, e ciò quasi nel medesimo tempo, che avea investito Antonio Caraffa altro suo nipote del Contado di Bagno, e datogli titolo di Marchese di Montebello; ed a Carlo Caraffa, altro suo nipote, di Cavaliere Gerosolimitano creatolo Cardinale. Abbassava tutti coloro, ch'erano dipendenti di Spagna, ed esaltava quegli di contraria fazione; anzi accarezzava tutti i fuorusciti del Regno, e mal contenti del Re, che si ricovrarono da lui in Roma; siccome infra gli altri accolse Bartolommeo Camerario nostro famoso Giureconsulto. E passò tanto innanzi, ch'essendo state intercettate alcune lettere, fece carcerare e crudelmente tormentare Giovanni Antonio de Tassis Maestro delle Poste, privandolo di quell'Ufficio, che i Re di Spagna erano stati sempre soliti mantenere in Roma: ed oltre a ciò, fece carcerare Garcilasso della Vega Ambasciadore di Filippo, come Re d'Inghilterra, in Roma, siccome faceva vegghiare addosso a tutti gli amici e servidori del Re e de' suoi ministri, ch'erano in Roma.
E fu cotanta la sua imprudenza, che mal sapendo covrire il suo astio e mal talento contra il Re, e contra gli Spagnuoli, pubblicamente minacciava, che l'avrebbe privato del Regno, come decaduto alla S. Sede. Era Paolo IV secondo ciò, che ne scrisse anche Bacon di Verulamio,120 un uomo superbo ed imperioso, e di natura aspro e severo, e perciò frequentissimamente passava a parole piene di vituperio contra il Re e l'Imperadore, in presenza d'ogni sorta di persona, e ritrovandosi alcun Cardinal spagnuolo presente, le diceva più volentieri, comandando anche, che gli fossero scritte. Ed un dì in pubblico Concistoro fece far istanza dal suo Proccurator Fiscale, e da Silvestro Aldobrandino Avvocato Concistoriale, dimandando doversi il Regno dichiarar devoluto alla S. Sede: alla quale istanza egli rispose, che a suo tempo vi avrebbe data provvidenza121. Ciò che il Duca d'Alba, come d'un temerario attentato non lasciò di rinfacciarglielo in quella lettera122, che gli scrisse, dicendo: Ha permettido V. S., que en su presencia el Procurador, j Abocado Fiscal de essa Santa Sede hà hecho en Concistorio tan injusta, iniqua, y temeraria instancia, y domanda: que al Rey mi Senor fuesse quitado el Reyno, accettando, y consentiendo a quella F. S. con dezir, proveheria à su tiempo. Ma questo fatto non si rimase nella sola istanza del Fiscale, poichè si procedè più innanzi con farsene processo, e si venne insino alla sentenza.
Il Presidente Tuano123, ed il Soave rapportano, che la cagione, onde si mosse il Papa a dichiarar devoluto il Regno fosse, perchè Filippo avea, secondo lui, commesso delitto di Maestà lesa, per aver favoriti e ricevuti sotto la sua protezione li Colonnesi di lui ribelli. Ma il pretesto, che si fece apparire, e sopra il quale appoggiossi la sentenza, fu per cagione di censi non pagati. Il Re Filippo, prima che fossegli giunta la notizia dell'elezione del Papa in persona del Cardinal Caraffa, avea scritta una lettera a' 25 giugno del 1555 al suo Ambasciatore di Roma, nella quale gl'incaricava di dover trattare col Papa che sarà eletto, di dovergli rimettere i censi de' ducati settemila l'anno pretesi dalla Sede Appostolica; poichè nel Concordato fatto tra Clemente VII coll'Imperador Carlo V suo padre, fra l'altre cose fu pattuito, che facendo l'Imperadore restituire alla Sede Appostolica dalli Vineziani, e dal Duca di Ferrara alcune città e Terre, che tenevano occupate, delle quali la Sede Appostolica n'era stata spogliata, non dovesse più egli, nè i suoi successori pagare il suddetto censo di ducati settemila l'anno; ma solo consignare alla Camera Appostolica ogni anno un'Achinea bianca in segno di ricognizione; e già che l'Imperadore avea adempito alle sue promesse, e fatto rilasciare da' Vineziani e dal Duca di Ferrara quelle città e Terre, ch'erano della Sede Appostolica, se gli dovea osservare detta promessa, e rimettere il censo; incaricandogli di vantaggio, che non essendo ancora eletto il nuovo Papa, e durando la Sede vacante, facesse deposito del censo di quell'anno, già che si accostava il tempo del pagamento, con protesta di doversegli restituire, per non essere tenuto124.
Qualunque altro de' Cardinali, che fosse stato eletto Papa, avrebbe riputata la dimanda ragionevole; ma a Paolo IV questa pretensione di Filippo servì opportunamente per pretesto di quel, che intendeva di fare: poichè rifiutandola come ingiusta, non solo pretese i censi decorsi, non ostante il Concordato di Clemente VII, ma quelli non essendosi, contra il suo volere, pagati, fece far la riferita istanza dal suo Fiscale, per dichiararsi Filippo per ciò decaduto dal Regno; e fabbricatosi il processo, promulgò egli sentenza nel nuovo anno 1556, colla quale dichiarò il Regno di Napoli devoluto alla S. Chiesa Romana, per non essersi per molti anni pagati i censi suddetti, e ne fu stesa Bolla125. Non fu però la sentenza pubblicata, nè mai uscì fuori, poichè, come vedremo, il Duca d'Alba strinse colle armi sì bene il Papa, che ebbe a gran favore, colla mediazione de' Vineziani, di deporre la sua boria, e starsi in pace. Alessandro d'Andrea126 rapporta, che quella non fu pubblicata per consiglio di Bartolommeo Camerario da Benevento, il quale, come si è detto, esule dal Regno, dimorava allora in Roma protetto dal Papa.
Ma da alcune lettere intercette si scoverse, onde veniva tanta boria e fasto del Papa, che parlava non meno di quello si operasse con tanta pubblicità, ed alla svelata contra il Re e contra il Regno, con animo aperto d'invaderlo. Si scoverse in fine il trattato e la lega ch'egli per mezzo de' Cardinali di Tournon e di Lorena avea fatta col Re di Francia d'assaltare il Regno; anzi si pubblicò allora, che avendovi avuto in ciò anche parte il Principe di Salerno, che da Costantinopoli erasi ritirato in Francia, il Papa, per mezzo del Re Errico, e del Principe, avesse anche fatta lega col Turco, affinchè assaltando costui, o almen travagliando il Regno per via di mare, se gli rendesse più facile l'impresa e la conquista per terra. Fu fama ancora, che per maggiormente ingrandire i suoi nipoti, avesse concertato col Re di Francia di dar Maria sua nipote sorella del Cardinale e del Duca per isposa ad un suo figliuolo, colui che dovea investirsi del Regno, secondo le capitolazioni, che si diranno; e l'investitura fosse come per dote della medesima, e si credette allora, che il matrimonio avrebbe effetto, se le cose della guerra di Napoli gli fossero riuscite prospere; e se Maria, che non era più che di nove anni, non fosse troppo intempestivamente morta.
I Capitoli della lega conchiusa in Roma a' 15 dicembre del 1555, rapportati dal Summonte127, furono infra gli altri questi.
Che il Re Cristianissimo fosse obbligato difendere con tutte le sue forze la Santità di Papa Paolo IV contra qualsivoglia persona, che lo volesse offendere, e, quando ciò avvenisse, di calare egli, o mandare eserciti in Italia per sua difesa.
Che pigliasse perpetua protezione del Cardinal Caraffa, del Conte di Montorio, e D. Antonio Caraffa suoi nipoti, e loro descendenti; e rimunerasse, e ricompensassegli de' Titoli e beni, che potessero perdere, per conto di questa lega, nel Regno, dando loro altri Titoli e beni in Italia, o in Francia, convenienti alla loro nobiltà ed alla real sua magnanimità.
Che il Re facesse passar in Italia diece a dodicimila fanti forastieri, più o meno, secondo che di comun avviso sarebbe giudicato neccessario, e cinquecento lanze franzesi, e cinquecento cavalli leggieri.
All'incontro che il Papa desse dello Stato della Chiesa, o di altri diecimila fanti più, o meno, secondo che sarà giudicato espediente, co lor Capitani e Generali, e mille cavalli.
Che desse il passo, vettovaglie, artiglierie e munizioni ed altre comodità, che aver si potranno nello Stato della Chiesa, all'esercito della lega per loro denari.
Che la guerra si cominci nel Regno o in Toscana, come sarà più espediente al ben comune.
Che acquistandosi il Regno di Napoli e di Sicilia, il Papa abbia da investirne uno de' Serenissimi figliuoli di S. M. Cristianissima, purchè non sia il Delfino, quando e quante volte ne sarà richiesto dal Re Errico, riserbandosi la città di Benevento e suo Territorio e Giurisdizione; e con condizione ancora, che i confini dello Stato della Chiesa s'abbiano da dilatare e stendere di qua all'Appennino, insino a S. Germano inclusive, ed al Garigliano; e di là dell'Appennino, sino al fiume di Pescara, talmente che tutta quella Terra, ch'è di dentro a predetti confini della Provincia d'Apruzzo, o sia chiamata di qualunque altro nome, o reputata di qualunque altra Provincia fin a Pescara, e nella Provincia di Terra di Lavoro sino a S. Germano inclusive, ed al fiume Garigliano, s'intenda essere, e sia della Giurisdizione della Chiesa; ed i confini del Regno si termineranno con essi fiumi, e con retta linea, dividendo parimente il Monte Appennino da S. Germano al nascimento del fiume di Pescara, ne' quali confini è compresa la Città, Fortezza e Porto di Gaeta, la qual sia della Chiesa, come l'altre Terre e luoghi contenuti fra' sopradetti termini.
Che s'accresca il censo a ventimila ducati di oro di Camera, oltre alla solita Achinea.
Che la Sede Appostolica abbia nel Regno uno Stato libero di rendita circa scudi venticinquemila d'oro, ed in luogo conveniente da eleggersi per Sua Santità.
Che si dia all'Illustrissimo Signor Conte di Montorio uno Stato similmente con condizione libera, et pieno jure, e che sia a soddisfazione di Sua Santità, e che renda venticinquemila scudi d'entrata, e sia suo e di suoi eredi, quali e quanti ne vorrà lasciare ed istituire, maschi o femmine, e ne possa far testamento pleno iure, e donarlo e venderlo come più gli piacerà, e morendo ab intestato s'intenda, che gli eredi più prossimi succedano.
Che similmente al Signor D. Antonio Caraffa si dia un altro Stato simile, o almeno di quindicimila scudi d'entrata.
Che il Re debbia mandare questo suo figliuolo, per investirlo del Regno quanto prima si potrà, ad abitare, ed allevarsi in alcun de' predetti Regni, i quali abbiano da esser governati ed amministrati a suo nome. Il Consiglio, quanto all'amministrazione e governo dello Stato, debba comporsi di Consiglieri fedeli e devoti del Papa e della S. Sede; e siano eletti o deputati di comune consenso, fin che il predetto Re pervenga nell'età che da se stesso possa reggere e governare detti Regni: gli altri Governadori, quanto alla cura della sua persona, debbano deputarsi ed eleggersi dal Re Cristianissimo, e li Capitani Generali dell'esercito debbano esser benevoli e devoti del Papa e della S. Sede, ed eletti di comun consenso.
Che 'l Serenissimo Principe da investirsi, suoi eredi e successori, non possa essere eletto, o nominato Re o Imperadore de' Romani o Re di Germania o di Francia o Signor di Lombardia o di Toscana.
Che sin a tanto, che colui, il quale dee essere investito, non giunga a questi Regni, siano quelli governati ed amministrati di comun consenso, e secondo la volontà del Papa e del Re, da uno o da più: dei quali l'uno e l'altro di loro si confidino, a nome però del detto Principe, e quegli, nel quale saranno convenuti o prete, o secolare, sia Vicereggente, come Legato o come Governadore di Sua Santità e del Re Cristianissimo, e debba prestare il giuramento all'uno ed all'altro di bene e fedelmente amministrare secondo la volontà d'amendue.
Che non essendo esso Serenissimo figliuolo, che dovrà investirsi, di tal età, che possa prestare il giuramento ed omaggio al Papa, ed alla S. Sede, debba il Re come padre e tutore, per lui prestarlo, quando gli sarà data l'investitura di detti Regni; il qual giuramento sia giusta la forma degli altri giuramenti, che per altri Re si sono prestati a Pontefici passati, ed alla Sede Appostolica, spezialmente a Papa Giulio III, alla qual forma s'aggiunga, e si muti tutto quello, che per li presenti articoli si trova aggiunto e mutato.
Che in ricognizione di questa prima investitura, che dovrà ricevere, debba edificare nella Chiesa di S. Pietro in Roma una delle maggiori Cappelle; e quando esso Re sarà pervenuto all'età legittima, sia tenuto esso medesimo prestare il ligio omaggio al Papa e suo successore.
In fine, che sia obbligato l'investiendo lasciar cavare dal Regno di Sicilia ultra Pharum diecimila tomoli di grani, ogni qual volta che la città di Roma n'avrà bisogno, senza pagamento alcuno di tratta o d'altra gravezza.
Queste Capitolazioni, così ben ideate dal Papa, lo facevano parlar con tanta fidanza e disprezzo; ed intanto non perdeva tempo di premunirsi in ogni cosa, ciò che maggiormente insospettì il Duca d'Alba, poichè alla scoperta il Cardinal Caraffa col Duca suo fratello erano tutti intesi a fortificar Palliano, e v'aveano condotto Pietro Strozzi Capitano del Re di Francia, che trovavasi in Roma, per prendere il suo parere sopra le fortificazioni da farvi; e tuttavia pervenivan a Napoli novelle delle commessioni date fuori dal Papa per assoldar gente. Avea anche chiamato al suo soldo Camillo Orsini, Capitano sperimentato di que' tempi, e mandato Paolo suo figliuolo con mille fanti in Perugia, oltre a mille e duecento fanti Guasconi del presidio di Corsica, che gli si mandavano dal Re di Francia in ajuto: si travagliava anche in far bastioni, e faceva fare a molte altre Piazze dello Stato della Chiesa nuove fortificazioni.
Il Duca d'Alba, seriamente a tutto ciò pensando, si risolvè alla fine, da ben esperto Capitano, di prevenirlo, e per più sicuramente difendere il Regno attaccar lo Stato Ecclesiastico, con trasferir ivi la sede della guerra. Non tralasciava intanto con messi e con lettere scritte al Duca di Palliano, lamentarsi del Papa suo zio di queste novità, offerendogli pace; ma in vece di risposta, si videro assai più continuare i preparamenti di guerra, e s'intese ancora la partenza del Cardinal Caraffa per Francia, per sollecitare quel Re all'impresa.
Allora questo valoroso e savio Capitano, non volendo aspettare, che il turbine cadesse in casa propria, dando minuto ragguaglio al Re Filippo in Ispagna dell'imminente guerra, che il Papa per occupargli il Regno preparava, unì, come potè meglio, dodicimila fanti, trecento uomini d'armi e millecinquecento cavalli leggieri, con dodici pezzi d'artiglieria, e si mosse nel primo del mese di settembre di quest'anno 1556 verso lo Stato della Chiesa, e giunto a S. Germano, occupò Pontecorvo128. Prima di passar avanti volle tentar di nuovo l'animo del Pontefice, e mandò in Roma Pirro Loffredo con lettere129 drizzate a lui, ed al Collegio de' Cardinali, dove offerendogli pace, altamente si protestava, che tutto il danno, che ne riceverebbe la Cristianità, s'imputerebbe alla sua coscienza.
Ma il Papa tutto alieno dalla concordia, fidato ai trattati con Francia, più altiero che mai disprezzò le lettere; onde il Duca proseguendo le sue conquiste occupò Frosolone, Veruli, Bauco, ed altre Terre di que' contorni. Il Papa maggiormente sdegnato fece imprigionare nel Castello S. Angelo Pirro Loffredo, e se il Collegio de' Cardinali non l'avesse impedito, l'avrebbe fatto crudelmente morire; ed il Duca intanto seguitando il suo cammino, s'impadronì dell'importante città d'Anagni, di Tivoli, di Vicovaro, di Ponte Lucano, e di quasi tutte le Terre de' Colonnesi sino a Marino, e minacciava d'assediare Velletri, facendo far scorrerie dalle sue truppe insino alle Porte di Roma.
Questo Capitano ci lasciò un gran documento ed illustre esempio, come debba guerreggiarsi col Pontefice romano, qualora le congiunture portassero, per difendere il Regno di dovere assalirlo in casa propria. Egli, oltre i tanti rispettevoli ufficj passati prima col Pontefice, occupando le città e Terre dello Stato della Chiesa, acciocchè non gli si potesse imputare, che si facessero quelli acquisti per spogliare la Chiesa, faceva dipignere nelle Porte de' luoghi, che andava di mano in mano occupando, le armi del Sacro Collegio, con protestazione di tenergli in suo nome, e del Papa futuro, come s'era fatto a Pontecorvo, a Terracina, a Piperno ed a gli altri luoghi, che s'erano resi: se bene, come dice Alessandro d'Andrea130, non mancò chi dubitasse non questa fosse una arte, con la quale proccurasse il Duca d'indurre a sospetto ed a discordia il Collegio col Papa.