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Kitabı oku: «Primi poemetti (1904)», sayfa 6

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L’ASINO

I
 
L’asino… Parmi adesso: era una sera
d’ottobre, nella strada di Sogliano.
Cigolava per l’erta la corriera.
E io guardavo dietro me, nel piano,
dove San Mauro mio già non appare
– oh! mio nido di lodola tra il grano! —
dove tra il verde luccica, e tra chiare
brecce di ville borghi città, drago
addormentato dal cantar del mare,
la Marecchia argentina. E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,
nero sopra un trascolorar leggiero
di tutto il cielo, come un’ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,
l’asino vidi con la sua carretta.
 
II
 
Non altro? No. Da non so qual pendice
veniva un canto di vendemmiatore,
veniva un canto di vendemmiatrice:
veniva or sì, or no, tra lo stridore
delle ruote. Sentii queste parole:
– E m’hanno detto ch’è morto l’amore… —
Io, sole queste; ma non queste sole
l’asino che lassù stava, annerando
dentro il morire fulgido del sole.
Pur non vibrava, vidi, a quando a quando
l’orecchie della lunga ombra per quello
stornellamento così lungo e blando;
sì le volgeva appena a un ritornello
or chiaro come d’anelante piva,
or aspro come d’avido succhiello…
Su la carretta il carrettier dormiva.
 
III
 
Russava nella strada solitaria
Schiuma, lo scalzo e rauco pesciaiolo,
tuo figlio, o di marruche irta Bellaria.
Lo prese e vinse il vino di Bagnolo
nel suo ritorno; e l’altro, a poco a poco
per non più fare la sua via da solo
(senza il bastone!), si fermò tra il fuoco
del vespro. Dietro, delle ondanti gote
egli ascoltava il buffar grande e roco.
L’uno dormiva su le ceste vuote,
vidi passando: e l’asino, St! dorme!
parve accennare alle sonore ruote.
L’un su le ceste, e su le sue quattro orme
l’altro, non meno immobile del primo.
Soltanto l’ombra sua, lunga e deforme,
pasceva al greppo un vago odor di timo.
 
IV
 
E l’uomo, con la cara anima invasa
d’oblìo, dormiva nella via maestra;
ma già la moglie l’attendeva in casa.
Fosse andato pur là dove è maestra
gente in far teglie, sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo e la ginestra;
a Montetiffi; o dove, a Montebello,
passero solitario, ancor per uso
torni nel solitario tuo castello;
già l’attendeva; e la capanna al Luso
più non udiva dell’industre moglie
il fremebondo vortice del fuso;
ch’ella destava il fuoco già, con foglie
secche, e stacciava, e poi metteva il piede
fuori, e le donne assise su le soglie
interrogava ad or ad or: Si vede?
 
V
 
Ma l’uomo era lassù, lungi dal mare,
sul monte azzurro; e nol sapea: pian piano
credea seguire il suo tranquillo andare.
Anzi, calava d’un buon passo al piano:
già balzellando si sentì di sotto
le tue selci sonanti, o Savignano.
Anzi, a San Mauro s’era già condotto;
e sentiva sonar l’Avemaria,
grave e soave, tra il fragor del trotto.
Anzi, alla Torre: e nella nera ombrìa
del parco udiva un ultimo fringuello,
mentre al galoppo egli svoltò la via.
Anzi, era giunto: urlava: Arri! mio bello.
L’aria marina gli pungea la fronte,
e la rena legava: Arri!… Ma quello
era là, fermo, su l’azzurro monte.
 
VI
 
Schiuma, la rena lega! Uomo, la rena
lega le ruote! Il po’ di via che resta,
si farà certo con un po’ di pena;
ma è l’ultimo! l’ultimo! ma questa
è la mèta, è il riposo! Odi: col canto
delle mille onde il mare ti fa festa.
Avanti! Si va piano, ora; ma quanto
s’è corso prima! O Schiuma, ecco Bellaria!
Avanti! ecco la gioia, uomo! – Frattanto
l’asino è fermo, e l’uomo sogna. Svaria
quel gruppo nero sul purpureo cielo.
I pipistrelli sbalzano per l’aria.
Viene un suon di campane dietro un velo
di lontananza; e tutto si scolora.
Laggiù chiede una donna al mare anelo,
all’ombra muta: Non si vede ancora?
 

IL TRANSITO

 
Il cigno canta. In mezzo delle lame
rombano le sue voci lunghe e chiare,
come percossi cembali di rame.
È l’infinita tenebra polare.
Grandi montagne d’un eterno gelo
póntano sopra il lastrico del mare.
Il cigno canta; e lentamente il cielo
sfuma nel buio, e si colora in giallo;
spunta una luce verde a stelo a stelo.
Come arpe qua e là tocche, il metallo
di quella voce tìntina; già sfiora
la verde luce i picchi di cristallo.
E nella notte, che ne trascolora,
un immenso iridato arco sfavilla,
e i portici profondi apre l’aurora.
L’arco verde e vermiglio arde, zampilla,
a frecce, a fasci; e poi palpita, frana
tacitamente, e riascende e brilla.
Col suono d’un rintocco di campana
che squilli ultimo, il cigno agita l’ale:
l’ale grandi grandi apre, e s’allontana
candido, nella luce boreale.
 

IL FOCOLARE

I
 
È notte. Un lampo ad or ad or s’effonde,
e rileva in un gran soffio di neve
gente che va né dove sa né donde.
Vanno. Via via l’immensa ombra li beve.
E quale è solo e quale tien per mano
un altro sé dal calpestìo più breve.
E chi gira per terra l’occhio vano,
e chi lo volge al dubbio d’una voce,
e chi l’innalza verso il ciel lontano,
e chi piange, e chi va muto e feroce.
 
II
 
Piangono i più. Passano loro grida
inascoltate: niuno sa ch’è pieno,
intorno a lui, d’altro dolor che grida.
Ma vede ognuno, al guizzo d’un baleno,
una capanna sola nel deserto;
e dice ognuno nel suo cuore – Almeno
riposerò! – Dal vagolare incerto
volgono a quella sotto l’aer bruno.
Eccoli tutti avanti l’uscio aperto
della capanna, ove non è nessuno.
 
III
 
Sono ignoti tra loro, essi, venuti
dai quattro venti al tacito abituro:
a uno a uno penetrano muti.
– Qui non fa così freddo e così scuro! —
dicono tra un sospiro ed un singulto;
e si assidono mesti intorno al muro.
E dietro il muro palpita il tumulto
di tutto il cielo, sempre più sonoro:
gemono al buio, l’uno all’altro occulto;
tremano… Un focolare è in mezzo a loro.
 
IV
 
Un lampo svela ad or ad or la gente
mesta, seduta, con le braccia in croce,
al focolare in cui non è nïente.
Tremano: in tanto il bàttito veloce
sente l’un cuor dell’altro. Ognuno al fianco
trova un orecchio, trova anche una voce;
e il roseo bimbo è presso il vecchio bianco,
e la pia donna all’uomo: allo straniero
omero ognuno affida il capo stanco,
povero capo stanco di mistero.
 
V
 
Ed ecco parla il buon novellatore,
e la sua fola pendula scintilla,
come un’accesa lampada, lunghe ore
sopra i lor capi. Ed ecco ogni pupilla
scopre nel vano focolare il fioco
fioco riverberìo d’una favilla.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
ma quel loro soave essere insieme.
 
VI
 
Sporgono alcuni, con in cuor la calma,
le mani al fuoco: in gesto di preghiera
sembrano tese l’una e l’altra palma.
I giovinetti con letizia intiera
siedon del vano focolare al canto,
a quella fiamma tiepida e non vera.
Le madri, delle mani una soltanto
tendono; l’altra è lì, sopra una testa
bionda. C’è dolce ancora un po’ di pianto,
nella capanna ch’urta la tempesta.
 
VII
 
Oh! dolce è l’ombra del comun destino,
al focolare spento. Esce dal tetto
alcuno e va per suo strano cammino;
e la tempesta rompe aspro col petto
maledicendo; e qualche sua parola
giunge a quel mondo placido e soletto,
che veglia insieme; e il nero tempo vola
su le loro soavi anime assorte
nel lungo sogno d’una lenta fola;
mentre all’intorno mormora la morte.
 

I DUE ORFANI

I
 
«Fratello, ti do noia ora, se parlo?»
«Parla: non posso prender sonno». «Io sento
rodere, appena…» «Sarà forse un tarlo…»
«Fratello, l’hai sentito ora un lamento
lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane…»
«C’è gente all’uscio…» «Sarà forse il vento…»
«Odo due voci piane piane piane…»
«Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
«Senti quei tocchi?» «Sono le campane».
«Suonano a morto? suonano a martello?»
«Forse…» «Ho paura…» «Anch’io». «Credo che tuoni:
come faremo?» «Non lo so, fratello:
stammi vicino: stiamo in pace: buoni».
 
II
 
«Io parlo ancora, se tu sei contento.
Ricordi, quando per la serratura
veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».
«Anche a que’ tempi noi s’aveva paura:
sì, ma non tanta». «Or nulla ci conforta,
e siamo soli nella notte oscura».
«Essa era là, di là di quella porta;
e se n’udiva un mormorìo fugace,
di quando in quando». «Ed or la mamma è morta».
«Ricordi? Allora non si stava in pace
tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»
«ora che non c’è più chi si compiace
di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni».
 

LE ARMI

 
«Nando!» al su’ omo disse il babbo «Nando!
Di tuo tu devi aver già l’armi, nuove,
ben fatte. Dunque va dove ti mando.
Il ponte sai, della Corsonna, dove
entra nel Serchio. C’è un fruscìo di polle,
in quel contorno, che fa dir: Qui piove!
fa dire al cieco che vien giù dal colle
col suo canetto, e, fosse il solleone,
sente un frastuono, sente un fresco, un molle…
Già gli par che di dosso il can barbone
sgrolli le grosse gocciole, e la strada
odori forte sotto l’acquazzone.
Basta: se rumor d’acqua odi, che cada
senza nuvole in cielo, ecco Aladino
che farà la tua lancia e la tua spada.
Forse t’aspetta all’ombra d’un gran pino
bevendo vino. O è forse al lavoro
col suo gran maglio dentro lo stendino.
Tutto vestito d’ellera e d’alloro
è lo stendino. Dentro, alla catena,
è il gran maglio dal capo come toro
Ed ecco il fabbro che l’avvia, lo frena,
lo sferra, arresta, mentre soffia il vento
e l’acqua stroscia e il focolar balena.
E il maglio picchia, ora veloce, or lento
lento, sul rosso ferro, come pare
all’uomo: un uomo! ma che vale i cento.
E dunque l’armi tu ne avrai, più care,
figlio, più tue: ruvide e nere in prima,
ma è il lavoro che le fa lustrare.
Ma fa, il lavoro, come fa la lima:
pulisce e rode: l’armi e l’uomo… Ebbene?
Se il calcio è verde, secchi pur la cima!
Fate armi nuove per ognun che viene
nuovo nel mondo. Ed abbia ognuno in mano
il suo marrello e il suo po’ po’ di bene».
Così diceva. E Nando scese al piano
di Castelvecchio. Nelle porche uguali,
come un velluto verdicava il grano.
Faceva l’unghia già qualcuno ai pali
per le sue viti. Sui forconi vecchi
cantavano, spiando, i pinzampali.
Altri potava. Si sentian gli azzecchi,
gli schiocchi delle forbici. Sui pioppi
dava il pennato fitti colpi secchi.
Oh! quanti olivi sul pendìo! Sin troppi.
Erano un bosco. E ne cadean già nere
le olive, e l’olio avrebbe empito i coppi.
Castagne, grano, vino, olio… un podere,
lì, gli garbava. C’era anche la fonte
a cui menare le sue bestie a bere.
Oh! c’era bello, lì tra piano e monte,
lì tra il fiume il torrente il torrentello,
e con la Pania cerula di fronte!
Bello, sì, ma il suo nido era più bello.
Bevve alla fonte e seguitò la strada,
e vide il fiume e il ponte lungo e snello.
Non lo passò: svoltò per la contrada
dell’Arsenale e di Mologno, dove
si facea la sua lancia e la sua spada.
Era ancora prestino, eran le nove
forse, e il mattino era di rose e d’oro,
quando in suo cuore esclamò Nando: Piove!
E non pioveva; ma s’udìa sonoro
un cader d’acqua. Un casolare basso
c’era, coperto d’ellera e d’alloro.
Vi scese, udendo ad or ad or fracasso
di ferro in mezzo al murmure incessante
dell’acqua, e il maglio rimbombar sul tasso.
Parea soffiare il vento tra le piante
d’una foresta. Entrò guardando al fioco
lume. E rosso gli apparve, ecco, un gigante
tra un improvviso sgretolìo di fuoco.
 
I
 
S’appoggiò su l’incudine col mazzo.
Sopra la fronte si strusciò due dita.
Le sgrollò. Disse: «So chi sei, ragazzo.
E so cosa tu vuoi dall’eremita
fabbro ferraio: l’armi nuove e belle,
l’armi che dànno anche al tuo re la vita.
Sono sei: tre fratelli e tre sorelle.
Tienle con te da quando sorge a quando
cade lo stormo delle Gallinelle».
Disse, e comandò l’acqua. Essa al comando
rimbombò cupa, e mosse il vento, e il vento
sul rosso fuoco si gettò fischiando.
Nella spelonca il biondo fabbro, attento,
movea, tra l’invisibile acqua e il rosso
fuoco, due braccia che battean per cento.
Ché la Corsonna a lui correa pel fosso
perennemente, ad un suo cenno presta,
quando accennava: Ora da me non posso.
Ella, scendendo come la tempesta,
movea la ruota, essa lo stile, e tu,
maglio, sul ferro e su l’acciaio la testa
alzavi e la lasciavi piombar giù.
 
II
 
E prima il fabbro fabbricò la vanga
dalle due ali, l’arma che le zolle
tagli e le franga: ed anche te ti franga;
ma poi t’acconcia, per il ben che volle
a te, che tu volesti a lei, fratello
lavoratore, un letto molle molle…
Bollì ferro ed acciaio, indi il massello
fatto bianco afferrò con le tanaglie;
e lo domò col maglio e col martello.
Nasceva l’arma, tra un raggiar di scaglie
rosse e turchine. L’acqua, il vento, il fuoco
faceano l’arma delle tue battaglie.
Saldo faggio lo stile sia. Tra poco
la vangatura ti comincia. È giunta
la rondinella ed è fiorito il croco.
A tutto ferro! E il ferro poi ripunta,
e tira su la bricia che rimane.
La vanga ha d’oro, come sai, la punta.
Oh! il campo pare un altro, ora. Stamane
spioviscolava, e riè bello già.
La zolla già lièvita come il pane,
al solicello, e screpola e si sfa.
 
III
 
E poi fece il piccone, arma che dure
chiede le braccia, e forte vuole il forte,
d’acciaio, di qua zappa, di là scure.
Con l’una taglia le radici torte,
con l’altra scava. Ed esso vien secondo
dopo la vanga e fruga anche la morte.
Anche più della vanga esso va fondo,
il buon piccone, e cerca le memorie
che in fondo al cuore ha seppellite il mondo.
Nasceva l’arma tra un raggiar di scorie
azzurre azzurre. L’acqua, il fuoco, il vento
faceano l’arma delle tue vittorie.
Lavoratore, il manico sia lento
frassino; e forte picchia pur sul vivo
sasso che gli risuona come argento!
E va! Per quella macchia aspra, a solivo,
folta di stipe, fa venir filari
di verde vite o di canuto olivo!
Fa, col piccone, dov’è monte, pari,
dov’acqua, terra, dove notte, dì,
fa vie sotterra, un mare di due mari,
o migratore che il tuo verso è il sì!
 
IV
 
Poi fece anche la falce, arma che appare
anche nel cielo, quando l’aria imbruna,
bianca, poi d’oro, sul monte o sul mare.
Guardando la falciola della luna,
la volle anch’esso per le sue figliuole
il primo contadino, una per una.
D’allora in poi son le fanciulle sole
che con la loro falce e la crinella
vanno a far l’erba sul cader del sole.
Vanno, appuntata al fianco la gonnella,
a tagliare una fetta d’erba sulla,
a fare un quadro d’erba lupinella.
E non si vede, nel campetto, nulla,
altro che fiori; ma tra i fiori rossi
è inginocchiata a terra una fanciulla.
Tra i lunghi steli lievemente mossi
stride la falce. Tra i giunchi e la sala
già qualche rana gracida nei fossi.
E, quando appar la stella, quando cala
l’ombra dei monti, ella si leva su,
cantando, e inzeppa l’erba, onde s’esala
odor di fresco e verde e gioventù.
 
V
 
Poi, la frullana: quella che lavora
come quell’altra che disfà le vite:
lavora all’ombra, prima dell’aurora.
Cade la guazza allora, cade il mite
sonno dal cielo. Un sibilo si sente
correre per le praterie fiorite.
Dormite il sonnellino d’oro! È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
Tre volte il prato parve un altro, insino
che fu segato: tutto rosso a gli occhi
e tutto giallo e tutto gridellino.
Poi mise fuori ciuffi code fiocchi
spighe rappe, la nebbia esile e vana,
pendule nappe, tremuli balocchi.
Ora tutto ha falciato la frullana.
Su la sericcia s’è ammucchiato il fieno,
ché dai fossi chiamava acqua la rana.
E spesso dalle Panie ora un baleno,
come una bocca aperta, alita, e fa
vedere i mucchi: ed ogni volta un treno,
lontano, un po’ rotola sordo, e sta.
 
VI
 
E poi fece il pennato, arma ch’ha il becco
aguzzo e curvo il petto e il taglio fino
e grave il colpo, per il verde e il secco.
Fuor che di festa, portalo all’uncino
sempre, quando esci; ch’egli t’asseconda
in ogni tua faccenda, o contadino.
Egli pota, egli innesta, egli rimonda;
per le tue viti taglia i torchi al salcio,
per i tuoi bachi al gelso fa la fronda.
Fa sui castagni i bei rami di calcio
pel verno. Nell’asprure dell’estate,
la falce sciopra, ed esso dice: Io falcio!
E falcia pioppi, gelsi, olmi. Mangiate,
o vaccherelle! E quando invìa la pioggia,
appezza legna per le tue fiammate.
E fa con te valletti e ceste, o foggia
un giogo, o squadra un erpice d’avorno,
od una scala, sotto la tua loggia.
O crea da un olmo che vedesti un giorno
aver nel tronco una sua gran virtù,
l’aratro che, quando lavora, ha intorno,
piccoli e grandi, tutta la tribù.
 
VII
 
E poi fece il marrello, arma che scopre
e che ricopre, zappa e, in un, badile,
buona quant’altra, ma men grave all’opre.
Egli comincia nel piovoso aprile:
ritira il solco sopra il formentone,
ma un poco prima egli zappò le file.
Lo ronca, lo dirada, gli ripone
la terra al calcio, perché faccia il costo,
nel dolce maggio, dopo un acquazzone.
Al sessantino pensa poi d’agosto;
e lo smuove e lo svelge e lo rincalza:
e poi riposa, quando bolle il mosto.
Poi quando il sole pallido s’inalza
sopra la nebbia, e ingiallano le spoglie
del sessantino, e rossa appar la balza,
e grigio il piano, e cadono le foglie,
e viene il freddo, e cupo il vento geme;
ecco, il solco novello esso ricoglie.
Suonano a onde le campane treme-
bonde sopra i villaggi e le città…
ed il marrello seppellisce il seme,
che nasce e poi… si riseminerà.
E cessò il vento e il fragor d’acqua e il lampo
del fuoco. Disse ch’era morto il giorno
una campana di San Piero in Campo.
Nando uscì co’ suoi ferri. E gli era intorno
quella campana che soave e piana
gli diceva che tardi era il ritorno!
Via via soave e piana altra campana
gli ripeteva ch’era ancora in basso!
Poi solo udì, nella sua via lontana,
squillargli l’armi sulle spalle al passo.
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
80 s. 1 illüstrasyon
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