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Kitabı oku: «Primi poemetti (1904)», sayfa 4

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IL VECCHIO CASTAGNO

 
E Viola tornò per coglitora,
dopo sementa, dal suo zio d’Albiano.
Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.
E dava nel frattempo ella una mano
all’altre donne, e lungo il Rio con esse
facea brocche di càrpino e d’ontano.
Ora sfogliava le seconde mèsse,
dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,
che la brinata non gliele cocesse.
Perché la bestia dice all’uomo: «Io voglio
l’ultime frasche, s’altri ebbe le prime.
A me l’avanzo, s’è di te il rigoglio!
Le pigne tu, le pampane io: le cime
io, tu le rappe. Io do, se tu mi desti.
Fin che c’è verde, non mi dar guaime.
Padrone, c’è del verde, che tu pesti.
Menami alle covette della strada,
menami un poco nella selva ai cesti:
ai cesti ch’ora a tutto ciò che cada,
aprono i lor fioretti color carne;
e cade brina, che attendean rugiada».
Ed ella andava qualche volta a farne
per loro, e qualche volta, ch’era bello,
menava là le vaccherelle scarne.
E con loro godeva il solicello
di fin d’ottobre, tra i castagni, sotto
il re di tutti, un vecchio mondinello.
Sotto il re dei castagni, sur un grotto
pieno di musco, si sedea Viola,
col gomitolo, i ferri e un calzerotto.
E gettava alle bestie una parola,
anco un toffo di terra, anco due ghiare
con le sue mosse di canipaiola.
Ora un giorno che stava a lavorare
sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi
pendean le vacche dalle stipe amare,
dei tonfi udì, come se quei bastardi
fosser lì con sassetti e con pinelle,
chiotti, per darle briga… Erano i cardi.
Cadeano giù con le castagne belle
e nere in bocca, che sul musco arsito
ruzzolavano fuori della pelle.
Udiva; e il gran castagno ecco sul dito
le picchiò con un cardo, anzi un pallone,
piccolo, giallo, chiuso. Era un invito:
l’albero volea dir la sua ragione.
Alzò Viola, come se capisse,
gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;
vide un’accétta. E il vecchio re le disse:
le disse il re:
 
I
 
…Viola!… Violetta!…
Non la vedi costì? C’è da stamani.
Ce l’ha lasciata il caro zio. L’accétta!
La piglia su, domani, oggi, a due mani,
e picchia giù. Dove ella picchia, guai
a quei frassini! tristi quelli ontani!
e quei castagni! Non credevi mai,
Violetta? Lo credo! Ero il più grande!
Sono il più vecchio. Ella è per me: vedrai.
Si sa: la quercia deve dar le ghiande,
e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.
Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!
E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,
non son più pieni, ch’io non ho più forza.
Io ho la lupa. Ho messo poco e tardi.
Il vecchio re sente impassir la scorza!
 
II
 
E mi ricordo ch’ero il più piccino
del branco, quando venni qua; di tutto
quello d’allora. Io, sai, nacqui a bacino,
di là del Rio. Di là crescevo sdutto,
lungo, con molta frasca e molte polle.
All’ombra, messa tanta e poco frutto!
Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,
mi dava noia, i primi anni, l’asprura.
Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.
Ma poi con gli anni feci tiglia dura,
e il sole amai, che vaporava il fiato
nella florida mia capellatura.
A un fin di verno, un uomo col pennato
mi cuccò tutto per filo e per segno!
E io restai pulito e dicapato,
con due mazzette tra la buccia e il legno.
 
III
 
Vedi i due rami dalle mille vette,
anzi il doppio grande albero che porto
sul tronco? Sono quelle due mazzette.
Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,
dalle mie fibre risalire il succhio
cercando in alto ciò che m’era morto:
ciò che non era, là di lì, che un mucchio
di verghe dalla lunga acqua percosse,
cui s’attorceva l’ellera e il vilucchio.
Ma io sognava tuttavia che fosse
sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi
verdicci dalle sue vermelle rosse.
Io mi spingeva tutto verso gli occhi
che non avevo; io mi gettava verso
il mio passato. C’era quei due brocchi.
Li empii di me: ma mi sentii diverso.
 
IV
 
Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.
Con gli anni feci le castagne. Alcuna
ce n’è nei cardi. Cerca. A te le canso.
Le canso a te, mia pastorella bruna
che vieni qui per cogliere, e due volte
in cielo fare qui vedrai la luna.
Son mondinelle; tu le sai, n’hai colte.
Mòndano bene. Esce da sé pulita
la carne, il buono, dalle vesti sciolte.
Tu le mondi per gli altri con le dita
svelte, seduta al fuoco, sul pannello.
Gli uomini stanno muti alla partita.
Quei giorni di novembre, che fa bello,
che si colma la botte del buon vino,
che, con indosso mezzo il suo mantello,
mezzo tra freddo e caldo è San Martino!…
 
V
 
Da quanti inverni vivo qui sublime!
E vidi tante creature bionde
venir su l’alba a cogliere le prime,
che poi con gli anni, esciti non so donde,
io li vedeva curvi bianchi tristi
ruspare lì, nei mucchi delle fronde,
l’ultime. All’ultimo, io non li ho rivisti.
Non ne so nulla. So che i coglitori
vengono e vanno, come tu venisti
e… Ma quello che sempre, ai dì peggiori,
anche ho veduto, sia che nella bruma
la pioggia scrosci e che la neve sfiori,
è il fiato che nell’aria fredda fuma
dalla lor casa, il caldo alito, quando
il vecchio tramontano anche lui ruma
qua ne’ frondai gridando e farfugliando…
 
VI
 
O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,
scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,
da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!
O casa buona, messa su dagli avi,
che pari il freddo, e brilli nella notte,
da noi li avesti travicelli e travi!
O mamma, che il laveggio ora o le cotte
metti all’uncino o sopra i capitoni,
da noi li avesti i necci e le ballotte!
O babbo, che nel mezzo al desco poni
il vinetto che sente un po’ di rame,
da noi li avesti i pali ed i forconi!
E tu che mugli, mugli tu per fame
o per freddo, vacchina dello stento?
E da noi abbi i vincigli e lo strame…
mentre noi qui rabbrividiamo al vento.
 
VII
 
Io ne godeva. Io amo chi mi coglie.
Ora, capanna casa fuoco vigna,
non do più frutto né legna né foglie.
Ora l’accétta scoprirà maligna
i miei segreti. Ho dentro me dei bruchi
d’oro, che fanno, come uva, la pigna.
Aveva dentro, qua e là, nei buchi,
altri alati che nero di tra il musco
sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.
Oh! da quanti anni sento nel mio rusco
sempre ronzare, e sempre nella state
cantarellare odo tra lusco e brusco!
Oh! scoprirà l’accétta, abbandonate
sopra lane di pioppi e ragnatele,
ovine acquide, avanzi di covate
di cinciallegre, e un gran favo di miele.
 
VIII
 
Quanto a me… Quanto a me, mi schiapperanno
per il metato. Prima lì nel mezzo
due ciocchi soli col pulacchio d’anno;
poi tutto v’entrerò pezzo per pezzo.
Le castagne seccate col castagno
vengono bianche e sono di più prezzo.
Ecco, il nostro fruttato io l’accompagno
anche in morte, morendo a poco a poco,
e di me l’uomo ha l’ultimo guadagno.
Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco
non farò vampa; adagio, come deve
un buon castagno vecchio che sa il giuoco.
Poi nel dì che si canta che si beve
che si picchia su l’aia del metato,
non sarò più. Sarò cenere, lieve
cenere, buona per il tuo bucato.
 
IX
 
E il ceneraccio, al prato!… Odimi. Il fusto
è marcio, e non può darsi che ributti.
Gli dia l’accétta e l’accettino. È giusto.
Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti
lo zio ralleverà qualche novello
che viva e cresca, che riscoppi e frutti.
Fa che salvi codesto, così snello,
che se tu venga quando avrai marito,
tu dica: È come il padre; anzi più bello!
Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,
dove ho picchiato il cardo… Oh! tuo zio!… Digli:
Questo novello come cresce ardito!
che speriamo, io e tu, che mi somigli!
che dia su me, non dia su lui, l’accétta!
Ti farà le mondine pe’ tuoi figli.
Diglielo!… su… Viola! Violetta!
 

L’ACCESTIRE

L’ALLORO

I
 
«Ecco l’orbaco:» disse Dore, entrando
con un ramo d’alloro umido in mano:
«prendete: io devo ritornar da Nando».
«A che fare?» la madre gridò. «Piano
con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
ci vuole mezzo per calzarli il grano:
andranno scalzi! due siete ed un branco
parete!» L’uscio era socchiuso. Fuori
era per tutto un gran barbaglio bianco.
La neve nascondea tutti i colori.
Su, v’appariva qualche fila nera
delle grandi orme degli agricoltori:
dove scendeva per veder se c’era
la terra più, dal tetto e dalla scala,
il passero: egli che avea messo a sera
tranquillamente il capo sotto l’ala.
 
II
 
«L’orbaco…» ripeté Dore, voltando
all’uscio aperto il suo nasetto rosso:
«devo aiutarlo: l’ho promesso, a Nando».
«A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
per pigliar qualche cincia e pettirosso!
Povere cincie! poveri uccelletti!
non hanno ove posare le zampine
nude! coperti i campi, alberi, tetti!
Non hanno che beccar, queste mattine:
né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
tendono… Oh! babbo è troppo buono, infine!»
Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
stacciando su la conca alta la lieve
cenere. E Dore le porgea l’alloro
di su l’uscio, tra un gran bianco di neve.
 
III
 
«L’orbaco…». «Dà». Lei prese il ramoscello,
e lui sparì. Ma non pensava a loro
più Rosa bionda. Era il suo giorno, quello.
Poco era il giorno e molto era il lavoro:
la falce è grande, ma più grande il prato.
E su la conca ella sfogliò l’alloro,
perché sapesse odore il suo bucato.
 

IL BUCATO

I
 
Viola entrò col secchio su la testa,
e su gli arguti zoccoli ristette
presso la conca, e disse: «Ora sei lesta?»
«Mamma!» Rosa chiamò «non ci si mette
due gusci d’ova?» Rientrava lenta
la madre con un suo fascio di vette.
«Eccoli» disse. «Quella legna stenta
a prender fuoco, e questa era pel forno;
ma la riposi dopo la sementa:
è asciutta bene. Il babbo cerca, intorno
casa, quel ciocco (dov’è mai?) del pero
dal vischio. Oggi ce n’è per tutto il giorno.
E i ragazzi, io mi struggo, io mi dispero,
rincaseranno fradici, se pure…
Ma sento (se Dio vuole, ecco un pensiero
di meno) il babbo lavorar di scure».
 
II
 
«Sei lesta, ora?» «Un minuto anche, Viola».
Rosa corse al telaio, ed il cannello
vuoto cavò dalla sua liscia spola.
E Viola dicea: «Mamma, il vitello,
lo venderà? Vedeste come viene!
e, mamma, è così manso, è così bello!
Tra la sua madre e me, vuole più bene,
credete, a me». Rispose ella: «E le tasse?
Figlia, chi disse pane, disse pene.
Il babbo ha detto: l’acque sono basse…»
E Viola pensava, e la Turella
mugliava di laggiù, come ascoltasse.
Rosa intanto ponea la catinella
sotto il bocciolo, e poi levata in piedi,
vedendo gli occhi della sua sorella,
esclamò: «Meglio non averli, i redi!»
 
III
 
«Ora?» «Sì: versa a modo: ecco!» Con molle
gorgoglio su la cenere quell’onda
fredda scorreva tra cerulee bolle;
e poi spariva; e giù per la profonda
conca invadeva i panni… che parenti
erano anch’essi, e su la stessa sponda
vedevi insieme poi ruzzare ai venti.
 

LA BOLLITURA

I
 
Già: sciorinati su la stessa siepe
sono come una greggia che soletta
beva ad un pozzo e mangi ad un presèpe.
Ma non lontana è l’umile casetta
con gli occhi aperti delle sue finestre,
che veglia il dì, che a sera poi li aspetta.
Essi appartati dalle vie maestre,
piccoli e grandi stanno insieme al sole,
empiendo di fruscìo l’angolo alpestre.
Stridono appena, là con loro, sole
le foglie secche, e v’è col bianco odore
della tela l’odor delle viole.
Ma s’imbevono d’acqua, ora, per ore,
tiepida prima, e quindi a poco a poco
più calda, e quindi tolta via col fiore
nel paiolo che brontola sul fuoco.
 
II
 
Li coglierete quando il sole sfiora
i monti aguzzi, voi, Rosa e Viola,
e vostra madre. È dolce assai quell’ora.
Mamma coglie, con qualche sua parola,
i suoi mazzetti, e voi sul greppo liete
stirate le schioccanti ampie lenzuola.
Ripasserete il tutto e riporrete,
troppo per l’ago e poco pel bisogno,
dentro il comune canteral d’abete;
dove poi dorme, e sempre vede in sogno
la soave domenica, piegato
in odore di spigo e di cotogno.
Ma or di ranno imbevesi il bucato;
e il ranno dal paiòl nero, quand’alza
la schiuma, su la conca alta versato,
sgorga dal fondo e scivola e rimbalza.
 
III
 
E la cucina tutto il dì fu piena
del casalingo e tacito lavoro,
e il paiolo pendé dalla catena.
E c’era odor di cenere e d’alloro,
e il fuoco ardeva. Giù la tramontana
scendea mugliando; ed un tin tin sonoro
s’udiva intanto come di fontana.
 

LA CANZONE DEL BUCATO

I
 
Quel tintinno diceva: – Era l’estate:
le cicale cantavano sui meli:
bianca famiglia, voi dove eravate?
Certo nei campi: lunghi e verdi steli
col fiore in cima: ondoleggiando allora
non pensavate a diventar dei teli.
Venne l’autunno: usciste d’una gora
umidi e bianchi: bianchi sì, ma canne
dal fiume usciste a riveder l’aurora.
E poi sembraste piccole capanne
là sul greto tra i ciottoli e le ghiaie,
ritte sui piedi delle quattro manne.
Sonava presso voi nelle pescaie
il cadenzato canto delle rane,
pari a quello che poi venne dall’aie,
chiaro gracchiar di gramole lontane.
 
II
 
Venne l’inverno; e vennero al camino
l’esili nonne, con una gran ciocca
bianca, e ciascuna con un suo piccino;
un piccino che ronza e che non tocca
mai terra, eppure, non va mai lontano,
frullando giù col filo nella cócca.
Con queste rócche venne poi pian piano
lo stridulo arcolaio; e le sorelle
dietro si corsero corsero invano.
E il telaio sonò tra le procelle:
rumoreggiava tutta la contrada
di battenti, di calcole e girelle.
Dopo tanto rumore; alla rugiada,
sul verde prato, in una rosea sera,
diritta e lunga, simile a una strada,
c’era la tela; ed era primavera.
 
III
 
Sopra le margherite e sopra il timo
stava la tela, e si vedea lì presso
un canapaio nero ancor di fimo.
E la luna pendea sopra il cipresso
e tu guardavi quella strada, o Rosa,
lunga, e quel campo, dove a quel riflesso
il tuo corredo già nascea, di sposa. —
 

LA VEGLIA

I
 
Canticchiò la fontana tutto il giorno
tra sé e sé, gemendo dal bocciuolo,
salutando ciascuno al suo ritorno.
Con l’arruffato brivido del volo
vennero i figli, mentre soli i ciocchi
ardean russando a quel ciangottar solo.
Venne il babbo; e, le mani sui ginocchi,
sedea pensando, mentre dal cantone
le monachine rincorrea con gli occhi.
Il piede avea sopra un capitone
del focolare, dove ardean russando
i ciocchi; e lo vincea quella canzone.
Dolce obliar la vanga a quando a quando,
fin ch’è lungi la prima acqua d’aprile…
Egli ascoltava quel gorgoglio blando,
le mani all’asta e il piede sul vangile.
 
II
 
Alzava il capo al rientrar sonoro
di frettolosi zoccoli; ed apriva
gli occhi, e lasciava a mezzo il suo lavoro.
La vanga rimanea presso un’oliva.
Ma ecco, a poco a poco e in un momento,
si trovava le mani su la stiva.
E l’aratro strideva col lamento
di legna verde, e per il solco duro
muggìan le vacche a lungo, come il vento
di tramontana. E poi tra lume e scuro
si ritrovava, uscito alfin di pena,
nel suo cantuccio placido e sicuro.
Si fece buio, e la lucerna, piena
d’olio, brillò; più vivo il focolare
brillò; si cosse e si mangiò la cena;
e poi le rócche vennero a vegliare.
 
III
 
E venne Rigo. E venne il vino arzillo,
e bevve ognuno: il vino aspro, raccolto
quando nei campi già piangeva il grillo.
E allora il babbo ragionò, rivolto
verso le rócche. E Rigo ancor, per uso,
guardava a quelle, tacito, in ascolto
dell’incessante sibilar d’un fuso.
 

GRANO E VINO

I
 
«Oh! il campetto con siepe e con fossetto!
Nel verno io voglio, ch’io non son cicala,
il mio grano con me sotto il mio tetto.
Il buon odor di pane che si esala
da quel brusìo di mille chicchi d’oro,
quando il mio mucchio muovo con la pala!
Caro il mio grano! Quando il mio tesoro
mando al mulino, se ne va, sì, questo;
ma quello nasce sotto il mio lavoro.
Io le mie braccia, Dio ci mette il resto.
Me ne sa male; ed ecco che ogni staio
che mando, dice: – Mandami: fo cesto;
mandami: imboccio. – Io mando al buon mugnaio.
– Mandami: impongo; mandami: rassodo. —
Poi, quando nulla resta nel solaio,
l’ultimo dice: – To’ la falce: a modo! —
 
II
 
Lodo la spiga e lodo ancor la pigna.
Ma la pigna e la spiga hanno gran liti
tra loro. – Io non vo’ grano nella vigna.
Padrone, su le prode io non vo’ viti:
se lo bei, non lo mangi. – Io non do noia:
tanto mi tagli, quando mi mariti! —
È infida… – Ogni anno ella convien che muoia. —
Sempre soffietti… – E ari a capo chino. —
Io sono la tua vita. – Io la tua gioia. —
Tua carne è il pane. – Ma tuo sangue, il vino. —
Che odore sa l’odore di pan fresco! —
E che cantare fa cantar di tino! —
Io son di casa. – Io più, che mai non esco:
tu mi macini in casa co’ tuoi piedi. —
Tu, con me solo, puoi sederti a desco. —
Ti levi, senza me, come ti siedi. —
 
III
 
Tu pigna dura per insù, tu molle
spiga all’ingiù, vivete dunque in pace!
Per l’una il piano, sia per l’altra il colle.
Io la madia e la botte amo; e il loquace
tino ben canta, e bene odora il forno:
io ridirvi non so quanto mi piace
il vin d’un anno con il pan d’un giorno!»
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
80 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
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