Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8», sayfa 24
CAPITOLO II
Di D. Innico Lopez Urtado di Mendozza Marchese di Mondejar; sua infelice condotta, e leggi che ci lasciò
Il Marchese di Mondejar giunto appena in Napoli ne' 10 di luglio di quest'anno 1575, non avendo fatto buono scrutinio di coloro che offerendogli il loro ajuto e consiglio nell'amministrazione del Regno, s'introdussero in sua grazia, fece tosto comprendere, che il suo governo dovea riuscire pur troppo diverso da quello prudente e saggio del suo predecessore; poichè non tardò guari, che per insinuazione di quei che l'adulavano, rivocò molte belle ordinazioni fatte dal Cardinal di Granvela, già divenuto nella Corte Presidente del Consiglio d'Italia: imprudentissima condotta, poichè costui offesosi di queste riforme, per l'affetto, che ciascun suol portare a parti del proprio ingegno, divenne un vigilante fiscale di tutte le sue azioni. Accortosi però egli di questo gravissimo errore volle ripararlo; ma vi applicò un rimedio, che riuscigli più pernizioso del primo malore. Era in que' tempi nella Corte per Reggente provinciale di questo Regno Scipione Cutinari, originario d'Aversa, uomo, ancorchè dotato di buone lettere, assai vafro però ed ambizioso: costui, corrotto dal Marchese, avvisava al medesimo i più secreti trattati, che passavano in quel Consiglio, e quanto usciva dalla bocca del Cardinale contro alla sua persona; in premio di ciò aveane dal Vicerè estorta una relazione falsa, diretta a S. Maestà, della sua favolosa e vantata nobiltà; in vigor della quale ottenne dal Re molte grazie e prerogative ed in particolare la facoltà d'eleggersi uno de' cinque Seggi per goderne gli onori. Ma ciò non gli servì ad altro che per far scovrire al Consiglio ed al Re l'impostura; poichè avendosi egli eletto il Seggio di Nido, ed il Vicerè, ripugnando tutti que' Nobili, impiegando la sua forza a farlo ricevere, diede a costoro occasione di spedire in Madrid persona, che facesse conoscere le favolose genealogie contenute nella relazione del Vicerè. Il Cardinal Granvela favorì la missione, ed informatone pienamente il Re rimase stomacato non meno dell'inganno, che del Vicerè, onde rivocò il privilegio, comandò, che il Reggente fosse rinchiuso in un carcere, dove indi a poco si morì, e che il fratello si ritenesse nel Castel Nuovo, donde uscito dopo molti anni di angustie, esiliato dalla città, finì i suoi giorni nella Torre del Greco.
Ma oltre a ciò la poca corrispondenza, che il Mondejar passava con D. Giovanni d'Austria, diede più certi presagi d'un infelice e non molto lungo governo. Trattenevasi per anche D. Giovanni in Napoli in giuochi e tornei, e come a colui, che avea il supremo comando dell'armata, erangli da' Napoletani resi i primi onori; tal che la luce del Vicerè da un più grande splendore veniva quasi ad oscurarsi: ciò che il Marchese mal potendo simulare e peggio soffrire, vennero fra di loro in maggiori urti e disgusti, i quali giunsero a tale estremità, che D. Giovanni non ebbe riparo in presenza di molti Nobili in un certo incontro di chiamarlo mancator di parola; avendo voluto il Vicerè rispondergli, che di tanta baldanza ne avrebbe egli dato avviso a Sua Maestà, gli corse D. Giovanni dietro, cavando fuori il pugnale per offenderlo; come sarebbe senza fallo accaduto se dagli astanti con preghiere e scongiuri non fosse stato raddolcito.
Questi incontri infelici e queste inimicizie, che vi erano tra lui col Cardinal Granvela Presidente del Consiglio d'Italia e con D. Giovanni d'Austria, seco portarono, che di tutto ciò, che di avventuroso accadde in tempo del suo governo, fosse imputato non già alla sua vigilanza, ma, o alla fortuna o all'accortezza e valore altrui, o, quando tutto mancasse, a miracolo. Ciò si conobbe chiaro in due occorrenze. Quest'anno del Giubileo 1575, per la gran frequenza di stranieri, che da tutte le parti concorrevano in Roma, s'introdusse in Italia una pestilenza così fiera, che dopo quella, che nell'anno 1528 in tempo della spedizione di Lautrech afflisse cotanto Napoli, non s'era veduta maggiore. Da Trento, ove cominciossi prima a sentire, passò il contagio a Verona, indi a Venezia, e finalmente si diffuse per tutto insino a Sicilia. I più famosi Medici di que' tempi, come Andrea Graziolo Salonense, Alessandro Canobio Scrittore della peste di Padova ed Antonio Gliscens di Brescia, riputarono, non già dalla positura delle stelle o dalla malignità dell'aria o dal concorso de' forestieri venuti in quell'occasione in Italia, essere cagionato il male, ma nato nelle città istesse dalle immondizie e sordidezze delle private case. Che che ne sia, Trento rimase quasi desolato, Verona con pochi abitatori, ed in Venezia, nel seguente anno 1576, fece stragi cotanto crudeli e lagrimevoli, che per tutto quell'anno, si conta, avesse in quella città consumati più di settantamila uomini. Di tanto esterminio ne furono incolpati quei due celebri Medici Girolamo Mercuriale da Forlì e Girolamo Capovacca da Padova, i quali richiesti dal Senato della loro opera e parere, riputando il morbo non pestilenziale, ma che potesse curarsi, fecero, che gli appestati non si portassero più, come erasi cominciato, fuori della città in un luogo separato, ma si ritenessero, esponendosi essi (siccome dal loro esempio fecero gli altri Medici e Cerusici di quella città) alla lor cura321. Ma il male crebbe in guisa, che attaccandosi più furiosamente, in breve spazio uccise non pur gli ammalati, ma cinquantotto fra Medici e Cerusici destinati alla lor cura. Non curarono il Mercuriale e 'l Capovacca il proprio pericolo, ed intrepidamente per qualche tempo infra gli appestati proseguirono la cura: ma a lungo andare, dimandata licenza dal Senato, scapparono via. In Milano, Cremona e Pavia si rese per ciò commendabile la pietà e vigilanza de' Cardinali Carlo Borromeo, Niccolò Sfondrato ed Ippolito Rosso Vescovi di quelle città, i quali con grande zelo e intrepidezza visitavano gl'infermi, e davan loro soccorsi. Lo stesso, ad imitazione del Borromeo, fece in Verona Agostino Valerio Vescovo di quella città, la quale non men, che Padova era miseramente travagliata ed afflitta. Si diffuse il male insino a Sicilia, ed in Messina fece strage sì crudele, desolandola in guisa, che si fece il conto esserne estinti più di quarantamila suoi Cittadini. Già la vicina Calabria cominciava a contaminarsi, e per lo continuo traffico tutte le altre nostre province erano in pericolo. Rilusse per ciò la provvidenza del Marchese di Mondejar, il quale con severissimi editti proibì l'entrata nel Regno a ciascuno, che veniva da luogo non sano: fece chiudere le porte della città, nè si permetteva far entrar alcuno, senza le necessarie fedi di sanità del luogo donde veniva: usò rigore estremo, anche ne' più leggieri sospetti: fece bruciare in Napoli molte balle di cotone venute di fuori, e dentro il Porto fece ardere una barca venuta di Calabria, ancorchè carica di balle di seta, senza riguardo dei gravissimi danni, che si recava per ciò a' Mercatanti. Tanto che Napoli ed il Regno restò libero ed immune da sì spaventoso male, che in Italia non s'estinse affatto, se non nel seguente anno 1577. Ma tutto ciò fu imputato, non già alla provvidenza del Vicerè, ma parte a' provvedimenti dati dalla città, e molto più all'intercessione di San Gennaro e degli altri Santi suoi Protettori322.
Parimente Amuratte Imperador de' Turchi, proseguendo l'istituto de' suoi antecessori non tralasciava di fare scorrere la sua armata ne' nostri mari; il suo famoso Comandante Uluziali cominciò in quest'anno 1576 a saccheggiare le nostre riviere di Puglia: ma ripresso da molte soldatesche a cavallo ed a piedi, che vi spedì il Vicerè, si rimase dall'impresa, ed incamminandosi verso Calabria, fece sbarco delle truppe presso Trebisaccia, rovinando il paese ed i luoghi contorni, con ridurre in ischiavitù molti. Ne furono parimente scacciati e costretti a lasciar il bottino; ma tutto si ascrisse alla vigilanza e prontezza e valore di Niccolò Bernardino Sanseverino Principe di Bisignano, il quale, come pure scrive il Tuano323, essendo accorso opportunamente, mentre s'imbarcavano, con sessanta cavalli e duecento archibusieri, obbligò quelli a lasciar la preda, facendone da quaranta prigionieri e più di cinquanta restarono ivi estinti.
Ne' seguenti anni s'accrebbero i suoi disgusti, per due incontri che diremo: tal che venuto in odio non meno alla Nobiltà, che al Popolo, fu finalmente richiamato dal Re in Ispagna, per dove convenne partirsi nei maggiori rigori di quell'inverno. Il primo, per aver voluto dar orecchio ad un Frate, che adescato dalle promesse d'alcuni avidissimi Mercanti, insinuò al Marchese, che per la gente minuta poteva farsi il pane di farina di grano, mischiata anche con quella dell'erba che i Botanici chiamano Aron, ed il volgo chiama Piede di Vitello, la quale è stimata di cotanto nutrimento, che Giulio Cesare vi mantenne le sue milizie nell'Albania. Parve tal espediente molto vantaggioso ed utile, non meno per l'annona, che per li grandi profitti, che potevan ritrarsi dal Re: ma appena fu questo trattato scoverto da' popolari avvezzi a mangiar pane di frumento, che stimolati anche da' Nobili mal soddisfatti del Vicerè per le passate contese dell'aggregazione del Reggente Cutinari ne' loro Sedili, prorruppero in aperte dichiarazioni di non dovervisi pensare, perch'essi altrimente avrebbero negato in ciò d'ubbidirlo; onde veduta dal Vicerè la loro fermezza ed ostinazione, gli fu duopo sciorre immantinente il trattato per quietarli. L'altro più strepitoso che diede l'ultima spinta alla sua partita fu, ch'educandosi nel Monistero di S. Sebastiano D. Anna Clarice Caraffa, figliuola del primo letto di D. Antonio Caraffa, Duca di Mondragone e di D. Ippolita Gonzaga, costei per mancanza de' maschi essendo considerata come succeditrice di tutto lo Stato paterno, era stata destinata dal padre per moglie al Conte di Soriano primogenito del Duca di Nocera, ch'era della medesima famiglia; ma il Principe di Stigliano, avolo paterno della fanciulla, tollerando di mala voglia, che dovesse estinguersi la sua Casa, risolse, benchè vecchio, d'ammogliarsi con D. Lucrezia del Tufo de' Marchesi di Lavello, ed ebbene di questo matrimonio un maschio, che meditava dovess'esser il successore di quello Stato; ciò che fece dividere la famiglia Caraffa in due potentissime fazioni. All'incontro il Vicerè, lusingandosi da queste contese poterne ritrar profitto, era entrato nell'impegno di impalmar questa Dama a D. Luigi Urtado di Mendozza Conte di Tendiglia suo primogenito, e prevedendo le difficoltà, prese risoluzione, col pretesto d'esplorarne la volontà, di far uscire da quel Monastero la fanciulla, e porla in luogo opportuno per suoi disegni; ed a far questo, vedendo che gli sarebbe riuscito vano ogni altro modo, parvegli usare non meno la sollecitudine, che la forza; onde mandò tre Reggenti col Segretario del Regno e centocinquanta Spagnuoli a torre con effetto la Donzella dal Monastero. L'atto improvviso e scandaloso animò quelle monache a prendere una risoluzione bizzarra e generosa; poichè unite tutte insieme con D. Clarice ancora, che fecero vestir Monaca, in lunghi ordini divise, salmeggiando e con le reliquie in mano di quei Santi che conservavano, fecero aprir le porte della clausura, e si fecero tutte incontro a que' Ministri, i quali sorpresi da un cotale nuovo spettacolo, postisi inginocchioni, adorarono le reliquie, e partirono immantenente dal Monastero. D. Clarice fu segretamente condotta in casa di D. Giovanni di Cardona, ed eseguendo la deliberazione di suo padre, fu privatamente sposata al Conte di Soriano, come poscia dichiarò essa stessa al medesimo Collaterale. Questa azione del Vicerè, quantunque avesse offeso sol que' due principali rami della famiglia Caraffa, ch'erano in que tempi il Principe di Stigliano, ed il Duca di Nocera, oggi estinti; gli irritò nondimeno contra tutto il numeroso stuolo de' Nobili di quel Casato, i quali aggiungendo quest'offesa all'antiche, mandarono il Marchese della Padula Giannantonin Carbone in Madrid a dolersene col Re Filippo.
(Di questa Missione del Marchese della Padula e della maniera da tenersi in ispedire alla Corte persone per far ricorso al Re, si legge una lettera di Filippo II spedita al Principe di Pietra Persia Vicerè sotto li 4 decembre 1579 presso Lunig324).
Fu la missione favorita anche dal Cardinal di Granvela, il quale agevolò l'impresa; onde esposte queste querele al Re, si risolse tosto di richiamarlo; ed ordinò a D. Giovanni di Zunica, il quale lungo tempo era stato suo Ambasciadore in Roma, che senza perder tempo passasse al Governo di Napoli; donde convenne, al Marchese agli 8 di novembre del 1579 partire, ed esporsi ad un viaggio di mare nel maggior rigore di quell'inverno. Partì su due Galee, accompagnato più dal proprio pentimento e dalle lagrime dei congiunti, che dalle benedizioni de' Napoletani, appo i quali, secondo che narra il Summonte325 Scrittor contemporaneo, lasciò di se malissimo nome.
Pure ne' quattro anni e quattro mesi che durò il suo governo, ancorchè i mentovati successi gli avessero concitato l'odio comune, lasciò fra noi qualche memoria, non meno commendabile per Napoli, che per lo maggior servigio, ch'egli prestò al suo Re. Nel suo tempo furon fatti al Re tre donativi: uno pochi mesi dopo il suo arrivo in novembre del 1575, quando per l'avviso del nascimento di D. Diego secondo figliuolo del Re Filippo, si congregò in S. Lorenzo il Parlamento, dove presedè per Sindico Gianfrancesco di Gaeta nobile della Piazza di Porto, e dove si fece donativo al Re di un milione326: l'altro di febbrajo del 1577 dove fu Sindico Giangirolamo Mormile del Seggio di Portanuova, che fu d'un milione e ducentomila ducati: ed il terzo d'altrettanta somma conchiuso nel Parlamento tenuto a' 23 aprile del 1579, per supplire alle grosse spese della guerra di Fiandra, essendone Sindico Fabrizio Stendardo della Piazza di Montagna.
Cominciò ancor egli nel 1577 la fabbrica del nuovo Arsenale nella spiaggia di S. Lucia, ove al presente si vede, con la guida di Frate Vincenzo Casali Servita, famoso Architetto di que' tempi. Avea ancora cominciato le provvisioni necessarie per porre in mare un'armata contra gl'Infedeli, al qual effetto da Fr. Vincenzo Caraffa Prior d'Ungheria, e da Carlo Spinelli, assoldavansi tremila pedoni e quattromila guastadori a fin d'unirli a tutte le forze d'Italia, e farne un corpo sotto il comando di Pietro de' Medici, fratello del Gran Duca di Toscana, restandone il bel disegno estinto per l'improvvisa sua partenza. Ne' suoi tempi furon celebrate con grande magnificenza e pompa le feste per la natività di Filippo, quarto figliuolo del Re, natogli a' 27 aprile del 1578 dalla Regina Anna, che gli fu poi successore, siccome poco da poi fu pianta la morte del Principe D. Ernando, del quale il Re suo padre, forse per l'età sua infantile, avendo appena passati i sette anni, non fece celebrare nè in Napoli, nè altrove, nè funerali, nè esequie.
Ci lasciò ancora questo Ministro ventiquattro Prammatiche, nelle quali si leggono più provvedimenti molto saggi e commendabili. Proibì sotto gravissime pene le Case di giuoco e baratterie, nelle quali vietò a qualunque persona il potervi giuocare; represse i controbandi; diede norma a' Tribunali per le suspezioni dei Ministri; comandò che non potessero questi contrarre parentela spirituale, facendosi compari nel battesimo o nella cresima; e diede altri regolamenti salutari per l'abbondanza e politia della Città e del Regno: le quali, secondo il tempo nel quale furono stabiliti, possono vedersi nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione del 1715.
CAPITOLO III
Delle cose più notabili accadute nel governo di Don Giovanni di Zunica, Commendator Maggiore di Castiglia, e Principe di Pietrapersia: sua condotta e leggi che ci lasciò
Don Giovanni Zunica, secondogenito della Casa de' Conti di Miranda, di cui sovente nel precedente libro si è avuta occasione di favellare, quando, trovandosi Ambasciadore in Roma, trattò gli affari più gravi di giurisdizione occorsi nel governo del Duca d'Alcalà, s'acquistò nell'esercizio di quella carica, che tenne per molti anni in Roma, fama di gran prudenza, e per l'occorrenze di allora, di sufficiente perizia delle cose del Regno; tanto che trascelto dal Re Filippo per nostro Vicerè, non ebbe egli a star lungo tempo ad istruirsi prima de' nostri istituti e costumi. Fu per ciò l'elezione intesa con applauso, e ciascuno dalla sua capacità e nota prudenza se ne prometteva un ottimo governo. Nè la sua condotta fu contraria all'espettazione si avea di lui; poichè giunto egli in Napoli a' 11 di novembre di quest'anno 1579, diede in questo principio saggi ben chiari della sua magnificenza e pietà; poichè ricusando quella vana pompa del Ponte solito farsi a tutti i Vicerè, fu quello da lui donato all'Ospedale degl'Incurabili, dono che alla Città era costato 1500 scudi327.
§. I. Spedizione di Portogallo
Ma i grandi avvenimenti, che occorsero a' suoi tempi, resero questo governo assai segnalato e memorando: mentr'egli reggeva il Regno accadde la spedizione di Portogallo, nella quale vi ebbe ancor egli qualche parte per lo denaro e gente, che per la sua diligenza ed opera fu mandata dal Regno per quella impresa. L'istoria della guerra di Portogallo, che mosse il Re Filippo II come uno de' pretensori di quel Reame, fu cotanto ben scritta dal Presidente Tuano328 da Bacone di Verulamio329, e da altri insigni Autori, che oltre di non appartenere al nostro istituto, sarebbe abbondar d'ozio se, trascrivendola da que' Scrittori, volessi io qui distesamente narrarla. Solo di qualche successo si terrà conto, nel quale v'ebbero alcuna parte i nostri o il Zunica, che ci reggeva.
Morto il Re Emmanuele nel 1521 avendo lasciati quattro figliuoli maschi, Giovanni, Lodovico, Errico ed Odoardo e due femmine, Isabella e Beatrice, succedè nel Regno il primogenito, che Giovanni III fu detto: da costui nacque il Re Sebastiano, il quale, morto il Re Giovanni suo padre, succedè al Reame. Lodovico non ebbe moglie, ma da una sua concubina procreò Antonio, detto il Priore di Crato. Errico prese il Sacerdozio, e fu fatto Cardinale. Odoardo lasciò due figliuole, Maria moglie d'Alessandro Farnese Duca di Parma, e Caterina madre del Duca di Braganza. Delle due femmine, da Isabella nacque il Re Filippo II, e da Beatrice Emmanuele Filiberto Duca di Savoja. Il Re Sebastiano nella battaglia d'Arzilla restò estinto, e non ben ravvisandosi il suo cadavere, diessi poi occasione a quella celebre impostura, della quale narreremo appresso il successo. Morto il Re Sebastiano senza lasciare di sè prole alcuna, successe nel Regno il Cardinal Errico suo zio, che solo tra fratelli di Giovanni si trovò vivente; il quale essendo Sacerdote, cagionevole della persona e vecchio, pensò stabilire in vita il successore; ma riuscendogli moleste le dimande di tanti pretensori, avendo convocato un generale Parlamento, furono destinati quindici Giudici, a' quali diede Errico potestà, intesi i pretensori, di determinare la lite della successione, dando loro ancora facoltà di poter decidere eziandio dopo sua morte, se quella fosse intanto innanzi della sentenza accaduta: stabilì in questo caso Governadori, che dovessero intanto aver l'amministrazione del Regno, e fece giurare a tutti di dover riconoscere per Re colui, che per tale avessero i Giudici eletti pronunziato.
I pretensori erano Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro e il Duca di Braganza marito di Caterina; Filippo II figliuolo d'Isabella; ed il Duca di Savoja figlio di Beatrice. Eravi anche Antonio figliuol naturale di Lodovico, il quale più per l'affezione, che aveasi acquistata de' naturali del paese, che per altra ragione, aspirava non meno degli altri al Reame; ed in ultimo li Re di Francia per interessarsi ancora in questo affare e per opporsi a Filippo, volevan far valere alcune ragioni antiche ereditate da Caterina del Medici loro madre.
Per lo concorso di tanti pretensori, e per lo genio avverso, che non meno il Re, che la plebe mostrava avere al Re Filippo II, uno de' più potenti fra coloro, prevedendosi maggiori disordini, fu proposto un altro trattato di ricorrere al Papa, che dispensasse al Re, ancorchè Sacerdote, di poter prender moglie, e fu a questo fine mandato in Roma Odoardo Castelbianco. Per ciò erano tenute dal Re spesse consulte di Medici, richiedendo da essi se lo riputassero, essendo di si grave età, abile a procreare, poichè, ancorchè in tutto il tempo di sua vita avesse professata castità, nulladimanco per escludere del Regno un erede estraneo, erasi già disposto d'ammogliarsi330.
Il Re Filippo, avvisato dell'avversione del Re, e degli ordini del Regno, e del trattato del matrimonio, per distorlo, scrisse immantenente al suo Ambasciadore in Roma, con molta premura incaricandogli, che impiegasse con vigore ogni opera col Pontefice Gregorio, affinchè la dispensazione non si concedesse, e nel medesimo tempo con molta secretezza mandò al Re Errico suo zio Ferdinando Castelli Frate Domenicano per distorlo da questo proponimento, insinuandogli fra l'altre, una ragione per se stessa inettissima, ma che credeva poter giovare col Cardinale, uomo per altro superstiziosissimo, cioè di fargli comprendere, che ciò sarebbe stato d'un pessimo esempio, e non da praticarsi in que' tempi senza pericolo; poichè spandendosi in Europa vie più che mai gli errori de' Settarj, i quali volevano, che i Sacerdoti potessero prender moglie, gli uomini perniziosi, se ciò vedessero nella persona sua, con facilità potrebbero persuadere agli altri di poterlo fare. La Missione riuscì inutile, poichè il Frate contra l'espettazione di Filippo, non fu ricevuto da Errico, e fu costretto con poco suo onore ritornarsene.
Intanto non si tralasciava l'altro trattato intrapreso. Furono da' Giudici citati i pretensori i quali per mezzo dei loro Ambasciadori proposero le ragioni de' loro Sovrani. Per Filippo comparve D. Pietro Girona Duca di Ossuna; per Emanuele Filiberto Duca di Savoja, Carlo Roberto; e per Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro Duca di Parma e di Maria, vi fu mandato Ferdinando Farnese Vescovo di quella città, il quale avendo fatto consultare il caso in Padoa da' Giureconsulti di quella celebre Università, avea pubblicata una consultazione firmata da loro, nella quale con argomenti validissimi, come egli credeva, si sostenevan le ragioni di Ranuccio.
Il Duca di Savoja non contendeva al Re Filippo la maggioranza delle sue ragioni, essendo quegli procreato da Isabella maggiore, e prima nata di Beatrice; dimandava solamente, che se accadesse di morir Filippo prima d'Errico comune zio, in tal caso si avesse ragione del suo diritto. Erano per ciò uniti ad escludere le pretensioni del Duca di Braganza e di Ranuccio Farnese: sostenevano, che non potendo questi giovarsi dei beneficio della rappresentazione, che proccuravano abbatter con molti argomenti, doveano essi come maschi, ed in grado più prossimi essere a tutti preferiti. Il Duca di Braganza e Ranuccio all'incontro facevan tutta la forza nella rappresentazione da lor sostenuta; ma quest'istessa ragione veniva poi da Ranuccio rivoltata contra il Duca, poich'essendo egli figlio nato da Maria maggiore, e prima nata di Caterina, dovea al Duca essere preferito. Ma l'Accademia di Coimbra, informata anche dell'inclinazione del Re Errico, occultamente favoriva il Duca di Braganza, diede fuori una consultazione a suo favore, per la quale con molti argomenti si sforzarono que' Giureconsulti, rifiutate prima le ragioni di Filippo e del Duca di Savoja, e poi quelle di Ranuccio. Tutti però convennero in escludere dalla successione Antonio Prior di Grato (ancor egli citato) come spurio e nato si bene da Lodovico fratello d'Errico, ma di concubinato, non già di legittimo matrimonio, siccome poi con espresso decreto fu dal Re dichiarato.
Il Re di Francia, ancorchè non citato, volle pure avervi in ciò la sua parte, e mandò Urbano Sangelasio Vescovo di Cominges, perchè fossero anche intese le sue ragioni, al quale dopo molte difficoltà, fu alla perfine dal Re permesso, che per mezzo del suo Proccuratore potesse intervenire in quella causa a provare il suo diritto. Il Re Errico per favorire il Duca di Braganza avrebbe voluto escluder tutti, ma dall'altra parte per escludere il Re Filippo ammetteva promiscuamente le dimande di ciascuno. Le pretensioni di Francia, ch'erano pontate in quell'Assemblea in nome di Caterina de' Medici, eran derivate da un'origine troppo antica, e se mai fossero state reputate valevoli avrebbero mandate a terra, non solo le pretensioni degli oppositori, ma avrebbero posto in dubbio la successione di quel Regno nella persona del Re Errico istesso e de' suoi prossimi predecessori: laonde sarebbe stata una somma imprudenza in quel Consesso valersene, dove non pur grazia e favore, ma indignazione e rifiuto avrebbero riportato; per la qual cosa narra il Tuano331, che l'Ambasciadore di Francia proccurò dal suo Re altre lettere dirette alla Camera di Lisbona, per le quali offeriva il Re ogni ajuto ai Portughesi, perchè rifiutando la dominazione di Filippo, non volessero a patto veruno soffrire il giogo di un Re così potente.
Gli Spagnuoli, il Papa e gli altri Principi Cristiani si dolevano di ciò, e declamavano, che il Re di Francia per emulazione ed odio cercava framettersi in quest'affare per interrompere i loro disegni: per la qual cosa il Re Filippo cominciò seriamente a pensare di dovere più nelle armi, che in quelle discussioni, fondare la sua pretensione. Erasi ancora reso certo, che non meno i Franzesi, che gl'Inglesi gelosi per un tanto acquisto ed ingrandimento, che si farebbe alla sua Monarchia d'un si vasto Regno, si sarebbero opposti alla sua impresa. Vedea chiara la avversione non meno del Re Errico, che di que' Popoli per lui; ed all'incontro l'inclinazione del Re per Braganza e dei Popoli per Antonio: gli Ordini del Regno erano pure entrati in pretensione, che stante la dubbiezza delle ragioni, che i Pretensori allegavano, dovesse spettare ad essi la ragione d'eleggere il successore. Per la qual cosa rivolse Filippo i suoi pensieri ad unire da tutti i suoi Regni un potentissimo esercito per venir a capo dell'impresa, e stabilì sostenere più coll'armi le sue ragioni, che colle allegazioni e sentenze de' Giureconsulti: non trascurava però, per rendere giusta e plausibile al Mondo la guerra, ch'e' apparecchiava, di consultare i più celebri Giureconsulti e le Accademie più insigni d'Europa; onde si videro uscire più famose consultazioni sopra questo soggetto: nè si tralasciò il famoso Giacomo Cujacio insigne Giureconsulto di questi tempi, il quale per Filippo compilò quella consultazione, che leggiamo ancora tra le sue opere. Quasi tutte le Accademie della sua vasta Monarchia furono impegnate a far lo stesso; ed i nostri Giureconsulti Napoletani pure richiesti contribuirono le loro fatiche sopra questo soggetto332. Risoluto per tanto il Re Filippo colle armi far valere le sue ragioni, fece prima dal Duca d'Ossuna insinuare al Re Errico, che non bisognavano più tanti scrutinj: essere le sue ragioni chiarissime, le quali egli avea fatte esaminare dalle Accademie più famose d'Europa e da' più insigni Giureconsulti di quella età; che considerando ancora il pubblico bene, che ne sarebbe seguito in quel Regno, dovea egli dichiarare la successione appartenersi a lui dopo la sua morte. Questo medesimo glie lo faceva insinuare dal P. Lione Enriquez Gesuita suo Confessore, il quale regolando la coscienza di quel timido e scrupoloso vecchio, tanto fece che pose il Re in angustia, e lo fece divenir dubbioso di quello che dovea fare.
Ma gli apparecchi che si facevano per la guerra erano assai più considerabili: da tutte le parti, non men di Spagna che d'Italia, s'univano truppe ed armate da Milano, da Sicilia e dal nostro Regno di Napoli ancora, e per non insospettire il Papa e gli altri Principi si dava colore e pretesto, che tanto apparecchio si faceva per la guerra d'Africa. Fu comandato perciò al nostro Vicerè, che quelle provvisioni, che il Marchese di Mondejar avea apparecchiate contra gli Infedeli, le tenesse per questa nuova impresa. Ma il Papa sospettando di quel ch'era, cercò frapporsi col Re Filippo per distogliernelo; e propose un trattato, che se gli fosse riuscito sarebbe ridondato in grande stima dell'autorità della sua Sede333. Proccurava con efficaci dimande, che seguitando gli esempj di molti Principi che non ebbero riparo, particolarmente nel felice secolo d'Innocenzio III di portare alla decisione della Sede Appostolica simili contese di Principati e Reami, volesse ancor egli imitarli, perchè avrebbe egli composta tal controversia. Ma il Re Filippo simulando di ricever a favore il suo ufficio e la sua interposizione, tirando secondo la solita tardità spagnuola la cosa in lungo, proseguiva con maggior calore gli apparecchi militari: e già si mandavano esploratori in Portogallo per deliberare, in qual parte di quel Regno convenisse cominciar la guerra, nell'istesso tempo che dagli Ordini di quel Regno, essendosi presentiti tanti apparecchi, e che la fazione del Duca di Braganza, e quella più numerosa del Prior di Grato vie più crescevano, si davano le provvidenze per prevenire le revoluzioni ed i disordini.
Ma ecco, stando le cose in questo stato, che viene a mancare il Re Errico, il quale non avendo regnato più che un anno e cinque mesi, nell'età di 68 anni, nell'ultimo di gennajo di quest'anno 1580, rese lo spirito. Il Prior di Grato, che era stato dal Re allontanato da Lisbona, intesa la sua morte, vi tornò immantinente; ed il Re Filippo affrettando vie più l'impresa, unì due potentissimi eserciti, per mare e per terra, creandone Capitan Generale il famoso Duca d'Alba. Dal nostro Regno furono somministrati in questa guerra validi soccorsi: il Vicerè vi spedì diciassette ben provveduti Navili, con seimila soldati e quattromila guastadori, comandati dal Prior d'Ungheria e da D. Carlo Spinelli: fu conceduto indulto a tutti gli sbanditi e forgiudicati dal Regno, da ribelli e falsi monetarj in fuori, i quali furono invitati ad assoldarsi in questa guerra, promettendosi lor perdono dei loro misfatti, e sopra tutta per supplire alle spese, non ostante, che come si è detto, nel precedente anno in aprile se ne fosse fatto un altro, fu convocato a' 29 settembre di quest'istesso anno 1580 nuovo Parlamento in S. Lorenzo, dove essendo Sindico Camillo Agnese nobile di Portanova, fu per questa guerra di Portogallo fatto un nuovo donativo al Re d'un milione e ducentomila ducati.