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CAPITOLO VIII
Contese per li Cavalieri di S. Lazaro
Parve veramente destinato il Duca d'Alcalà dal Cielo per resistere a tante intraprese della Corte di Roma, che mosse sotto il Pontificato di Pio V. Una assai nuova, e stravagante saremo ora a raccontarne: e poichè il soggetto ha in se qualche dignità, non ci rincresce di pigliarla un poco più dall'alto, manifestando la instituzione ed origine di questi Cavalieri; e quali disordini apportassero nel Regno.
Questi Cavalieri vantano un'origine molto antica, e la riportano intorno all'anno 363 sotto l'Imperador Giuliano, ne' tempi di Basilio Magno, e di Damaso I. R. P. Confermano questa loro antichità da tanti Ospedali, che sotto il nome di S. Lazaro, l'Istoria porta, essere stati in que' primi tempi costrutti per tutto l'Orbe Cristiano, e sopra ogni altro in Gerusalemme, e nelle altre parti di Oriente293. Ma questa prima instituzione, per l'incursione de' Barbari e per l'ingiuria de' tempi, venne quasi a mancare, infino che Onorio III ed Innocenzio III non la ristabilissero, e ne prendessero protezione, intorno all'anno 1200. Da poi Gregorio IX ed Innocenzio IV concedettero loro molti privilegj, e prescrissero al loro Ordine una nuova forma, con facoltà di poter creare un Maestro. Alessandro IV con grande liberalità confermogli i privilegj, e quanto da' suoi antecessori era stato lor conceduto.
I Principi del secolo, tirati dall'esempio de' Pontefici, e dal pietoso loro istituto, consimile a quello degli antichi Ebrei (di cui Fleury294 ce ne rende testimonianza) dell'Ospedalità, e di curare gl'impiagati, e specialmente coloro, ch'erano infettati di lebbra, gli cumularono di beni temporali. I primi furono i Principi della Casa di Svevia, e fra gli altri Federico, il quale concedè loro molte possessioni in Calabria, nella Puglia ed in Sicilia295. I Pontefici romani, ed in fra gli altri Niccolò III, Clemente IV, Giovanni XXII, Gregorio X e poi Urbano VI, Paolo II e Lione X favorirono gli acquisti, e con permetter loro di potergli ritenere, sempre più avanzando, divennero molto ricchi. Ma loro avvenne ciò, che l'esperienza ha sempre in casi simili mostrato, che per le soverchie ricchezze, per li favori soverchi dei Principi e per li tanti privilegj de' Romani Pontefici, venisse a mancare la buona disciplina e l'antica pietà; ed all'incontro a decadere di riputazione e stima presso i Fedeli. I Pontefici, infra gli altri privilegj, avean lor conceduto, che le robe rimase per morte dei lebbrosi, o dentro, o fuori degli Ospedali, s'appartenessero ad essi; parimente, che potessero costringere i lebbrosi a ridursi negli Ospedali, ancorchè repugnassero. I Principi davano mano e facevano eseguire nei loro Dominj queste concessioni: onde anche fra Noi leggiamo296, che il nostro Re Roberto a' 20 aprile 1311 scrisse a tutti i suoi Ufficiali di questo Regno, avvisandogli, come i Frati Religiosi dell'Ospedale di S Lazaro di Gerusalemme gli aveano esposto, ch'essi in vigor de' Privilegi lor conceduti da' Sommi Pontefici aveano autorità di constringere que' che sono infetti di lebbra, dovunque accadesse trovargli, di ridurgli e restringerli negli Ospedali deputati all'abitazione di tali infermi, anche con violenza bisognando, separandogli dall'abitazione de' sani e dando loro gli alimenti necessarj; e poichè alcuni di questi infermi ricusavano venire a detti Ospedali, ajutati spesso da loro parenti potenti, perciò il Re ordina a' suddetti suoi ufficiali, che prestino ogni favore, acciò possano ridurre detti lebbrosi in dette case, con costringergli ancora e pigliargli personalmente. E sotto 'l Regno dell'Imperadore Carlo V pur leggiamo, che Andrea Caraffa Conte di S. Severina, Vicerè di questo Regno a petizione di Alfonso d'Azzia Maestro di S. Lazaro, a' 18 decembre del 1525, ordinò a tutti gli Ufficiali del Regno, che facessero giustizia ad un Vicario del suddetto Alfonso, che avea da andare a ricuperare molte robe per lo Regno di persone infette di lebbra, decadute per la lor morte alla Religione, in vigor dei privilegj e Bolle de' Sommi Pontefici.
Questi modi indiscreti, usati sovente per uccellare le robe di que' miserabili, in decorso di tempo gli fecero cadere dalla stima, e a poco a poco vennero in tanta declinazione, che appena erane rimaso il nome. Ma assunto al Pontificato Pio IV, costui gli rialzò ed a somiglianza degli altri Religiosi Cavalieri gli ornò di molti, ed ampi privilegj, ed immunità, restituendogli nell'antica dignità e per G. Maestro dell'Ordine creò Giannotto Castiglione. Pio V parimente gli onorò e favorì, tanto che in questi tempi presso di noi nel Viceregnato del Duca d'Alcalà s'erano molto rialzati, ed in sommo pregio avuti.
Ma che i Pontefici Romani con tanti onori e prerogative avessero voluto innalzargli senza altrui pregiudizio, era comportabile, ma che ciò avesse da ridondare in pregiudizio de' Principi, ne' cui Stati essi dimoravano, non era da sopportare. Essi ancorchè laici ed ammogliati, in vigor di queste papali esenzioni e privilegi pretendevano, così in riguardo delle loro persone, come de' loro beni, essere esenti dalla regal giurisdizione, non star sottoposti a' pagamenti ordinarj, ed estraordinarj del Re; e quel ch'era appo noi insoffribile, il lor numero cresceva in immenso, perchè erano creati Cavalieri, non pur dal G. Maestro, ma anche dal Nunzio del Papa residente in Napoli, ciò che abbonandosegli, avrebbe recato grandissimo detrimento e pregiudizio alle regali preminenze.
Perciò il Duca d'Alcalà non fece valere nel Regno que' lor vantati privilegj, ed ordinò, che fossero trattati in tutto, come veri laici, ed a' 15 maggio del 1566 ne fece una piena Consulta al Re Filippo, nella quale l'avvisava, come il Nunzio di Napoli avea fatta una gran quantità di Cavalieri di S. Lazaro, ed ogni dì ne creava de' nuovi e questo lo faceva per esimergli dalla giurisdizione di Sua Maestà, e suoi Tribunali, pretendendogli esenti, ancorchè fossero meri laici, e che possono pigliar moglie e far quel che loro piace; e quando si volessero osservare i privilegi dell'esenzione, che pretendono, multiplicando in infinito il lor numero, gran parte del Regno verrebbe a sottrarsi dalla real giurisdizione; onde avendo il Nunzio richiesto l'Avvocato Fiscale, che gli desse il braccio per far imprigionare uno di questi Cavalieri e lo facesse tenere in suo nome, il Fiscale ricusò farlo, con dirgli, che nè il Nunzio nè il G. Maestro avea potestà, nè giurisdizione sopra detti Cavalieri per essere laici, sottoposti alla giurisdizione di Sua Maestà; ed avendo il Nunzio mandato il suo Auditore in casa del Fiscale a mostrargli i privilegi conceduti da' Pontefici Romani a detta Religione, gli fu risposto, che di quelli, non poteva tenerne conto alcuno, così per mancar loro il Regio Exequatur, come ancora per essere pregiudizialissimi alla giurisdizione regale; ma l'Auditore vedendosi convinto, non seppe far altro, che presentargli la Bolla in Coena Domini, avvertendolo, che come Cristiano volesse mirare di far osservare quel che Sua Santità avea conceduto al detto G. Maestro, altrimente sarebbe scomunicato. Avvertiva perciò il Duca in questa Consulta a Sua Maestà, che l'eseguire nel Regno quelli privilegi conceduti a detto G. Maestro, oltre d'indebolirsi la sua regal giurisdizione, sarebbe stato di gran detrimento per li pagamenti ordinari ed estraordinarj, a' quali i suoi sudditi erano obbligati.
Il Re rescrisse al Duca sotto il 12 luglio del medesimo anno, ordinando; che non s'introducesse nel Regno la Religione di S. Lazaro, anzi si levasse, ed annullasse ciò, che si era introdotto, ordinando, che niuno portasse l'abito di quella297.
Parimente i Reggenti di Collaterale, per ordine del Duca, a' 13 agosto del medesimo anno fecero una piena relazione, nella quale fra l'altre cose dicevano, che il creare e dar l'abito a questi Cavalieri, per lo tempo passato l'avea sempre fatto il G. Maestro, e non il Nunzio, e mai li Maestri han tenuta giurisdizione alcuna, eccetto che di cacciare e segregare li lebbrosi dal commercio de' sani: e che i privilegi pretesi da detta Religione erano pregiudizialissimi alla giurisdizione di Sua Maestà e sono stati nuovamente conceduti da Pontefici Pio IV e Pio V i quali mai furono ricevuti nel Regno, nè a quelli dato Exequatur, anzi sempre si è loro negato, come a' presente si nega. E contra detti Cavalieri si è proceduto e procede tanto in cause civili, quanto criminali per li Tribunali Regj, come se fossero meri laici: ed essendo stati carcerati alcuni di quelli in Vicaria, ancorchè si sia dimandata la rimissione al loro G. Maestro, o al di lui Vicario, non se gli è dato mai orecchio, ma ordinato, che la causa resti; ed alcuni sono stati anche condennati ad esilio. Anzi quando i G. Maestri hanno pretesa ragione sopra i beni de' Lazarati, si è commesso agli Ufficiali Regj, che loro ministrassero giustizia: e pretendendo uno di Castellamare, ch'era dell'abito di S. Lazaro, essere esente dalli pagamenti Fiscali, dal Tribunale della Regia Camera fu condennato a pagare come tutti gli altri Cittadini, per non godere esenzione alcuna.
Vedendo la Corte di Roma, che il Duca niente faceva valere questi privilegj, tentò a dirittura il Re Filippo, con offerirgli in perpetua amministrazione l'Ordine suddetto ne' suoi Regni; ma il Re scrisse al Duca, che per quel che tocca alla renunzia, che si offeriva fare in persona sua, acciò sia perpetuo Amministratore di quell'Ordine, eragli paruto di non convenire accettarla, onde che non ne facesse più parlare. Mitigarono nondimeno l'animo del Re, che siccome prima avea ordinato, che si levasse tal Ordine dal Regno permise da poi, che vi restasse, ma che i Cavalieri di quello si riputassero come meri laici. Così egli nel 1579 volle star inteso dello stato di detto Ordine; onde dalla Regia Camera, per ordine del Marchese di Montejar allora Vicerè, fu fatta relazione di tutte le Commende, che teneva nel Regno, e di che rendite erano, riferendogli parimente, che questi Cavalieri non godevano nè immunità, nè franchigia alcuna.
Ma come poi il Duca di Savoja ne fosse stato di quest'Ordine creato G. Maestro, siccome è al presente, è bene che si narri. Morto che fu in Vercelli nel 1562 Giannotto Castiglione, sedendo da poi nella Cattedra di Roma Gregorio XIII, questi per maggiormente illustrarlo, creò perpetuo G. Maestro di quello Emmanuele Filiberto Duca di Savoja298, il quale nell'anno seguente, avendo tenuto a Nizza un'assemblea di Cavalieri, si fece da quelli dare solenne giuramento, con farsi riconoscere per loro Gran Maestro, e nuove leggi e riti per maggiormente decorarlo prescrisse loro; ed avendone ottenuta conferma dal Papa, unì, e confuse in uno l'Ordine di S. Maurizio (da chi i Duchi di Savoja vantano tirar l'origine299) con questo altro di S. Lazaro, li quali prima erano Ordini distinti, ed assignò loro due Ospizj, uno a Nizza, l'altro a Torino. Quindi è, che questi Cavalieri si chiamino de' Santi Maurizio e Lazaro, e quindi avvenne ancora, che questi Cavalieri e le Commende, che abbiamo ancora nel Regno si creino e concedano dal Duca di Savoja; onde leggiamo, ch'essendosi spedito un monitorio dalla Camera Appostolica, in nome del Duca di Savoja, Gran Maestro della Religione de' Santi Maurizio e Lazaro, a tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Prelati ed altre persone Ecclesiastiche, che dovessero ubbidire, ed osservare i Privilegi conceduti alla suddetta Religione per Brevi Appostolici, fu quello presentato in Collaterale dal Commendator Maggiore Giovan Francesco Reviglione nel 1608 per ottenerne il Regio Exequatur; ma esaminato dal Cappellan Maggiore, da costui si fece relazione al Vicerè, che potea quello concedersi a riguardo delle persone Ecclesiastiche solamente300.
In Francia quest'Ordine ebbe pure fortuna: fu quello, siccome in tutti gli altri Regni d'Europa, distinto da quello di San-Giovanni Gerosolimitano; ma poi i Cavalieri di quest'Ordine, come loro emoli proccurarono d'estinguerlo, siccome finalmente l'ottennero da Innocenzio VIII, il quale nell'anno 1490 con suo diploma l'estinse e lo confuse col Gerosolimitano. Tennero i Cavalieri di S. Giovanni per molto tempo nascosto questo diploma; ma quando pervenne alla notizia de' Cavalieri di S. Lazaro, ne fu del diploma, come abusivo portata appellazione al Senato di Parigi l'anno 1544. Fu la causa quivi dibattuta e fu pronunziato a favore degli appellanti; ed essendo stato rivocato il diploma pontificio, fu interposto decreto che per l'avvenire gli Ordini de' Joannitii e Lazarini fossero distinti e separati. Da quel tempo (poichè non potevano farlo apertamente) con astuzia e vafrizie proccuravano i Cavalieri di S. Giovanni, che l'Ordine di S. Lazaro a poco a poco si abolisse, proccurando, che il Gran Maestrato di questo fosse appresso di loro, siccome fuvvi insino ad Emaro Casto, il quale per la sua fede e virtù, se ben fosse egli Joannita, restituì quest'Ordine, e lo pose nell'antico splendore301. Quindi avvenne, che i Cavalieri di S. Giovanni aspirassero sempre a soprantendere a quelli di S. Lazaro: e quindi veggiamo ancora in Napoli nella Chiesa di S. Giovanni a Mare, Commenda della Religione di Malta, eretta una Cappella di S. Lazaro, pretesa per ciò ad essi subordinata e soggetta.
CAPITOLO IX
Contese insorte per li Testamenti pretesi farsi da' Vescovi a coloro, che muojono senza ordinargli; ed intorno all'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria
Quest'abuso ancora ebbe a combattere il nostro Duca d'Alcalà, che ne' suoi tempi erasi reso purtroppo insolente ed insoffribile. Ebbe principio, come fu da noi accennato ne' precedenti libri di quest'Istoria, ne' tempi dell'ignoranza, o per dir meglio della trascuraggine de' Principi e de' loro Ufficiali: nacque quando gli Ecclesiastici senza trovar chi lor resistesse, sostenevano, che ogni cosa, dove si trattasse di salvezza dell'anima, fosse di loro giurisdizione: per somigliante ragione mantenevano, che la conoscenza de' testamenti, essendo una materia di coscienza, loro s'appartenesse, dicendo medesimamente, ch'essi erano li naturali esecutori di quelli. Non s'arrossivano ancora di dire, che il corpo del defunto testatore, essendo lasciato alla Chiesa per la sepoltura, la Chiesa ancora s'era impadronita de' suoi mobili per quietare la sua coscienza, ed eseguire il suo testamento.
Ed in fatti in Inghilterra, il Vescovo o altro proposto da sua parte, s'impadroniva de' mobili di quello ch'era morto intestato, e gli conservava per 7 anni, nel qual termine potevano gli eredi, componendosi con lui, ripigliarseli. E Carlo di Loysò302 rapporta, che anticamente in Francia gli Ecclesiastici non volevano seppellire i morti, se non si metteva tra le lor mani il testamento, o in mancanza del testamento non s'otteneva comando speziale del Vescovo; tanto che gli eredi per salvare l'onore del defunto morto senza testare, dimandavano permissione di testare per lui ad pias causas; e di vantaggio vi erano Ecclesiastici, li quali costringevano gli eredi dell'intestato di convenire a prender uomini per arbitri, come il defunto, e che quantità avesse dovuto legare alla Chiesa; ma regolarmente quest'arbitrio se lo presero i Vescovi, i quali s'arrogavano questa autorità di disporre ad pias causas per coloro, che morivano senza testamento. Per questa intrapresa degli Ecclesiastici, fin a' nostri tempi è rimasto il costume, che i Curati ed i Vicari siano capaci di ricevere li testamenti come i Notari. Era per ciò rimaso in alcune Diocesi del nostro Regno che i Vescovi per antica consuetudine potessero disporre per l'anima del defunto intestato; e la pretensione erasi avanzata cotanto, che lusingavansi poter disporre delle robe di quello con applicarle eziandio a loro medesimi; ed in alcune parti del Regno i Prelati anche indistintamente pretesero d'applicarsi in beneficio loro la quarta parte de' mobili del defunto. Il Cardinal di Luca303 condanna gli eccessi e gli reputa abusivi, e vorrebbe riforma e moderazione secondo l'arbitrio di un uomo prudente. Parimente in Roma, le Congregazioni de Cardinali del Concilio e de' Vescovi, per render plausibile il costume, lo moderano e restringono a certe leggi; ma non assolutamente lo condannano. Così ancora Mario Caraffa Arcivescovo di Napoli, avendo nell'anno 1567 tenuto quivi un Concilio Provinciale, dichiarò in quello esser ciò un condannabile abuso, ma moderò la condanna con dire, che dove era tal consuetudine, il Vescovo con la pietà, che conviene, avendo riguardo al tempo, a luoghi, alle persone e con espresso consenso e volontà degli eredi, poteva dispensare alcuna moderata quantità di denari, per messe ed altre opere pie, per suffragio dell'anime di que' defunti. Ciò che fu approvato (siccome tutto il Sinodo) da Pio V, precedente esame e relazione della Congregazione de' Cardinali interpreti del Concilio.
Ma i nostri Re e loro Luogotenenti, come un abuso pernizioso, lo proibirono sempre ed affatto lo rifiutarono. Tengono nel Regno questa pretensione alquanti Vescovi, fondati nella consuetudine, come il Vescovo di Nocera de' Pagani, il Vescovo d'Alife, quello d'Oppido, l'altro di S. Marco ed alcuni altri, che possono osservarsi nell'Italia Sacra dell'Ughello.
Il Duca d'Alcalà non potendo soffrire nel suo governo questi abusi, siccome furono tolti in Francia ed altrove, proccurò anch'egli sterminarli nel nostro Regno, e vedendo che alcuni Vescovi, e fra gli altri quello d'Alife, s'erano in ciò ostinati, i quali negavan la sepoltura, quando loro non volesse in ciò consentirsi; oltre avere a quelli scritte gravi ortatorie, perchè se n'astenessero, scrisse nel 1570 una forte lettera a D. Giovanni di Zunica Ambasciadore del Re in Roma, incaricandogli, che parlasse al Pontefice con premura di questi aggravj, che si facevan da tali Vescovi, affinchè quelli con effetto se n'astenessero. L'Ambasciadore ne parlò al Papa, dal quale non ne ottenne altra risposta, che quando il defunto tiene erede, il Vescovo non può de jure testare per quello, ma se nol tiene, può farlo, per quel che tocca ad opere pie. Al Vescovo d'Oppido, che pretendeva ancora far testamenti a quelli, che morivano intestati, parimente si fece ortatoria, che se n'astenesse, e non avendo voluto ubbidire, assembratosi il Collateral Consiglio, fu determinato, che se gli potevano sequestrare i frutti, ma che prima di venirsi a ciò, se gli spedisse altra ortatoria.
Le medesime pedate furono da poi calcate da' Vicerè suoi successori: il Conte di Miranda, avendo il Vescovo di S. Marco scomunicata la Baronessa di S. Donato, perchè non voleva dargli la quarta parte de' beni mobili rimasi nell'eredità di D. Ippolito San Severino Barone di S. Donato suo marito, morto ab intestato, a' 31 marzo del 1586, gli scrisse una grave ortatoria, che l'assolvesse e non la molestasse; e non avendo voluto ubbidire, ordinò la carcerazione di tutti i parenti più stretti del suo Vicario, e 'l sequestro dei beni, e fecene da poi, a' 10 giugno del seguente anno, una Consulta al Re rappresentandogli il caso.
Parimente il Vescovo di Nocera de' Pagani pretese da Laudania Guerritore madre e tutrice de' figli ed eredi di Marcello Pepe di detta città di Nocera, di dovergli pagare quel ch'egli avea disposto nel testamento, che avea fatto ad pias causas per detto Marcello, morto ab intestato; ma il Vicerè scrissegli un ortatoria insinuandogli, che se n'astenesse, nè più per questa causa le dasse molestia304. Nè, quando si voglia usare la debita vigilanza, si permettono ora più nel Regno simili abusi.
Non finirono qui i contrasti di giurisdizione col Duca d'Alcalà: per tralasciarne alcuni di non tanto momento, merita qui essere annoverato quello, che s'ebbe a sostenere per l'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria, che si pretese dagli Ecclesiastici renderlo vano ed inutile.
Fu antico costume nel nostro Regno, conforme per altro alle leggi ed alla ragione, che la cognizione del Chericato, quando s'opponeva ne' Tribunali Regj, perchè s'impedisse il procedere nelle cause de' Cherici, s'appartenesse a' Giudici medesimi, da' quali la rimessione si pretendeva. Così essi doveano conoscere delle Bolle, che si producevano, de' requisiti che bisognava colui avere per esser rimesso, di vestir abiti chericali, aver tonsura, vivere chericalmente, non mescolarsi in mercanzie ed ogni altro a ciò attenente; siccome per tutto il tempo, che regnarono fra noi i Re della illustre Casa d'Angiò, fu senz'alcuna controversia praticato; tanto che la Regina Giovanna II, nella compilazione de' Riti, che fece fare della Gran Corte della Vicaria, infra gli altri, vi fece anche inserir questo.
Nel Pontificato di Pio V, fra l'altre imprese degli Ecclesiastici si vide ancor questa che i Vescovi pretendevano, che alla sola loro asserzione si dovessero rimettere i Cherici, e che ad essi s'appartenesse la cognizione del Chericato, e se vi concorrevano i soliti requisiti. Il Vescovo d'Andria avendo ciò preteso, ed essendosegli negato, scomunicò il Governatore e Giudice di quella città, perchè non aveano rimessi alcuni carcerati; ma il Duca d'Alcalà approvò la condotta del Governatore, e a' 19 luglio del 1570 ne fece Consulta al Re305, e scrisse all'Ambasciadore in Roma, che avesse rappresentato al Papa i pregiudizi e novità, che tentavano i Vescovi del Regno, e fra gl'altri di voler essi conoscere del Chericato, con togliere la cognizione a' Giudici Regj, che avean sempre avuta, conforme al Rito della Vicaria; con avvertirlo, che questa era una materia delle più importanti, che potevano occorrere nel Regno, non solo a riguardo dell'offesa della regal giurisdizione ed autorità, ma anche per la quiete de' popoli e de' sudditi di Sua Maestà. L'Ambasciadore trattò con efficacia l'affare col Pontefice, il quale avendo conosciuto la domanda essere ragionevole, risposegli, che non avrebbe alterato questo costume.
Ma non perciò gli Ecclesiastici restarono ne' seguenti tempi di proseguire l'impresa, sebbene trovaron sempre resistenza; anzi nel Viceregnato del Conte di Miranda venne lettera del Re, sotto li 12 decembre del 1587, che nel conoscersi delle cause di remissione de' Cherici procedessero i Tribunali ordinarj del Re, senza che in quelle si permettesse novità alcuna. E ne' tempi meno a noi lontani, il Consigliere ed Avvocato Fiscale allora del regal patrimonio, Fabio Capece Galeota diede in istampa un discorso drizzato al Vicerè Duca d'Alba, sostenendo questa pratica conforme al Rito, dimostrandola ancora non men legittima, che successivamente approvata in diversi tempi da Sommi Pontefici, e D. Pietro Urries ne compilò un trattato a parte, e se bene la Corte di Roma avesse vietato il libro, non si tenne però conto alcuno della proibizione, siccome si disse nel XXVII libro di quest'Istoria.