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Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8», sayfa 9

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Ma ciò non bastò per acchetar la città posta in romori e sospetti, che si volesse per queste esecuzioni di fatto e di processi occulti poner Inquisizione formata, contro alle grazie, che n'avea ricevute dal Re Cattolico, dall'Imperador Carlo V, e dal Re Filippo II, e che perciò bisognava toglier ogni reliquia d'Inquisitori, appartenendosi la conoscenza delle cause di Religione a' Vescovi, i quali senza delegazione lor venuta da Roma, per la loro potestà debbiano procedere per via ordinaria, senza giudicj occulti, siccome procedono negli altri delitti Ecclesiastici. Ed essendosi perciò unite le Piazze, furono creati Deputati, affinchè rappresentassero al Vicerè li sentimenti della città ed attendessero sopra quest'importante affare con la maggior diligenza e vigilanza. I Deputati esposero al Conte di Pennaranda i sensi della città, risoluta a non soffrire più Inquisitori, rammentandogli gl'inconvenienti passati e l'abborrimento de' sudditi al nome d'Inquisizione. Il Conte veduta così costante risoluzione reputò con molta saviezza soddisfargli, ed avendone di ciò fatte lunghe rappresentazioni al Re, fece intanto intendere a Monsignor Piazza, che ratto sgombrasse la città e 'l Regno, siccome di fatto ne fu mandato via. E nell'istesso tempo crucciato col Duca delle Noci e con alcuni de' Deputati, che troppo arditamente e con soverchio ardore avean promosso quest'affare, fece porre il Duca nel Castel Nuovo, e poscia il mandò prigione in Ispagna, dove poi essendosi giustificato delle imputazioni, che gli si davano, tornò libero nel Regno nel mese di novembre dell'anno 1663. De' Deputati alcuni ne fur fatti prigioni, altri sequestrati nelle lor case e D. Tiberio Caraffa Principe di Chiusano, D. Rinaldo Miroballo e D. Andrea di Gennaro, per isfuggire i primi rigori del Vicerè si ricovrarono in Chiesa. Ma essendo alle rappresentazioni fatte al Re venute clementissime risposte, per le quali Filippo IV dichiarava, che non si dovesse sopra ciò permettere novità alcuna, e che dovessero alla città e Regno inviolabilmente osservarsi le ordinazioni de' suoi predecessori Monachi, e spezialmente del Re Filippo II suo avolo; il Vicerè con suo particolar biglietto77 ne diede notizia agli Eletti della Città ed a' suddetti Deputati, li quali essendo stati reintegrati nel favore del Conte, coll'occasione della natività del Re Carlo II andarono a rendergliene le dovute grazie. E si credette con ciò, che per l'avvenire non si dovesse Roma più impacciare di mandar nel Regno Inquisitori, o spedir delegazioni e commessioni a' suoi Vescovi per affari di Religione.

Il discacciamento di Monsignor Piazza fece arrestare alquanto gl'Inquisitori di Roma, ma non per ciò tralasciar affatto la pretensione, e di tentare, quando gli veniva in acconcio, nuove imprese. Si vide ciò chiaramente nel Regno di Carlo II per l'occasione di una nuova Filosofia introdotta in Napoli, la quale ponendo in discredito la Scolastica professata da' Monaci, non molto poteva piacere a Roma.

L'Accademia instituita in Napoli sotto il nome di Investiganti, della quale se ne dichiarò protettore il Marchese d'Arena, tolse la servitù, infin allora comunemente sofferta di giurare in verba Magistri, e rendette più liberi coloro che vi s'arrolavano di filosafare, postergata la Scolastica, secondo il dettame della ragione. Gli Accademici ivi aggregati erano tutti uomini dottissimi, ed i più insigni letterati della città, onde s'acquistarono molto credito presso gl'intendenti, e sopra tutto presso i giovani, a' quali non bisognò penar molto, per far loro conoscere gli errori ed i sogni della filosofia de' Chiostri. Aveano in Francia le Opere di Pietro Gassendo acquistata grandissima fama, così per la sua molta erudizione ed eloquenza, come per aver fatta risorgere la Filosofia d'Epicuro la quale al paragone di quella d'Aristotele, e spezialmente di quella insegnata nelle Scuole, era riputata la più soda e la più vera. Si proccurò farle venire in Napoli, e quando furono lette, fu incredibile l'amor de' giovani verso questo Scrittore, presi non men dalla sua dottrina, che dalla grande e varia letteratura; onde in breve tempo si fecero tutti Gassendisti; e questa filosofia era da' nuovi filosofanti professata; ed ancorchè Gassendo vestisse la filosofia d'Epicuro con abiti conformi alla religion cattolica, che professava, nulladimeno, poichè il maggior sostenitore di quella era Tito Lucrezio Caro, si diede con ciò occasione a molti di studiar questo Poeta, infin a que' tempi incognito, e sol a pochi noto. Gl'Investiganti però, non men di quello, che avea fatto Gassendo, scoprivano gli errori del Poeta, e gli detestavano a' giovani ed insegnavano, che quella filosofia non fosse da seguirsi in maniera, sì che non dovesse sottoporsi alla nostra Religione.

(Con tutto che dagli Accademici Investiganti fosse usata in ciò molta precauzione e prudenza; non poterono i giovani Napoletani sfuggire i falsi rapporti, che spargevano per Europa i Monaci, accaggionandoli, che per questi studj non ben sentivano dell'immortalità dell'anime umane. Sicchè Antonio Arnaldo in quell'accurato e dotto Libro, Difficultés proposées a Mr. Steyaert, declamando contra gli abusi introdotti in Roma di proibir i Libri senza discernimento, si duole, che Roma avea proibite le Opere di Renato delle Carte, per le quali era dimostrata quest'immortalità; ed all'incontro i Libri di Gassendo giravan franchi e liberi, con tutto che per le relazioni, che venivano da Napoli, erano assicurati, che avessero cagionato nella gioventù napolitana gran danno per le opinioni contrarie surte per la lettura dell'Opere di Lucrezio e di Gassendo).

Lo facevano ancora atterriti da ciò ch'era accaduto al famoso Galileo de' Galilei, il quale mal grado della sua veneranda canizie, fu costretto abjurar in Roma la sua opinione intorno al moto della Terra

Ma non trascorsero molti anni, che furono in Napoli portate l'opere di Renato des Cartes, e narrasi, che Tommaso Cornelio, famoso medico e filosofo di que' tempi fosse stato il primo ad introdurvele. Si diedero perciò i giovani, e spezialmente i Medici, a studiarle, e in poco tempo abbandonata la filosofia di Epicuro, s'appigliarono a quella di Renato; e coloro che prima erano Gassendisti, divennero a lungo andare fieri ed ostinati Renatisti.

Il vedersi per questi nuovi studj non solo abbandonate le Scuole de' Monaci: ma essi derisi per le tante fole che insegnavano, si cagionò un odio implacabile dei Frati contro a novelli filosofanti, a' quali imputavano perciò molti errori di Religione, cavillando ogni loro proposizione, e trattandoli da miscredenti.

Tanto bastò agl'Inquisitori di Roma, perchè ripigliassero le loro armi, e di nuovo tentassero d'introdurre in Napoli Commessarj del S. Ufficio per invigilare sopra gli andamenti di costoro. E non pur lo tentarono, ma svelatamente vi stabilirono un loro Inquisitore, il quale riceveva le denuncie, imprigionava, e quel ch'era più teneva in S. Domenico maggiore suo proprio carcere. Era costui Monsignor Gilberto Vescovo della Cava, il quale esercitava quest'ufficio con processi occulti e con tanto rigore e petulanza, che sovente costringeva molti con loro ignominia ad abjurare, solo perchè sostenevano opinioni filosofiche contrarie a quelle delle Scuole, ancorchè in quelle niun difetto di miscredenza si potesse notare; di che spesso sentivansi in Napoli, querele e disordini.

Mossi da ciò i Deputati del S. Ufficio ebbero ricorso al Conte di San Stefano, che allora si trovava Vicerè, al quale avendo esposti i desiderj della città determinata di non voler Inquisitore alcuno, ancor che con limitata facoltà, ma che nel Regno i Negozj di religione dovessero trattarsi per le vie ordinarie da' suoi Vescovi, gli fecero istanza, che il Vescovo della Cava prestamente uscisse dalla città e dal Regno, si togliesse la prigione che teneva in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero nelle carceri dell'Arcivescovo di Napoli, per doverli colui punire secondo il prescritto de' Canoni, e con via ordinaria. Il Vicerè avendo proposto l'affare nel Collateral Consiglio, con accordo del medesimo, ordinò, che uscisse tosto da Napoli e dal Regno l'Inquisitore, s'abolissero le carceri in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero in quelle dell'Arcivescovo, siccome fu eseguito; di che il Conte con suo particolar biglietto78, spedito a' 27 di settembre dell'anno 1691, ne diede avviso agli Eletti, perchè la città rimanesse consolata della risoluzione presa conforme a' suoi desiderj.

Rappresentò ancora il Conte al Re Carlo II tutto ciò, ed il Re con sua real carta spedita da Madrid sotto li 25 Marzo del seguente anno 1692, non solo approvò tutto l'operato, ma ordinò ancora, che per l'avvenire s'osservassero inviolabilmente li privilegi sopra ciò conceduti alla città e Regno da' suoi predecessori; e che si passassero ufficj col Cardinal Arcivescovo di Napoli, che prendesse egli la conoscenza delle cause di que' carcerati; e che il Nunzio non si intromettesse affatto nelle cause d'Inquisizione; e per via del medesimo (siccome anche egli avea ordinato al Duca di Medina Celi suo Ambasciadore in Roma, che lo facesse) si facesse sentire al Pontefice, con renderlo certo, che la repugnanza di non ammettere Inquisitore alcuno in Napoli, era di tutta la città, non già d'alcuni particolari, siccome gli Ecclesiastici l'aveano dato a sentire79.

Parimente essendosi per opera degl'Inquisitori di Roma fatti carcerare in Madrid due Napoletani, il Dottor Basilio Giannelli e Gio. Battista Menuzio, e correndo lo stesso pericolo Francesco Sernicola Inviato della città alla Corte, ebbero ricorso i Deputati del S. Ufficio al Re, rappresentandogli il gran rammarico di tutta la città per questo modo di procedere dell'Inquisizione di Roma, e pregandolo della loro scarcerazione. Ed il Re clementissimamente spedì altra sua regal carta sotto li 27 dello stesso mese, diretta al Conte di S. Stefano Vicerè, colla quale ratificando ciò che nella precedente avea comandato, consolò questo Pubblico avvisando, come il Menuzio era già libero, e che per ciò che riguardava la persona del Giannelli, avea già fatti passare con l'Inquisitor Generale premurosi ufficj, che senza dilazione lo scarcerasse, siccome fu poco da poi eseguito80.

Ma tante risolute repulse, tanti pressanti e vigorosi ordini de' nostri Re, e la cotanta vigilanza de' Deputati nè meno bastò per far quetare gl'Inquisitori Romani. Essi non valendo loro più il procedere, come prima, alla svelata, con occulte e sottili invenzioni tentarono nuovi modi. Fecero nell'anno 1695 pubblicare un Editto in Roma, nel quale, secondo il procedere di quel Tribunale, si prescrivevano a' Vescovi ed Inquisitori varj regolamenti, come dovessero esercitare il lor Ufficio; e poichè riputano, che a' loro Editti, in tutta la Repubblica Cristiana, non vi sia bisogno di Placito Regio, ma che basti la pubblicazione fatta in Roma, per obbligar tutti; perciò occultamente tentarono, che tal Editto senza il Regio exequatur si pubblicasse in una Diocesi del Regno.

Parimente trovarono espediente di mandar le loro Commessioni agl'istessi Vescovi, imponendo loro che procedessero non come Ordinarj, ma come loro Delegati; e di vantaggio negli stessi Tribunali de' Vescovi vi creavano Ufficiali loro dipendenti con commessioni del S. Ufficio, valendosi per lo più di Frati e di Monaci.

Bisognò per tanto, che s'avesse nuovo ricorso al Re per estinguerne ogni vestigio e reliquia. L'opera fu cominciata nel Regno di Carlo II, ma ebbe il suo perfetto compimento nel Regno del nostro Augustissimo Imperadore Carlo VI. Sin da che entrarono nel Regno le sue felicissime armi, la città, come d'un affare importantissimo, lo tenne sollecito, perchè affatto spegnesse fra noi ogni vestigio d'Inquisizione.

Per far argine al primo inconveniente, spedì una sua regal carta da Barcellona a' 27 agosto nel 1709, drizzata al Cardinal Grimani Vicerè, per la quale colla maggior precisione e premura espressamente comandò, che non si desse esecuzione alcuna a qualunque Bolla, Breve, o altra Provisione che venisse da Roma, concernente affari d'Inquisizione, o che avessero la minima, anzi la più remota connessione, con l'idea d'introdurla nel Regno81.

Per rimovere il secondo attentato d'introdurre nelle Corti vescovili Ufficiali dipendenti dall'Inquisizione di Roma, vi rimediò efficacemente il Cardinal Grimani Vicerè; poich'essendosi da' Napoletani scoverto, che un cotal Frate Teresiano Scalzo chiamato F. Maurizio frequentava spesso l'arcivescoval Corte di Napoli, con delegazioni segrete del S. Ufficio di Roma, del quale si vantava esser egli Commessario, fecero che immantenente l'Eletto del Popolo ricorresse dal Vicerè, affinchè ne cacciasse via il Frate, e facesse insinuare alla Corte arcivescovile, che nelle cause di S. Ufficio procedesse con via ordinaria, senza aver bisogno d'altri Ufficiali straordinari. Il Vicerè avendo tosto unito un Collaterale straordinario, con accordo del medesimo, s'uniformò a' desiderj della città, ed ordinò, che Fr. Maurizio fra due giorni diloggiasse dalla città, e otto dal Regno, siccome fu prontamente eseguito, ed il Cardinale con suo particolar biglietto82, spedito a' 2 agosto del medesimo anno, ne diede avviso all'Eletto, per consolare il Popolo, della resoluzione presa.

Ma intanto non si tralasciava da' Deputati di pregare in Barcellona il Re, affinchè, per togliere ogni pretesto, che gli Ecclesiastici, con le loro sottili invenzioni, non li sovverchiassero ed opprimessero, degnassesi con suo regal dispaccio apertamente ordinare, che per l'avvenire nelle cause di Fede si proceda dagli Ordinari, per la via ordinaria, conforme si procede negli altri delitti comuni, e sta disposto dai sagri Canoni.

Il Re consentì alla domanda, e confermando alla città tutti i privilegi sopra ciò lor conceduti da' Re suoi predecessori, e spezialmente quello di Filippo II, precisamente ordinò al Cardinal Grimani suo Vicerè, che non permettesse de ninguna manera, que en las causas pertenecientes a nuestra Santa Fee, procedan sì no los Arzobispos, y demas Ordinarios de esse Reyno, como Ordinarios, con la via ordinaria, que se practica en los otros delitos, y causas criminales Ecclesiasticas, come si legge nel suo diploma83 spedito in Barcellona a' 15 settembre del riferito anno 1709. Per le quali ultime parole, che non si leggevano nel diploma di Filippo II, si tolse ogni pretesto agli Ecclesiastici di cavillare gli antichi privilegi, e d'inventare nuove sottigliezze.

Così rimase affatto estinto e dileguato presso di noi ogni vestigio d'Inquisizione; ma con tutto ciò non rimangono i Deputati, che con tanto zelo ed oculatezza invigilano sopra quest'affare, sicuri e fuor d'ogni timore di nuove sorprese. Per ciò bisogna esser perseveranti, e con indefessa applicazione in vigilar sempre su gli andamenti degli Ecclesiastici; li quali, per esser pur troppo accorti e diligenti, non tralascieranno le occasioni, quando lor verrà in acconcio, di tentar improvvisamente altre nuove e non pensate imprese.

CAPITOLO VI
Nuova spedizione di Solimano collegato col Re di Francia sopra il Regno di Napoli, sollecitata dal Principe di Salerno, che si ribella. Nuovi donativi per ciò fatti dal Regno, per lo bisogno della guerra, che finalmente si dilegua

Dopo l'impresa dell'Affrica, e la guerra che Cesare nel 1552 ebbe a sostenere con Maurizio Duca di Sassonia, per sostegno della quale si mandarono pure da Napoli cinquantamila ducati, quando, essendo cessati i rumori per cagione dell'Inquisizione, si credeva doversi nel Regno godere una tranquilla e riposata pace, s'intesero nuovi apparecchi d'una guerra assai più spaventosa di quante mai ne furono; poichè i Principi, che insieme aggiunti la mossero, erano i più potenti e formidabili in Europa. Morto Francesco I Re di Francia, Errico II suo successore ereditò insieme col Regno l'odio e l'inimicizia con Cesare molto maggiore, che il suo predecessore; e acciocchè se gli facilitasse l'impresa, che meditava sopra lo Stato di Milano, erasi a' danni di Cesare collegato con Solimano, con cui fatto trattato, avevano conchiuso d'assalire per mare il Reame di Napoli, ed unire insieme le loro armate, quella di Francia dovea moversi da Ponente, nell'istesso tempo che quella di Solimano si movea da Levante. Infiammò maggiormente gli animi, e fu sollecitata la spedizione dal Principe di Salerno, il quale per private inimicizie che nudriva col Vicerè, datosi a credere, che essendogli stata tirata una archibugiata, mentre da Napoli ritornava a Salerno, per la quale restò leggermente ferito, il colpo fosse venuto dal Toledo, e non trovando nella Corte di questa accusa facile credenza, per le insinuazioni in contrario mandate dal Vicerè, rimanendo per ciò mal soddisfatto, guarito che fu, partì dal Regno, con iscusa di volersi andare a curare in Padova d'una simulata lesione di nervi restatagli dalla ferita; e quando chiamato dall'Imperadore, con ubbidire alla chiamata, avrebbe potuto superare le inquisizioni ed i sospetti, che il Vicerè gli addossava, egli mandando alla Corte Tommaso Pagano, che con impertinenza grande voleva, che Cesare gli promettesse di farlo venire su la sua parola, di che alterato Cesare gli rispose come si conveniva, mal sofferendo il Principe la risposta, con non minor imprudenza che leggerezza, risolvette di non andarvi; e per ciò, ribellandosi da Cesare, deliberò di andare a servire Errico Re di Francia; onde abboccatosi col Cardinal di Tournon, con gran prestezza se n'andò in Francia, ove da quel re fu ricevuto con onore; al quale dando per facile l'espedizione di Napoli, l'infiammò sì, che apparecchiate alcune Galee, gli diede il comando di quell'armata, che dovea venire ad incontrarsi coll'armata del Turco. Per iscusare questo suo fallo diede fuori un manifesto, dove si sforzava di mostrare d'aver prestati molti servigi e fatti d'armi in onor di Cesare, ed all'incontro averne da lui e da' suoi Ministri ricevute pessime ricompense di che avutone notizia il Vicerè, che godè molto di sua pazza risoluzione, soleva dire, che il Principe di Salerno si avea dimenticato nel manifesto di mettervi un più importante servigio fatto all'Imperadore, ed era quest'ultimo, ch'ei riputava il maggiore, cioè di avergli donato un Principato così bello e grande come era quello di Salerno. Però nè all'Imperadore, nè al Vicerè questa sua ribellione sembrò cosa nuova, avendolo sempre in sospetto, e per affezionato al Re di Francia, di cui non finiva mai di lodarne il valore e la liberalità. Fu per tanto egli dichiarato ribelle, e condannato a morte, e confiscato il Principato di Salerno col rimanente del suo Stato.

Il Vicerè avvisato di questi apparecchi, non meno del Re di Francia che del Turco, considerando, che la confederazione di questi due potenti nemici avea da partorire molti travagli nel Regno, non perdè tempo a fortificarsi; e poichè il più efficace rimedio era di tener pronta una sufficiente quantità di denaro, per fare una valida difesa, perciò avendo convocati tutti i Baroni, ed esposto loro, che la confederazione di questi due potentissimi Principi non era per dissolversi così presto, nè per mancamento di forze, nè di volontà, e che il lor disegno non era altro, che di conquistare il Regno, per ciò bisognava trovar il rimedio avanti che sopravvenisse la necessità; e il rimedio sarebbe d'unire una somma di trecentomila ducati, con che si potessero mantenere trentamila uomini, i quali sarebbero destinati solamente alla difensione di questo Regno, in caso che fosse all'improvviso assaltato da esercito nemico, e che questi denari sarebbero conservati da uomini deputati dalla città in cassa comune; soggiungendo, che solamente la fama di questo preparamento sarà cagione che gli nemici pensino molto bene ad assalirci, e forse sgomentati desisteranno dall'impresa. Piacque la proposta del Vicerè a tutti; onde con grandissima prestezza si misero in cassa comune i denari, i quali ancorchè non servissero allora, furono da poi ne' seguenti anni cagione della salute del Regno, contro la lega di Francia, di Papa Paolo IV e d'altri Principi d'Italia, come diremo più innanzi.

Mentre in Napoli s'attendeva a far queste provvisioni, venne l'avviso, che l'armata del Turco sollecitata non men da Errico Re di Francia, che dal Principe di Salerno, era uscita da Costantinopoli; e pochi giorni da poi, a' 15 luglio di quest'anno 1552, fu veduta da' Napoletani numerosa di 150 Galee grosse guidate da Dragut Rais sotto il comando di Sinam Bassà, ed ancorata ne' mari di Procida, pose spavento grandissimo nella città; ed intanto alcune Galee venivano quasi ogni giorno sino al Capo di Posilipo a scaramucciare con alcune Galee di Genova, che quivi si trovavano. Dimorò l'armata del Turco ne' mari di Procida dalli 15 di luglio insino a' 10 di agosto, nel qual giorno si vide all'improvviso partire, facendo vela verso Levante. Fu fama, che ciò seguisse per opera di Cesare Mormile, il quale entrato in competenza col Principe di Salerno, e mal soddisfatto del Re di Francia, che lo avea posposto al Principe, partito di Francia erasi ricovrato in Roma, dove con l'Ambasciadore di Cesare, e col Cardinal Mendozza trattò della sua reintegrazione nella grazia dell'Imperadore; ed avendo ottenuto da Cesare ampio privilegio non solo dell'indulto, ma anche della restituzione di tutti i suoi beni, ed assicurato anche con lettere del Vicerè, venne da poi incognito in Napoli a maneggiare con quel Bassà la sua partita; il quale, avendogli il Mormile offerto in nome del Vicerè, purchè partisse, ducentomila ducati, contentandosi dell'offerta, sborsati che gli furono, partì colla sua armata verso Levante, liberando con ciò tutto il Regno da grandissimi travagli. Il Mormile fu molto accarezzato dal Vicerè; ma poichè fra di loro per le cose precedute non era affatto estinta l'antica nemicizia, nell'esecuzione del privilegio gli furon fatti molti ostacoli, tanto che non solo non potè ricuperare i suoi beni, che si trovavano già venduti, ma travagliò molto per averne un secco contraccambio.

Intanto il Principe di Salerno, ch'era stato mandato dal Re di Francia colle sue Galee ad incontrare l'armata Turchesca, giunto ne' mari di Genova, intese che quella era già partita verso Levante; con tutto ciò volle seguirla, ed otto giorni da poi, che l'armata del Turco partì dal Golfo di Napoli, fu sopra Ischia con 26 Galee, ed informato meglio da Roma dell'accordo fatto col Mormile, tanto più pien di cruccio le corse dietro, e passato il Faro, nè trovandola, proseguì il cammino fin che la raggiunse; ma nulla potè impetrare dal Bassà, perchè facesse ritorno, rispondendo, ch'essendo già uscito d'Italia, non poteva ritornar indietro, senza nuovo ordine del suo Signore: lo persuase per tanto a venire in Costantinopoli, perchè l'anno seguente Solimano gli avrebbe dati più validi ajuti. Andò il Principe in Costantinopoli, ove stette tutto l'inverno aspettando la promessa di Solimano; ma la sua dimora in quella Città fece scovrire la sua vanità e leggerezza; poichè datosi agli amori ed alle dissolutezze, perdè presso quel Principe tutto il credito e la riputazione; e fatto già favola del volgo, entrò in sommo disprezzo di tutti; tal che al tempo promesso non ottenne l'armata, che desiderava per l'impresa del Regno; perchè fu conceduta a Pietro Corsio per l'acquisto di Corsica: egli se ne ritornò in Francia, ove mentre visse Errico ebbe assai buoni trattamenti, ma quello morto, insorte in quel Reame le civili contese, e seguitando egli in quella divisione la parte degli Ugonotti, riduttosi in estrema miseria, morì in Avignone nel 1568 in età di 71 anno non men ribelle al suo Re, che alla Religione Cattolica da lui prima professata.

Così dileguossi questa crudel tempesta, che minacciava Napoli; ma non finirono ne' seguenti anni le scorrerie del famoso Corsaro Dragut, il quale mandato dal Gran Signore in grazia del Re di Francia a danni del Regno, per travagliar l'Imperadore, tenne infestati sempre i nostri mari, e le Terre delle nostre marine: de' quali mali non furon giammai esenti; poichè professandosi fra i Re di Spagna, e l'Imperador de' Turchi guerra eterna, ed irreconciliabile, non mai tregua fu, ma sempre odio implacabile, ancorchè il danno fosse maggiore il nostro; poichè per gli riscatti dei nostri non bastavan più milioni l'anno, ed all'incontro niente era da sperarsi da' Turchi, i quali niente si curano di riscattar i loro; con tutto ciò per zelo di religione non si curava il danno gravissimo che il Regno ne soffriva. Ora essendo questo Reame divelto dalla Monarchia di Spagna, e governandosi dagl'Imperadori d Alemagna, ha avuta la sorte, che nelle tregue, che si fanno coll'Imperio, vengavi anche compreso il Regno; onde si veggono cessate le tante ostilità, e permesso con Turchi commerzio, con utile grandissimo del Regno.

77.Si allega dal Re Carlo II nel suo Diploma, che si legge tom. 2. Cap. e Graz. di Nap. fol. 217.
78.Si legge nel tom. 2 de' Capit. e Graz. di Nap. p. 217.
79.Capit. e Grazie di Carlo II tom. 2 pag. 217 e 218.
80.Cap. etc. tom. 2 pag. 219.
81.Capit. e Graz. di Carlo VI tom. 2 pag 231.
82.Si legge ne' Cap. e Graz. tom. 2 p. 231.
83.Capit. e Graz. di Carlo VI. tom. 2 pag. 232.
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Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
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