Kitabı oku: «Primi poemetti (1904)», sayfa 5
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L’OLIVETA E L’ORTO
I
E come li amo que’ miei quattro olivi,
che al potatoio (sono morinelli)
gridano ogni anno: – Buon per te, se arrivi! —
Nonno di nonno li piantò; ma quelli
buttano ancor la mignola, mentr’esso
da un po’ non sente cinguettar gli uccelli!
E ne vengono, sì, sopra il cipresso,
là, verso sera! Ed esso è là; ma sento
che verso sera è qui con noi, qui presso.
Tra lusco e brusco, egli entra lento lento,
venendo bianco dalla vita eterna,
e versa l’olio con un viso attento.
È lui, che il nostro lume anco governa
con que’ suoi vecchi olivi: e quando l’Ave-
maria rintocca, e splende la lucerna,
– Filate, o donne, – mormora – da brave! —
II
E come l’amo il mio cantuccio d’orto,
col suo radicchio che convien ch’io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:
o primavera! con quel verde d’agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi riccioluti càvoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch’hanno un odore… come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d’aprile; ed alto, co’ suoi capi
rotondi, d’oro, il grande girasole
ch’è sempre pieno del ronzìo dell’api!
III
E amo tutto: i vetrici ed i salci,
che ripulisco ogni anno d’ogni vetta
per farne i torchi da legare i tralci;
quella fila di gattici soletta,
alta e lunga, su cui cantano i chiù;
il canneto che stride e che scoppietta:
ma non sapete quello ch’amo più
LA SIEPE
I
Siepe del mio campetto, utile e pia,
che al campo sei come l’anello al dito,
che dice mia la donna che fu mia
(ch’io pur ti sono florido marito,
o bruna terra ubbidïente, che ami
chi ti piagò col vomero brunito…);
siepe che il passo chiudi co’ tuoi rami
irsuti al ladro dormi ‘l-dì; ma dài
ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;
siepe che rinforzai, che ripiantai,
quando crebbe famiglia, a mano a mano,
più lieto sempre e non più ricco mai;
d’albaspina, marruche e melograno,
tra cui la madreselva odorerà
io per te vivo libero e sovrano,
verde muraglia della mia città.
II
Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
ma salvi il frutto pendulo del pero.
Nulla fornisci alle anfore segrete
della massaia: ma per te, felice
ella i ciliegi popolosi miete.
Nulla tu rendi; ma la vite dice;
quando la poto all’orlo della strada,
che si sente il cucùlo alla pendice,
dice: – Il padre tu sei che, se t’aggrada,
sì mi correggi e guidi per il pioppo;
ma la siepe è la madre che mi bada. —
– Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo —
rispondo. I galli plaudono dall’aia;
e lieto il cane, che non è di troppo,
ch’è la tua voce, o muta siepe, abbaia.
III
E tu pur, siepe, immobile al confine,
tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
dici un divieto acuto come spine;
dentro, un assenso bello come fiori;
siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
come la fede che donai con gli ori,
che dice mia la donna che fu mia.
ACCESTISCE
I
Egli parlava; e vennero i pisani:
presero Dore, adagio su le braccia:
– Vi si riporterà, gente, domani! —
Nando riprese allora la sua caccia.
Viola lo seguì con la Turella
pascendo i timi giù per la Pianaccia.
Ma gli occhi aperti Rosa, la sorella
bionda, teneva. Ella tra sé romita
faceva e disfaceva una mannella.
Sembravano un veloce aspo le dita
silenzïose. Rigo s’era fatto
più presso: «Ed ora, sola è la mia vita!»
S’udiva solo quel parlare. Un gatto
ronfava. La lucerna ora dimessa
sfriggeva, ora guizzava alto d’un tratto,
come in un sogno: ché dormiva anch’essa.
II
«… E fate a modo!» Rigo uscì. Non c’era
per la campagna bianca che lui solo
e l’ombra sua che lo seguiva nera.
Splendea la luna su quel gran lenzuolo
candido, come, accanto un letto, il lume
dimenticato; e scricchiolava il suolo
sotto i suoi passi; e brontolava il fiume
là là: le giravolte sue lontane
mostrava appena un vago fior di brume.
Pestava un altro su la neve: un cane;
Po: gli strisciò le gambe. Ecco che intese
un arrochito suono di campane.
Mezzanotte. Ogni casa, ogni paese
dormiva. Egli era nella via maestra:
guardava in alto, donde già discese:
c’era un lume, un lumino, alla finestra.
III
E c’era un’ombra. Egli vedeva. Ed ella
vedeva. E fece un segno colla mano.
L’ombra sparì: si spense la fiammella.
E la sua strada seguitò pian piano,
e ripensava dentro sé: che cosa?
Ch’era gennaio… ch’accestiva il grano…
ch’era già tardi… ch’eri bella, o Rosa!
I DUE FANCIULLI – I DUE ORFANI
I DUE FANCIULLI
I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d’oro
dell’ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d’un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de’ tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue,
ne’ tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un’acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l’uno dell’altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»
II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L’uno si volse, e l’altro ancor, leggero:
nel buio udì l’un cuore, non lontano
il calpestìo dell’altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l’uno all’altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all’ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a’ silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d’aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch’ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.
NELLA NEBBIA
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
E c’era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: – Mai
non giungerà? – Gli scheletri di piante
chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? —
Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl’inquïeti gridi
d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,
e, per il mar senz’onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
LA GRANDE ASPIRAZIONE
Un desiderio che non ha parole
v’urge, tra i ceppi della terra nera
e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera,
alberi schiavi! Dispergendo al cielo
l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo
dentro la terra, sembra che v’accori
un desiderio senza fine anelo.
– Ali e non rami! piedi e non errori
ciechi di ignave radiche! – poi dite
con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite
solco d’odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
E l’uomo, alberi, l’uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
noi nostri fiori, voi vostre parole.
L’IMMORTALITÀ
I
Poeta Omar, pupilla solitaria
che vede e splende, che contempla e crea,
diceva avanti il mausoleo di Caria:
«Non mescerai la polvere all’idea!
Misero te, cui nella rupe piace
scoprir la bianca faretrata dea!
e te che il fosco eroe dalla fornace
susciti vivo sopra il suo cavallo
che ringhia! Il tempo che cammina e tace,
rode il tuo marmo, lima il tuo metallo.
II
Tra mille, tra duemila anni, tra poco,
l’eroe sarà nella volante arena,
sarà la dea ne’ grappoli di fuoco!
Misero! Ma quest’opera serena,
fatta d’anima pura e di parole,
beltà dal tempo e dalla morte ha lena:
vive la vita lucida del sole».
III
«Dunque morrà!» rispose Abdul, quïeta
pupilla, su cui getta ombre il fulgore
del cielo immenso: «Il sol morrà, poeta!
Quando? Tu conta i bàttiti al tuo cuore:
secoli sono i palpiti del sole;
ma sono, istanti e secoli, a chi muore,
o poeta, una cosa e due parole!»
IV
Disse. E al poeta il breve inno non piacque
mai più. Godé del cielo egli e del suolo,
di brevi rose e brevi trilli; e tacque.
Moriva; e disse, mentre un usignolo
cantava ancora ne’ verzieri suoi:
«Giova ciò solo che non muore, e solo
per noi non muore, ciò che muor con noi».
IL LIBRO
I
Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
sfogli – se n’ode il crepitar leggiero —
le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero…
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta… Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?… Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.
LA FELICITÀ
«Quella, tu dici, che inseguii, non era
lei…?» «No: era una vana ombra in sembiante
di quella che ciascuno ama e che spera
e che perde. Virtù di negromante!»
«Ella è qui, nel castello arduo ch’entrai?»
«Forse la tocchi, o cavaliere errante!»
«Forse… E non la vedrò?» «Non la vedrai».
«Oh!» «Tale è l’arte dell’oscuro Atlante:
non è, la vedi: è, non la vedi». «E, mai…?»
«Ma sì: se leggi in questo libro tante
rapide righe». «E dicono…?» «S’ignora:
chi lesse, tacque, o cavaliere errante!»
«Se leggo…» «Sai: l’incanto è rotto». «Allora?»
«La vedrai». «Su l’istante?» «In quell’istante!»
«E il castello?» «Nell’ombra esso vapora».
«Ed è?…» «La Vita, o cavaliere errante!»
IL CIECO
I
Chi l’udì prima piangere? Fu l’alba.
Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
qualche ramarro per una vitalba.
E stettero, per breve ora, sospese
su quel capo due grandi aquile fosche.
Presso era un cane, con le zampe tese
all’aria, morto: tra un ronzìo di mosche.
II
«Donde venni non so; né dove io vada
saper m’è dato. Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m’addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, né saprò mai…);
III
nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d’api,
si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su’ due piedi. E l’aria in vano
nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano
IV
addormentata. Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d’un’orma!
Egli è fuggito; è vano che l’insegua
per l’ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d’un sole,
V
che di là brilla! Vano il grido, vano
il pianto. Io sono il solo dei viventi,
lontano a tutti ed anche a me lontano.
Io so che in alto scivolano i venti,
e vanno e vanno senza trovar l’eco,
a cui frangere alfine i miei lamenti;
a cui portare il murmure del cieco…
VI
Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede,
invisibile. Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede
in faccia a me. Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
VII
O forse una mi vede, una m’ascolta,
invisibile. È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
VII
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l’abisso che mi sento ai piedi…
di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
IX
Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblìo, volgeva; fin ch’ – io so la strada —
una, la Morte, gli sussurrò – vieni! —
L’EREMITA
I
Pregava all’alba il pallido eremita:
«Dio, non negare il sale alla mia mensa,
non negare il dolore alla mia vita.
Ma del dolore che quaggiù dispensa
la tua celeste provvidenza buona,
a me risparmia il reo dolor che pensa.
O, s’è destino, per di più mi dona,
con quel che pensa, anche il dolor che grida:
l’afa che opprime, il nuvolo che tuona;
pensier che strugga e folgore che uccida!»
II
E ripregava a mezzodì: «Rimane,
Dio, che tu lasci che il nemico muto
pur mandi a me le nudità sue vane.
Quando al vespro del mio dì combattuto
dilegueranno, io penserò che, vere,
le avrei non meno dileguar veduto.
Nel cuore sono due vanità nere
l’ombra del sogno e l’ombra della cosa;
ma questa è il buio a chi desìa vedere,
e quella il rezzo a chi stanco riposa».
III
A sera, disse: «Il servo, umile e grato,
ti benedice! Tu mi desti, o Dio,
l’aver provato e non aver peccato.
L’anima mia tu percotesti e il mio
corpo di tanto e tal dolor ch’è d’ogni
dolcezza assai più dolce ora l’oblìo.
Infelice cui l’occhio apresi ai sogni,
apresi nella grande ombra che tace,
sia che già tema, sia che sempre agogni!
Piansi, non piango: io dormirò: sia pace!»
IV
E velò gli occhi il pallido eremita.
Ed ecco gli fluìa per i precordi
il dolce sonno della stanca vita;
quando riscosso (egli scendeva a fior di
grandi acque mute su labile nave)
gridò: «Signore, fa ch’io mi ricordi!
Dio, fa che sogni! Nulla è più soave,
Dio, che la fine del dolor; ma molto
duole obliarlo; ché gettare è grave
il fior che solo odora quando è colto».
Türler ve etiketler
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