Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8», sayfa 8
A questi tempi Marc'Antonio Flaminio erasi reso celebre per la sua letteratura, e per la famosa traduzione del Salterio in versi latini. Questi avendo inteso i talenti ed i progressi di Galeazzo, e ch'era disposto ad abbracciar la Riforma, gli scrisse una dotta lettera, nella quale per maggiormente animarlo a risolversi, fra le persone illustri che annoverò d'averla abbracciata, non si dimenticò di D. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara. In tanto per li spessi viaggi, che Galeazzo faceva in Germania, veniva maggiormente ad istruirsi colla lettura di nuovi libri, che Lutero, ed i suoi seguaci incessantemente davano in Sassonia ed altrove alle stampe; e passando per Strasburg, s'incontrò con Pietro Martire, col quale riconosciutosi, ebbe lunghi colloqui e si determinò d'abbracciarla. Tornato in Napoli, pensò indi partire, per pubblicamente professarla altrove, e non farvi più ritorno; e celando al Padre ed alla moglie questo suo proponimento, raccolto qualche contante, che non oltrapassò la somma di duemila ducati, partì finalmente da Napoli a 21 marzo del 1551 d'età di 34 anni abbandonando Padre, Moglie, Figliuoli, onori, ricchezze e tutte le comodità di una Casa cotanto agiata ed illustre. Arrivato ad Ausburg, dove l'Imperadore si trovava, lo servì in Corte, fin che ivi dimorò; ma passando l'Imperadore a' 26 maggio del medesimo anno a Paesi Bassi, non volle seguirlo; sicchè Cesare partendo, egli prese il cammino verso Genevra, dove arrivò agli 8 di giugno. Quivi non trovò alcuno di sua conoscenza; eccetto, che a capo di due giorni arrivò colà un Gentiluomo di Siena nominato Lattanzio Rognoni, che l'avea conosciuto In Napoli. Questi per lo stesso stimolo di cambiar Religione erasi ritirato a Genevra, dove avendo dato sufficienti saggi de' suoi progressi, fu impiegato ne' seguenti anni al Ministero della Predicazione nella Chiesa degl'Italiani stabilita in Genevra da Galeazzo, come si dirà più innanzi. Fermatosi adunque Galeazzo in questa città, abiurò l'antica e professò la nuova Religione Riformata, e deliberò far quivi domicilio. Prese tosto amicizia con Giovanni Calvino, che la continuò fin'all'anno 1564, nel quale Calvino finì di vivere. Ebbe costui tanta stima e rispetto di Galeazzo, che ristampando i suoi Commentarj sopra la prima Lettera di S. Paolo a' Corintj, in questa seconda Edizione, li dedicò a Galeazzo; siccome si legge dalla sua lettera latina de' 23 gennaro 1556, premessa a questa seconda Edizione, nella quale cotanto commenda la sua fermezza e costanza di non lasciarsi smuovere dalla presa risoluzione, animandolo a non curare ciò, che il Mondo ignorante di se ragioni; ma di contentarsi avere Iddio per spettatore della sua probità.
La novella della venuta di Galeazzo a Genevra, e d'essersi quivi fermato, e d'aver mutata Religione, riempì la Corte dell'Imperadore e tutto il Mondo, e spezialmente Napoli di maraviglia e stupore. Il Marchese di Vico suo Padre, sua Moglie, figliuoli e tutti i Napoletani restarono attoniti.
Il Padre gli spedì un Giovane suo parente per ridurlo; ma giunto che fu costui a Genevra, con tutti i suoi sforzi, preghiere e lusinghe non potè smoverlo: sicchè essendosi affaticato in vano, se ne ritornò a Napoli infruttuosamente. Intanto non meno il Fisco Regio di Napoli, che la Congregazione del S. Officio di Roma, cominciarono a fabbricar processi contra Galeazzo. Ma quello che maggiormente angustiava l'infelice padre era, che dal Fisco se gli minacciava la confisca de' beni, con intento di dichiarare incapaci i suoi nepoti, figliuoli di Galeazzo della successione dei Feudi, dopo sua morte, a cagion del delitto di lesa Maestà Divina del loro padre, che inabilitava anche i figliuoli alla successione; sicchè il dolente Marchese per riparare un colpo sì fatale per la sua discendenza risolvè portarsi a piedi dell'Imperadore e ricorrere alla clemenza del medesimo per liberarsi dalla molestia fiscale. Risoluto adunque di partire, e dovendo passare per Venezia, fece intendere a Galeazzo, che desiderava nel passaggio vederlo: al che egli non ripugnando, fu destinata la città di Verona per l'abboccamento; avendogli il padre per indurlo a venire con sicurezza fattogli spedire salvo condotto dalla Republica di Venezia. Partì adunque Galeazzo da Genevra a' 29 di aprile del 1553 preparato a sostener gli assalti del Padre, a' quali andava incontro. Si videro e parlarono lungamente insieme. Il Marchese adoperò ogni arte ed industria, dissegli il pericolo nel quale eran i suoi figliuoli d'essere esclusi dalla successione de' suoi feudi, ma tutto indarno: onde vedendo di non poterlo rimuovere, lo pregò che almanco non ritornasse in Genevra, ma si fermasse in Italia nello Stato Veneto, ove sarebbe sicuro, finchè egli trattasse nella Corte dell'Imperadore di poter mettere in salvo i suoi figli. In questo Galeazzo l'ubbidì, e si fermò a Verona, dove si trattenne sino ad agosto: nel qual mese ebbe riscontro, che il Marchese dalla clemenza di Carlo V avea ottenuto quanto desiderava per i suoi nepoti. Mentre Galeazzo dimorava in Verona, Girolamo Fracastoro celebre Medico, Filosofo e Poeta di quei tempi volle provare se per mezzo della sua fama e dottrina potesse ridurlo: lusingandosi di poter con suoi argomenti convincerlo. Ma si adoperò indarno: Galeazzo stette fermo e deluse le speranze di Fracastoro. Tornato adunque a Genevra stabilì in questa Città la Politia Ecclesiastica per le famiglie Italiane. Andò poi in compagnia di Calvino a Basilea, e ridusse Massimiliano de' Conti Martinenghi di Brescia, e tornato a Genevra, con l'approvazione del Magistrato stabilì il Corpo della Chiesa Italiana con i suoi regolamenti, alla quale il Conte Massimiliano fu eletto primo Ministro, il quale predicava in lingua Italiana: onde rimane ancora l'istituto di farsi ivi le prediche in lingua Italiana.
Essendo stato nel 1555 eletto Pontefice Paolo IV fratello dell'Avola sua materna, il marchese padre concepì qualche speranza, che col favore del medesimo potesse ottenere al Figlio, non pur perdono, ma grazie per i di lui figliuoli: ma dovendosi cominciare dalla riduzione di Galeazzo, gli scrisse che dovendo fare un viaggio per Lombardia, si facesse trovar a Mantova per vederlo. Galeazzo fidando a se stesso, volle pure ubbidirlo, e partendo da Genevra a 15 di giugno, si portò a Mantova, ove trovò il Marchese Padre, il quale promettendogli molti favori, che avrebbe dal nuovo Papa conseguiti, se ritornasse nel primiero ovile, almanco riguardasse il bene che si sarebbe fatto a' propri figliuoli, i quali non potevano certamente profittarsi della parentela del Papa, avendo il padre eretico. Lo pregò, lo scongiurò, ma al fine vedendo la fermezza di Galeazzo, proruppe alle maledizioni ed alle onte, e tornossene in Roma, e narrando al Papa l'infruttuoso suo viaggio, in Napoli fece ritorno.
Galeazzo parte anche egli da Mantova, e va a Ferrara, dove per mezzo di Francesco Porto (uomo celebre per erudizione, il qual fu poi professore di lingua Greca nell'Accademia di Genevra) fu introdotto a far riverenza alla Duchessa di Ferrara, Renée de France figliuola del Re Lodovico XII, la quale gli dimandò di Calvino, volle esser intesa della Chiesa Italiana istituita in Genevra, e di vari articoli di Religione, e de' punti più principali di controversie.
Fin qui Galeazzo mostrando sua fermezza dava a tutti meraviglia di sua costanza; ma da ora avanti dava stupore; poichè vedendo il Marchese Padre, che egli nulla profittava, sapendo il debole di Galeazzo, il quale teneramente amava D. Vittoria sua moglie, fece che la medesima cominciasse a dargli stimoli, e mettesse in opra ogni industria e lusinga per ridurlo. Cominciò ella a più frequentemente scrivergli, aggiungendo lettere sopra lettere, ed ambasciate sopra ambasciate; alla fine gli scrisse che ardeva di desiderio di vederlo, e perciò che s'eleggesse una città de' Veneziani più prossima al Regno, dov'ella si sarebbe portata. Vinto Galeazzo dalle preghiere della moglie, fu di comun consenso eletta Lesina Isola della Dalmazia, ovvero Schiavonia nel Mar Adriatico appartenente a' Veneziani, la quale è posta dirimpetto a Vico Baronia del Marchese suo Padre. Andò Galeazzo a Lesina, aspettò lungo tempo D. Vittoria, la quale non comparve; onde pien di collera se ne tornò in Genevra. Appena che fu quivi arrivato, ecco che viene nuovamente sollecitato da D. Vittoria, pregandolo che si portasse colà, perchè ella in tutte le maniere dovea parlargli per uno scrupolo, che inquietava la sua coscienza; ed adduce più scuse, perchè non potè andare a Lesina.
Galeazzo si arrese, e partì di nuovo da Genevra li 7 di marzo del 1558, ed andò a dirittura a Lesina. Arrivato colà ebbe subito avviso, che il Marchese suo Padre, D. Vittoria e suoi Figliuoli s'erano frettolosamente portati a Vico, onde concepì speranza, che dovessero colà portarsi. Ma ebbe poi Lettere con nuove preghiere, che non avendogli attesa la parola un Nobile Veneziano, il quale l'avea promesso di portarla co' suoi figliuoli a Lesina dentro una Galea della Repubblica, lo pregavan di venire egli a Vico, dove l'aspettavano.
Galeazzo per gran desiderio di veder sua moglie si arrischia d'andare a Vico; qual risoluzione non fu approvata da' savj per non esporsi a' pericoli ed a nuovi assalti, che dovea superare: arrivò dunque a Vico, dove in quel Castello fu ricevuto con segni di molto giubilo da tutti. Il Padre cominciò a persuaderlo; ma vedendo che niente profittava proccurò che D. Vittoria gli dicesse, che il suo Confessore per scrupolo di coscienza le avea detto, che non poteva aver più con lui commercio, se non lasciava l'eresia. Galeazzo non per ciò si scosse, ma con intrepidezza grande gli rispose, ch'era contento del divorzio, e cominciò a parlar di partire. Quando videro ciò, cominciarono il Padre, la Moglie ed i Figliuoli, che se l'inginocchiarono avanti, a piangere, e ad usar ogni sforzo per ritenerlo. Non fu possibile. Egli partì frettolosamente, ed arrivò a Lesina e di là passò a Venezia, indi alla Valtellina a Chiavenna, e si restituì a Genevra.
Poco dopo Galeazzo consultò con Calvino del divorzio; ma Calvino non volle esser solo a risolverlo: fece che si consultasse il caso con altri Ministri nei Svizzeri e Grigioni, sopra tutti con Pietro Martire Vermiglio che si trovava allora a Zuric, e si mandarono a tutti lettere circolari. Unitosi il Concistoro Ecclesiastico, ed anche il Magistrato secolare, fu risoluto che potesse Galeazzo divertire dalla prima moglie, ed avesse libertà di contrarre nuovo maritaggio con altra.
Questo caso fu consultato con i migliori Teologi di que' tempi; ed il famoso Girolamo Zanchio di Bergamo, Professore di Teologia a Strasburgo nell'ottavo tomo delle sue opere porta le ragioni di questo divorzio. Portò la congiuntura, che in Genevra pure per causa di Religione erasi ritirata una Dama Franzese di Rouen chiamata Anna Fremery, vedova, ed in età di circa 40 anni: adunque a' 16 di Gennaro del 1560 Galeazzo si maritò colla medesima: colla quale visse in una perfetta concordia ed unione.
Il Presidente Tuono dopo aver parlato nel suo 9 libro della sorte di Galeazzo e della sua amicizia con Marc'Antonio Flaminio, rapporta ancora nel fine del libro 84 delle sue Istorie quasi che tutte l'avventure di Galeazzo, e fa menzione anche di questo secondo maritaggio.
Visse il resto di sua vita in Genevra con gran moderazione e modestia. Non volea esser chiamato Marchese, poichè vivea suo Padre; e dopo la di lui morte, l'Imperadore ai suoi figliuoli avea fatta la grazia di succedere nel Marchesato suddetto: con tutto ciò, tutti lo chiamavano Mr. le Marquis. Non era personaggio di conto, che passasse per Genevra, che non volesse vederlo, siccome fecero D. Francesco e D. Alfonso da Este fratelli del Duca di Ferrara, il Principe di Salerno, Ottavio Farnese Duca di Parma e di Piacenza ed altri Signori.
Fu in fine assalito da una lunga e grave malattia d'asma, la quale 37 maggio del 1586, mentr'era di 69 anni e 4 mesi, gli tolse la vita.
Dopo undici mesi, morì anche sua moglie Anna Fremery, dalla quale non ebbe figlioli.
Giovanni Jaquemot de Bar-le-Duc, uno de' migliori Poeti de' suoi tempi, per conservar di loro onorata memoria gli compose i due seguenti epitafj.
I
Illustri Domino D. Galeacio Caracciolo, Marchionatus Vici, in Regno Neapolitano, unico et legitimo Hæredi
P. P. L. P
Italiam liqui Patriam, clarosque Penates,
Et laetam antiqua nobilitate domum;
Caesareaque manu porrectos fortis honores
Contempsi, et magnas Marchio divitias;
Ut te, Christe, ducem sequerer, contemptus et exul,
Et pauper varia pressus ubique cruce.
Nam nobis Coeli veros largiris honores.
Et patriam, et census annuos, atque domos.
Excepit profugum vicina Geneva Lemanno,
Meque suo civem fovit amica sinu.
Hic licet exigua nunc sim compostus in urna.
Nec claros cineres alta sepulchra premant,
Me decus Ausoniae gentis, me vera superbis
Majorem pietas Regibus esse facit.
II
Lectissimæ, Matronæ, Annæ Fremeriæ, Illustris Domini D. Galeacii Caraccioli Uxori.
P. P. L. P
Vix vix undecies repararat cornua Phaebe,
Conspicitur tristi funus in Urbe novum.
Anna suum conjux lacrymis venerata maritum,
Indomito tandem victa dolore cadit.
Illa sui cernens properantia tempora lethi
Dixit tunc demum funere laeta suo;
Quam nunc grata venis quam nunc tua jussa libenter,
Mors, sequor, ad sedes nam vehor aethereas.
Hie ubi certa quies concessa laboribus aura,
O conjux, tecum jam meliore fruar.
Pectore quem loto conceperat illa dolorem
Sola superveniens vincere mors potuit.
Il Cardinal di Granvela, appena giunto al governo del Regno, permise, che due vecchie Catalane, che non vollero abjurare il Giudaismo, fossero condotte in Roma, dove persistendo nella loro ostinazione, furono pubblicamente fatte morire.
Parimente nel governo del Duca d'Ossuna, scrisse questo Vicerè una lettera Regia al Governadore di Calabria sotto li 14 novembre del 1583, nella quale gli diceva, che il Cardinal Savelli in nome di Sua Santità gli avea scritto, che per cose toccanti al S. Ufficio v'era bisogno in Roma della persona di Giovan-Battista Spinelli Principe della Scalea: che perciò desiderando egli di dare ogni soddisfazione ed ajuto alle cose toccanti al detto S. Ufficio, gli ordinava e comandava, che portatosi di persona dove quegli si trovava, lo incarcerasse e lo conducesse prigione nella Regia Udienza, e dando malleveria di ducati venticinquemila di presentarsi dirittamente fra un mese nel S. Ufficio della Città di Roma, e non partirsi di là senza licenza di quel Tribunale, lo lasciasse libero, e non dandola, lo ritenesse carcerato, e ne lo avvisasse72.
Questo medesimo Vicerè ordinò ancora a' 9 dicembre del 1585 al Reggente di Vicaria, ch'essendogli stato scritto da Roma dal Cardinal Savelli, che per cause toccanti alla Religione teneva bisogno nel S. Ufficio della persona di Francesco Conte Capitano dell'Isola di Capri, che lo 'ncarcerasse, e dando malleveria di duc. 1000 di presentarsi in quel Tribunale, lo scarcerasse. Consimile ordine spedì a' 8 marzo del 1586 a Callo Spinello Reggente della Vicaria, comandandogli, che mandasse carcerato colla guardia del Capitan di Campagna, o Terra di Lavoro nel S. Ufficio di Roma Francesco Amoroso, Capitano che fu di Pietra Molara, e lo consegnasse a que' Ministri.
Il Conte di Miranda calcò le medesime pedate, e pur che si ricercasse licenza, o Exequatur Regium, che con facilità era conceduto, prestavasi all'Inquisizione di Roma ogni ajuto e favore, in pregiudizio gravissimo del Regno, e de' suoi naturali. Di che poi ne nacquero maggiori disordini, perchè pretendendo la Corte di Roma non istar sottopposte le sue commessioni ed ordini a verun Placito Regio, facea quelli valere, senza ricercarne permesso; onde sovente i Commessarj del S. Ufficio destinati da Roma, la quale soleva per lo più mandar le commessioni a' Vescovi, incarceravano i laici senza licenza del Vicerè, e gli mandavan subito in Roma.
§. III. Inquisizione occultamente tentata da Roma introdursi in Napoli ne' Regni di Filippo III e IV e di Carlo II, ma sempre rifiutata, ed ultimamente con Editto dell'Imperador Carlo VI, affatto sterminata
L'Inquisizione di Roma era a questi tempi arrivata a tanta alterigia, che pretendeva, che gli Re stessi ed i maggiori Monarchi della Terra stessero a quella soggetti. Introdussero perciò un doppio modo di procedere, uno aperto ed a tutti noto, del qual si servivano contro al popolo ed alle vili persone, che condannava a morte; l'altro segreto ed occulto, per lo quale i Re e le persone Regali erano di nascosto condannati; e si trovò anche modo di poter eseguire contra i medesimi le loro condanne, dichiarandoli decaduti dal Regno, con dar permesso a' sediziosi e malcontenti, concedendo loro, per maggiormente invitarli, indulgenze e sicurezza di coscienza, di cacciargli dal Regno, ovvero occultamente d'insidiar loro la vita. Il cui misterioso ed occulto modo di procedere lo appalesò a noi Francesco Suarez73 Gesuita Spagnuolo nel suo libro, che intitolò Defensio Fidei. E Richerio74 rapporta, che per mezzo de' Gesuiti sovente ponessero in pratica questo occulto procedimento, e forse tale fu quello tenuto in Francia contro alla persona di Errico III. Diedesi parimente alla luce nell'anno 1585 un libro stampato in Roma, intitolato Directorium Inquisitorum, dove s'unirono insieme tante sconcezze, che portarono orrore a tutto il Mondo: che l'Ufficio Santo dell'Inquisizione avesse potestà di sentenziare capitaliter in Haereticos, et Fautores Haereticorum: che il Papa ha l'una e l'altra spada spirituale e temporale, per giudicare tutti, anche i Re: che questo S. Ufficio debba procedere per delationem, aut denunciationem et inquisitionem, lasciando da parte stare il procedere per accusationem, perchè questo è un modo multum periculosus, et multum litigiosus: che s'ammettano tutti a render testimonianza, anche i nemici e le persone infami, anche spergiuri, ruffiani, meretrici ed ogni altro: che non debbiasi dar nota dei testimonj e de' loro detti: non si ricevano appellazioni. In breve, rotte tutte le leggi della difesa e tutti gli ordini giudiziarj, senza ordine e senza dependenza d'alcuno, gl'Inquisitori procedessero. Quindi si videro in Roma nella fine di questo secolo strepitose esecuzioni contra i sospetti d'eresia, fra' quali fu Giordano Bruno da Nola Domenicano, il quale nell'anno 1600 fu bruciato in Roma, essendogli stato imputato, che insegnasse la pluralità de' Mondi, e tenesse che i soli Giudei erano discesi da Adamo, e che Mosè fosse stato un gran Mago75.
Quindi nel nostro Regno non si proccurava più Regio Placito alle loro commissioni, e si procedeva con tal'independenza, siccome in tempo del governo del Duca d'Alba nel 1628 faceva il Vescovo di Molfetta, come Commessario del S. Ufficio di Roma, ed il Nunzio Appostolico di Napoli. E pretendendo ostinatamente poterlo fare, bisognò che s'impegnassero prima i migliori Giureconsulti di que' tempi a farne veder gli abusi, e poi il Re istesso a levarli. Diede alle stampe con tal'occasione Fabio Capece Galeota, allora Regio Consigliere ed Avvocato del Regal Patrimonio, un suo Discorso indrizzato al Duca d'Alba, ed alcune allegazioni: parimente il Presidente di Camera Vincenzo Corcione diede fuori altre sue allegazioni, mostrando essere contra non meno al dritto, che all'inveterato costume del Regno, poner mano ad incarcerarsi nessuna persona di quello per causa d'eresia, senza prima darne notizia al Vicerè che governa, e con sua licenza.
Dal che ne nacque una carta del Re Filippo III, per la quale fu ordinato, che gli ordini del S. Ufficio di Roma non potessero in verun modo eseguirsi nel Regno senza saputa del Vicerè: dichiarandosi, che ciò non s'intendeva per gli Tribunali del S. Ufficio della Corte de' Vescovi ed Arcivescovi del Regno, li quali facendo il loro ufficio ordinario per le cause di religione non han bisogno d'Exequatur Regium. Ma che non possano eseguire quel che loro vien commesso dalla Congregazione, o da Sua Santità da Roma senza darne parte a Sua Eccellenza76.
Non fu per questa carta del Re Filippo III bastantemente rimediato a' pregiudizj del Regno: poichè non per ciò all'Inquisizione di Roma si proibivano le Commessioni a' Vescovi, che procedessero come loro Delegati, ma contenti solo dell'Exequatur, si dava loro tutto il favore, i processi li fabbricavano essi, s'imprigionava, ed i carcerati si mandavano a Roma: quando per le lettere del Re Filippo II a' soli Vescovi del Regno, come Ordinarj, non come Delegati del S. Ufficio di Roma, dovea permettersi il procedere nelle cause di Religione.
Videsi ciò nell'anno 1614 nella famosa causa di Suor Giulia di Marco da Sepino, nel Terz'Ordine di S. Francesco, del P. Agnello Arciero Crocifero, e del Dottor Giuseppe de Vicariis, li quali in Napoli, facendo mal uso della Mistica, diedero in mille spropositi e laidezze; ed avean dato principio ad una abbominevol Compagnia, alla quale aveano arrolati più loro discepoli, e maschi e femmine. Procedeva in quella Fr. Diodato Gentile Vescovo di Caserta, il quale dimorava in Napoli con carica de' negozj del S. Ufficio, conferitagli dall'Inquisizione di Roma, dalla quale prima gli venne imposto, che Suor Giulia si chiudesse in Monastero; e da poi per ordine della medesima Inquisizione fu fatta trasferire a Cerreto in altro Monastero. Il P. Agnello fu chiamato dal S. Ufficio di Roma, ove si presentò, da cui gli fu tolta la facoltà di udir più confessioni, e gli fu imposto, che non tornasse più in Napoli. Creato da Paolo V il Vescovo di Caserta Nunzio di Napoli, fu data la carica d'Inquisitore al Vescovo di Nocera Fr. Stefano de Vicariis, il quale proccurò da Roma licenza, che Suor Giulia si fosse trasportata in Nocera, come fu eseguito. Ebbe Giulia partigiani molto potenti, fra' quali fu Fabio di Costanzo Marchese di Corleto, e Reggente Decano del Consiglio Collaterale, il quale ottenne alla Congregazione del S. Ufficio di Roma, di cui allora era Capo Inquisitore il Cardinal d'Aragona, che Giulia potesse ritornare in Napoli, siccome tornò, e D. Alfonso Suarez allora Reggente e Luogotenente della Regia Camera le diede un comodo appartamento nel suo Palazzo, dove, per l'opinione della sua finta santità, tirò a se gran concorso non meno di Signori grandi e di Nobili, e particolarmente di Spagnuoli, ch'erano il più inclinati a simili Fanatismi, ma anche di Dame, e gentili donne. Ma i PP. Teatini per mezzo delle confessioni, che alcuni incauti discepoli di Suor Giulia fecero ad essi, scovrirono le laidezze, che si commettevano in quella Compagnia, ed indussero coloro a denunciarli a Monsignor Vescovo di Nocera Inquisitore, e presero l'assunto di fargli vedere co' proprj occhi nelle stanze di Suor Giulia l'empie nozze, e gl'infami congiungimenti d'uomini e donne. E fatto questo, sospettando i Teatini del Vescovo di Nocera, da essi creduto troppo parziale del partito di Suor Giulia, scrissero in Roma a' Cardinali del S. Ufficio ragguagliando loro di quanto occorreva, li quali commisero quest'affare a Monsignor Maranta Vescovo di Calvi, il quale come Delegato dell'Inquisizione di Roma cominci a procedere.
Ebbero i Teatini in questa causa per oppositori i PP. Gesuiti, li quali, essendo loro emuli antichi, favorivano Suor Giulia, ed avevano aggregato al loro Oratorio Giuseppe de Vicariis: e tanto più vigorosamente n'intrapresero la difesa, quanto che vedevano, che il Vicerè istesso, il Conte di Lemos, indotto da' partigiani di Giulia n'avea presa la protezione; poichè avendo il Vescovo Maranta voluto procedere all'esame de' testimonj, fu tosto chiamato dal Vicerè, che gli domandò, se egli procedeva con commessione del S. Ufficio di Roma. Ma il Maranta oltre avergli mostrato le commessioni di Roma, scoprì al Vicerè le scelleraggini, che si commettevano in quella Compagnia, avanzandosi insino a dirgli, che non facesse praticare i discepoli di Suor Giulia con la Viceregina sua moglie. Il Vicerè sorpreso per tal avviso, dando fede alle parole del Vescovo gli permise, ch'incarcerasse tosto Suor Giulia e Giuseppe de Vicariis, li quali furono portati nella prigione dell'Arcivescovado.
Questa sì improvisa carcerazione pose in romore la città; poichè i partigiani di Giulia, ch'erano per lo più Signori, Ufficiali e Religiosi di Ordini cospicui, commossero tutta la città, ed altamente strepitando d'un cotal modo di procedere di fatto, ricorsero dal Vicerè, dicendogli, che ciò che s'imputava a coloro, era tutta calunnia e malignità de' PP. Teatini, li quali s'eran mossi per livore ed invidia, ch'essi hanno contra i Gesuiti, e per levar loro il concorso, che avevano per cagione de' discepoli di Suor Giulia, che frequentavano le coloro Chiese. Furono così efficaci e calorosi questi ufficj presso il Vicerè, che cominciò a dubitare, non fosse ciò tutta impostura dei Teatini, per iscreditare i Gesuiti; onde tornò a chiamarsi il Vescovo Maranta, e parlatogli con molta severità e rigidezza, colui per sua discolpa, e per maggiormente renderlo certo, che non eran calunnie, gli diede il processo da lui fabbricato contra de' rei, acciocchè si rimanesse di favorirli. Il Vicerè lo diede ad osservare a' suoi Ministri, onde facilmente vennero i protettori di Giulia a sapere le denuncie, ed i testimoni, e per ciò s'accinsero ad una valida difesa, ed elessero per Avvocato de' Rei il famoso Scipione Rovito.
Dall'altra parte i Teatini, sopra i quali veniva a cader la tempesta, diedero immantenente avviso agl'Inquisitori di Roma de' disordini accaduti per avere il Maranta pubblicato il processo: ciocchè dispiacque a Roma; onde ordinarono al Vescovo di Calvi, che più non s'intromettesse in questa causa, anzi lo chiamarono in Roma a renderne conto; e nell'istesso tempo delegarono la causa a Monsignor Nunzio, con ordinargli, che in quella severamente procedesse, secondo le leggi di quel Tribunale.
Il Nunzio, senza che gli si facesse ostacolo alcuno, procedè come Delegato nella causa, secondo l'ordine del S. Ufficio di Roma: prese nuova e più rigorosa informazione; trasferì dal carcere dell'Arcivescovado Suor Giulia e Giuseppe e li rinchiuse nel carcere del suo Palazzo, e datone avviso in Roma, gli fu dagl'Inquisitori comandato, che con buone guardie e sicure cautele mandasse i prigioni al S. Ufficio di Roma, dove ancor essi aveano in duro carcere ristretto il P. Agnello già Confessore di Suor Giulia. Eseguì il Nunzio con molta segretezza di notte tempo l'ordine di Roma, e prima giunsero in Roma, che si sapesse in Napoli il loro trasporto. Appena ciò saputosi da' partigiani di Giulia, che immantinente loro corsero dietro Girolamo di Martino, e D. Giovanni Salamanca per assistere alla lor difesa: ma giunti appena in Roma, furono anch'essi dagl'Inquisitori imprigionati; sebbene alquanti mesi da poi, a' 14 marzo del seguente anno 1615 il Salamanca fu liberato, con sicurtà di tremila scudi di Camera di presentarsi in Roma ad ogni ordine degl'Inquisitori, ed il Martino a' 11 aprile, con maggior sicurtà, e colle medesime condizioni.
Paolo V con particolar attenzione fece esaminare con molta diligenza ed assiduità dagl'Inquisitori la causa e convinti i rei de' loro falli, furono dichiarati eretici il P. Agnello, Suor Giulia, e Giuseppe de Vicariis; e, come tali, furono condannati alla pubblica abjura, ed a carcere perpetuo: onde a' 12 luglio dell'anno 1615 essendosi fatto ergere nella Chiesa della Minerva un più solenne apparato, in presenza del Collegio de' Cardinali, di molti altri principali Signori e d'un infinito Popolo, tutti e tre abjurarono i loro errori e nelle abjure confessarono tutte le loro sporcizie, ed i loro mistici delirj, ed affinchè i partigiani di Suor Giulia finissero di credere la sua falsa santità, per ordine dello stesso Pontefice furono a' 9 agosto letti nel Duomo di Napoli, non senza stupore ed ammirazion di tutti, i sommarj de' loro processi.
La somma accortezza e vigilanza della Corte di Roma, ed all'incontro la trascuraggine, o sia connivenza fra noi usata da' Ministri Regj, fece sì, che non ostanti gli editti de' nostri Re, si tollerassero in Napoli e nel Regno Inquisitori deputati da Roma e che sovente come Delegati procedessero contra gl'Imputati d'eresia o d'ebraismo, sino a permettere, che incarcerassero i Rei e li mandassero in Roma, dov'erano condannati ad abjurare nella Chiesa della Minerva: di che, se non fosse il rispetto d'alcune famiglie, che ancor durano, potrebbero recarsi molti esempj.
Ma nel Regno di Filippo IV l'indiscreto procedere di Monsignor Piazza, Ministro deputato da Roma per affari del S. Ufficio, pose di nuovo in romore la Città, tanto che i Napoletani fatti più accorti, attesero da dovero a toglier dal Regno ogni reliquia d'Inquisizione. Costui venuto in Napoli nel 1661, mentre governava il Regno il Conte di Pennaranda, pose sua residenza nel Convento de' PP. Girolamitani del B. Pietro di Pisa, dove riceveva le denunzie, e procedeva per commessione di Roma contra i sospetti d'eresia: avvenne in quell'anno, che un Religioso diede a leggere ad un Bolognese, che dimorava in Napoli, certo libro, ed avendo paruto a costui, che in quello vi fossero sentimenti poco cattolici, senz'altro riguardamento tosto andò a denunziare il Frate a Monsignor Piazza, ed a consignargli il libro. Trascorsi alquanti giorni chiese il Frate al Bolognese il libro; ma costui allegando varie scuse, differiva la restituzione; onde vedendosi il Frate burlato, trovandosi amico del barbiere del Duca delle Noci, andò da lui a chiedergli ajuto. Il barbiere con sua comitiva portossi immantenente dal Bolognese e minacciandolo agramente se non restituiva il libro, lo costrinse a prometterglielo il dì seguente. Tosto il Bolognese andò a pregare Monsignor Piazza, che gli desse il libro, narrandogli l'angustie, nelle quali si trovava, e che sarebbe capitato male, se non lo restituiva al padrone. Ma Monsignor Piazza in vece di dargli il libro, pose in aguato alcuni suoi Cursori, dando loro ordine, che arrestassero non meno il barbiere, che tutti coloro, che avevano insultato il denunciante, siccome in effetto furono imprigionati.
Una sì imprudente e scandalosa carcerazione riferita al Duca delle Noci, lo fece entrare in tanta stizza, che fattene gravi doglianze con molti Nobili, fece tosto unir le Piazze, ed egli spronato dall'ira portossi immantenente dal Vicerè, al quale, non potendo reprimer l'impeto della sua passione, parlò con sentimenti troppo audaci, e poco rispettosi: il Vicerè sorpreso di tanto ardire, prevedendo l'incendio, che ne poteva nascere, dissimulando discretamente la colui arroganza, per quietarlo, fece tosto per ambasciata avvertito Monsignor Piazza, che liberasse prigioni, come fu eseguito.