Kitabı oku: «Il ritorno dell’Agente Zero», sayfa 2

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CAPITOLO DUE

Cieco. Freddo. Scosso. Assordato. Confuso. Dolorante.

La prima cosa che Reid notò svegliandosi fu che il mondo era buio, non riusciva a vedere niente. La puzza acre di carburante gli riempiva le narici. Cercò di muovere le membra doloranti, ma le mani erano legate dietro la sua schiena. Stava congelando, ma non c'era un alito di vento, solo aria fredda, come se fosse seduto in un frigo.

Lentamente, come se emergessero da una nebbia, i ricordi di quello che era successo gli tornarono alla mente. I tre uomini mediorientali. La sacca sulla testa. L’ago nel braccio.

Il panico prese il sopravvento e cominciò a tirare le manette e ad agitarsi. Gli si accesero di dolore i polsi, dove il metallo delle manette gli tagliò la carne. La caviglia pulsava, spedendo ondate di sofferenza su per la sua gamba. Aveva un’intensa pressione nelle orecchie e non riusciva a sentire nulla se non il rombo di un motore.

Per un breve istante provò una strana sensazione allo stomaco, come dovuta a un’accelerazione verso l’alto. Era su un aereo. E a giudicare dal rumore non era un normale aereo passeggeri. Il rombo, l’intenso rombo del motore, la puzza di carburante… capì che doveva trovarsi su un aereo cargo.

Per quanto tempo era rimasto svenuto? Che cosa gli avevano iniettato? Le ragazze erano al sicuro? Le ragazze. Gli salirono le lacrime agli occhi, mentre sperava contro ogni buon senso che stessero bene, che la polizia avesse ricevuto il suo messaggio, che le autorità fossero state mandate a casa sua…

Si agitò sul suo sedile di metallo. Nonostante il dolore e la gola chiusa, provò a parlare.

“Sa-salve?” Fu poco più di un bisbiglio. Si schiarì la gola e provò di nuovo. “Salve? C’è qualcuno?” Si rese conto che il rumore del motore avrebbe coperto la sua voce e nessuno che non fosse stato seduto accanto a lui lo avrebbe sentito. “Salve!” provò a gridare. “Vi prego… qualcuno mi dica che…”

Una secca voce maschile gli sibilò qualcosa in arabo. Reid sussultò. L’uomo era vicino, a meno di un metro di distanza.

“Ti scongiuro, dimmi che cosa sta succedendo,” supplicò. “Che cosa volete? Perché mi state facendo questo?”

Un’altra voce gridò minacciosamente nella stessa lingua, quella volta dalla sua destra. Reid sussultò per il duro rimprovero. Sperò che il movimento dell’aereo mascherasse il tremore del suo corpo.

“Avete preso la persona sbagliata,” disse. “Che cosa volete? Denaro? Non ne ho! Posso… aspettate!” Una mano robusta si chiuse in una morsa attorno al suo braccio e fu strappato dal suo sedile. Barcollò, cercando di rimanere in piedi, ma l’instabilità dell’aereo e il dolore alla caviglia ebbero il sopravvento. Gli cedettero le ginocchia e cadde su un fianco.

Qualcosa di solido e pesante lo colpì al corpo. Il dolore si allargò per tutto il suo busto. Cercò di protestare, ma gli salirono alla bocca solo singhiozzi intellegibili.

Un altro stivale gli atterrò sulla schiena. Poi un altro, al mento.

Nonostante la situazione tremenda, Reid fu colto da uno strano pensiero. Quegli uomini, le loro voci, i loro colpi, tutto suggeriva una vendetta personale. Non si sentiva semplicemente attaccato. Si sentiva odiato. Erano arrabbiati, e la loro rabbia era diretta precisamente verso di lui.

Il dolore si allontanò, lentamente, e lasciò spazio a un freddo torpore che lo avvolse completamente mentre perdeva coscienza.

*

Dolore. Acuto, pulsante, incandescente.

Reid si svegliò di nuovo. I ricordi del passato… non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato, né sapeva se fosse giorno o notte, o dove si trovasse. Ma i ricordi tornarono, frammentati, come fotogrammi tagliati da una pellicola e lasciati a terra.

Tre uomini.

Il telefono delle emergenze.

Il furgone.

L’aereo

E ora…

Reid si azzardò ad aprire gli occhi. Fu difficile. Gli sembrava che gli avessero incollato insieme le ciglia, ma anche dietro la pelle sottile vedeva una luce accesa e rovente. Ne sentiva il calore sul volto, e distingueva la rete di capillari delle proprie palpebre.

Strizzò gli occhi. Tutto ciò che vedeva era quella luce crudele, luminosa, bianca e penetrante. Dio, gli faceva male la testa. Cercò di gemere e scoprì, grazie a una nuova scarica di dolore, che anche la mascella gli doleva. Aveva la lingua gonfia e secca, e in bocca c’era un sapore metallico. Sangue.

I suoi occhi… capì che era stato difficile aprirli perché in effetti era incollati insieme. Il lato della faccia era caldo e appiccicoso. Il sangue gli era colato dalla fronte e negli occhi, senza dubbio per via dei calci che aveva preso sull’aereo.

Ma riusciva a vedere la luce. Gli avevano tolto la sacca dalla testa. Che fosse o meno un risvolto positivo rimaneva ancora da vedere.

Mentre si abituava alla luce, cercò invano di muovere le mani. Erano ancora legate, ma non più da manette. Grosse corde ruvide lo tenevano fermo. Anche le sue caviglie erano strette alle gambe della sedia di legno su cui si trovava.

Dopo poco cominciò a intravedere sagome incerte in mezzo al chiarore. Era in una piccola stanza senza finestre con pareti irregolari di cemento. Era caldo e umido, abbastanza perché il sudore lo solleticasse dietro al collo, nonostante si sentisse il corpo freddo e insensibile.

Non riusciva ad aprire del tutto l’occhio destro e provarci era doloroso. Doveva aver preso un calcio, o forse i suoi rapitori avevano continuato a picchiarlo mentre era svenuto.

La luce brillante veniva da una sottile lampada tecnica su una base alta e con le ruote, che era stata sistemata alla sua altezza e puntata verso la sua faccia. La lampadina alogena emetteva una luce intensa. Se c’era qualcos’altro dietro quella lampada, lui non riusciva a vederlo.

Sussultò quando un secco suono metallico riecheggiò nella stanzetta—il rumore di una serratura che veniva aperta. Cardini cigolarono, ma Reid non vide nessuna porta. Poi si richiuse con un frastuono discordante.

Una figura si frappose tra lui e la luce, incombendo su di lui e mettendolo in ombra. Reid tremò e non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo.

“Chi sei tu?” La voce era maschile, leggermente più acuta dei suoi precedenti aggressori ma colorata dallo stesso accento mediorientale.

Reid aprì la bocca per parlare, per dire che non era altro che un professore di storia e che avevano preso la persona sbagliata, ma si ricordò che l'ultima volta che ci aveva provato era stato preso a calci fino a svenire. Gli sfuggì solo un gemito.

L’uomo sospirò e si spostò dalla luce. Qualcosa fu trascinato sul pavimento di cemento, le gambe di una sedia. Lo sconosciuto spostò la lampada lontano dal volto di Reid e si sedette davanti a lui, tanto vicino che le loro ginocchia quasi si toccavano.

Reid alzò lentamente lo sguardo. L’uomo era giovane, doveva avere al massimo trent’anni, con la pelle scura e un’ordinata barba nera. Portava occhiali rotondi dalla montatura argentata e una kufi bianca, un cappello tondo senza tesa.

Dentro Reid sbocciò la speranza. Il giovane uomo sembrava un intellettuale, non come i selvaggi che lo avevano attaccato e strappato da casa sua. Forse avrebbe potuto negoziare con lui. Forse era al comando…

“Iniziamo dalle cose semplici,” disse l’uomo. La sua voce era bassa e tranquilla, parlava come uno psicologo avrebbe potuto rivolgersi a un paziente. “Come ti chiami?”

“Io… Lawson.” Al primo tentativo quasi non riuscì a parlare. Tossì, e fu vagamente allarmato di vedere gocce di sangue colpire il pavimento. L’uomo di fronte a lui arricciò disgustato il naso. “Mi chiamo… Reid Lawson.” Perché continuavano a chiedere il suo nome? Glielo aveva già detto. Aveva fatto un torto a qualcuno non volendo?

L'uomo sospirò piano, dentro e fuori dal naso. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, abbassando ancora di più la voce. “Ci sono molte persone che vorrebbero essere in questa stanza, al momento. Fortunatamente per te, siamo solo tu e io. Però se non sei sincero con me non ho altra scelta se non invitare… gli altri. E loro tendono ad avere poca compassione.” Si raddrizzò. “Quindi te lo chiedo di nuovo. Come… ti… chiami… ?”

Come poteva convincerli che era chi diceva di essere? I battiti del cuore di Reid presero velocità mentre la realizzazione lo colpiva come una mazzata alla testa. Stava rischiando di morire in quella stanza. “Ti sto dicendo la verità!” insistette. All’improvviso le parole sgorgarono dalle sue labbra, come acqua che avesse sfondato una diga. “Mi chiamo Reid Lawson. Ti prego, dimmi perché sono qui. Non so che cosa sta succedendo. Non ho fatto niente…”

L’uomo schiaffeggiò Reid sulla bocca. La sua testa scattò di lato e lui ansimò per il dolore del labbro appena spaccato.

“Il tuo nome.” L’uomo si pulì il sangue dall’anello d’oro che aveva alla mano.

“Te l’ho detto,” balbettò. “Mi chiamo Lawson.” Soffocò un singhiozzo. “Ti prego.”

Alzò lo sguardo, spaventato. Il suo interrogatore lo fissò a sua volta, impassibile e freddo. “Il tuo nome.”

“Reid Lawson!” Reid sentì il calore salirgli sulle guance, mentre il dolore si trasformava in rabbia. Non sapeva che altro dire, che cosa volessero che dicesse. “Lawson! È Lawson! Potete controllare la mia…” No, non potevano controllare la sua carta d’identità. Non aveva avuto con sé il portafoglio quanto i tre uomini lo avevano preso.

Il suo interrogatore schioccò la lingua in segno di disapprovazione e poi scagliò un pugno ossuto al centro del plesso solare di Reid. Di nuovo il professore si ritrovò senza fiato. Per un minuto intero non riuscì a respirare; e alla fine boccheggiò ansimante. Gli bruciava il petto. Gli colava il sudore sulle guance e gli bruciava sul labbro spaccato. La testa gli pendeva senza forza, il mento appoggiato sul petto, mentre lottava contro un’ondata di nausea.

“Il tuo nome,” ripeté con calma l’interrogatore.

“Io… non so che cosa vuoi che ti dica,” sussurrò Reid. “Non so che cosa stai cercando. Ma non sono io.” Stava impazzendo? Era certo di non aver fatto niente per meritarsi un trattamento di quel tipo.

L’uomo con la kufi si sporse di nuovo in avanti, prendendo gentilmente il mento di Reid tra due dita. Gli sollevò il capo, costringendolo a guardarlo negli occhi. Le sue labbra sottili si stesero in un sorrisetto.

“Amico mio,” disse. “Le cose andranno molto molto peggio, prima di migliorare.”

Reid deglutì e sentì il sapore del rame in fondo alla gola. Sapeva che il sangue era un emetico; bastavano settecento grammi per far vomitare, e lui si sentiva già nauseato e stordito. “Ascoltami,” lo implorò. La sua voce suonò tremante e timida. “Mi chiamo Reid Lawson. Sono un professore di storia europea alla Columbia University. Sono vedovo e ho due…” Si interruppe. Fino a quel momento i suoi rapitori non avevano dato nessuna indicazione di sapere delle sue figlie. “Se non è questo che state cercando, non posso aiutarvi. Ti prego. È la verità.”

L’interrogatore lo fissò per un lungo momento, senza battere ciglio, poi disse seccamente qualcosa in arabo. Reid sussultò a quello scatto improvviso.

La serratura si aprì di nuovo. Oltre la spalla dell’uomo, Reid vide apparire la forma della porta. Sembrava di qualche tipo di metallo, ferro o acciaio.

La stanza, capì, era stata costruita per essere una cella di prigione.

Una sagoma apparve all’ingresso. L’interrogatore disse qualcos’altro nella sua lingua nativa, e la sagoma svanì. Sogghignò verso Reid. “Lo vedremo,” disse semplicemente.

Accompagnato da un cigolio di ruote, la sagoma riapparve, quella volta spingendo un carrello metallico nella stanzetta di cemento. Reid riconobbe chi lo spingeva, era l’uomo grosso e silenzioso che era apparso a casa sua, con la stessa espressione accigliata di prima.

Sul carrello c’era una macchina arcaica, una scatola marrone con una decina di manopole e manovelle e grossi cavi neri che spuntavano da un lato. Dal lato opposto emergeva un rotolo di carta bianca su cui si agitavano aghi sottili.

Era un poligrafo, probabilmente vecchio quanto Reid, ma comunque una macchina della verità. Sospirò per il sollievo. Almeno avrebbero capito che stava dicendo la verità.

Che cosa gli avrebbero fatto in seguito… preferiva non pensarci.

L’interrogatore cominciò a stringere i due sensori con il velcro alle sue dita, un manicotto attorno al suo bicipite sinistro e due corde attorno al suo petto. Si sedette di nuovo, estrasse una matita dalla tasca e si infilò l’estremità con la gomma rosa in bocca.

“Sai che cosa è,” disse semplicemente. “Sai come funziona. Se dici qualsiasi cosa che non sia la risposta alle mie domande, ti faremo del male. Lo capisci?”

Reid annuì una volta sola. “Sì.”

L’interrogatore premette un pulsante e armeggiò con le manopole sulla macchina. Il gigante accigliato era immobile dietro di lui, bloccando la luce della lampada e fissando storto Reid.

Gli aghi sottili si mossero leggermente sopra il rotolo di carta bianca, lasciando quattro segni neri. L’interrogatore scarabocchiò qualcosa sul foglio e poi spostò lo sguardo freddo su Reid. “Di che colore è il mio cappello?”

“Bianco,” rispose piano Reid.

“Di che specie sei tu?”

“Umano.” L’interrogatore stava stabilendo i valori di riferimento per le successive domande—di solito si annotavano quattro o cinque verità per controllare le potenziali bugie.

“In che città vivi?”

“New York.”

“Dove sei ora?”

Reid quasi sbuffò. “In una… sedia. Non lo so.”

L’interrogatore fece qualche segno intermittente sulla carta. “Come ti chiami?”

Reid fece del suo meglio per tenere ferma la voce. “Reid Lawson.”

Tutti e tre stavano fissando la macchina. Gli aghi continuarono indisturbati; non c’erano creste o vallate significative nelle linee tracciate.

“Che lavoro fai?” chiese l’interrogatore.

“Sono un professore di storia europea alla Columbia University.”

“Da quanto tempo fai il professore?”

“Tredici anni,” rispose sinceramente Reid. “Sono stato assistente professore per cinque e professore aggiunto in Virginia per sei. Da due anni sono professore associato a New York.”

“Sei mai stato a Tehran?”

“No.”

“Sei mai stato a Zagreb?”

“No!”

“Sei mai stato a Madrid?”

“N-sì. Una volta, circa quattro anni fa. Sono andato per un summit, mi ci ha mandato l’università.”

Gli aghi rimasero stabili.

“Non vedete?” Per quanto Reid avrebbe voluto gridare, cercò di rimanere calmo. “Avete la persona sbagliata. Chiunque stiate cercando, non sono io.”

L’interrogatore spalancò le narici, ma altrimenti non reagì. Il gigante congiunse le mani davanti a sé, le vene in netto rilievo sulla sua pelle.

“Hai mai incontrato un uomo chiamato sceicco Mustafar?” chiese l’interrogatore.

Reid scosse la testa. “No.”

“Sta mentendo!” Un uomo alto e magro entrò nella stanza, uno dei due che lo avevano aggredito a casa sua, lo stesso che gli aveva chiesto per primo come si chiamasse. Si avvicinò a grandi passi, lo sguardo ostile puntato su Reid. “La macchina può essere aggirata. Lo sappiamo.”

“Ci sarebbe qualche segno,” replicò con calma l’interrogatore. “Il linguaggio del corpo, il sudore, i segni vitali. Tutto indica che sta dicendo la verità.” Reid non poté evitare di pensare che stessero parlando in inglese a suo beneficio.

L’uomo alto si girò e cominciò ad aggirarsi per la stanzetta di cemento, borbottando furioso in arabo. “Chiedigli di Tehran.”

“L’ho fatto,” rispose l’interrogatore.

Allora lui si voltò verso Reid, furibondo. Il professore trattenne il fiato, aspettandosi di essere colpito.

Invece, l’uomo riprese a camminare. Disse rapidamente qualcosa in arabo. L’interrogatore rispose. Il gigante fissò Reid.

“Vi prego!” disse lui ad alta voce sopra le loro parole. “Non sono chi pensate voi, non ho memoria di quello di cui state parlando…”

L’uomo alto ammutolì e sgranò gli occhi. Fece un gesto come per colpirsi la fronte, e poi parlò concitato all’interrogatore. L’uomo impassibile con la kufi si accarezzò il mento.

“È possibile,” disse in inglese. Si alzò e prese la testa di Reid tra entrambe le mani

“Che cosa significa? Cosa stai facendo?” chiese Reid. Le punte delle dita dell’uomo si mossero lentamente su e giù per il suo scalpo.

“Silenzio,” disse piatto lui. Tastò l’attaccatura dei capelli di Reid, il suo collo, le sue orecchie… “Ah!” esclamò poi. Disse qualcosa al suo socio, che si avvicinò di corsa e piegò la testa di Reid di lato.

L’interrogatore passò un dito lungo il mastoide sinistro di Reid, la piccola sporgenza d’osso appena dietro l’orecchio. C’era un bozzo allungato sotto la pelle, poco più grande di un chicco di riso.

Disse qualcosa all’uomo alto e quest’ultimo uscì rapidamente dalla stanza. A Reid doleva il collo per via della strana angolazione a cui stavano tenendo la sua testa.

“Cosa? Cosa sta succedendo?” chiese.

“Questo ingrossamento, qui,” disse l’uomo, passandoci di nuovo un dito sopra. “Che cosa è questo?”

“È solo un’irregolarità dell’osso,” disse Reid. “Ce l’ho da un incidente d’auto che ho avuto quando avevo vent’anni.”

L’uomo alto tornò rapidamente, quella volta con un vassoio di plastica. L’appoggiò sul carrello, vicino al poligrafo. Nonostante la luce fioca e l’angolo a cui gli tenevano la testa, Reid vide chiaramente che cosa c’era nel vassoio. Un nodo di paura gli attorcigliò lo stomaco.

Dentro il vassoio c’erano diversi strumenti di metallo lucente.

“A che cosa servono quelli?” C’era il panico nella sua voce. Si agitò tra le corde. “Che cosa state facendo?”

L’interrogatore diede un rapido comando al gigante. Lui fece un passo in avanti e l’improvvisa luce della lampada quasi accecò Reid.

“Aspetta… aspetta!” gridò. “Dimmi che cosa vuoi sapere!”

Il gigante gli prese la testa in una grande mano e la strinse con forza, costringendolo a fermarsi. L’interrogatore scelse uno strumento, uno scalpello dalla lama sottile.

“Vi prego, non… non…” Reid cominciò ad ansimare in fretta. Stava quasi iperventilando.

“Sssh,” disse con calma l’interrogatore. “È meglio se rimani fermo. Non voglio tagliarti l’orecchio. Almeno, non per sbaglio.”

Reid gridò quando la lama tagliò la pelle dietro l’orecchio, ma il gigante lo tenne immobile. Ogni muscolo delle sue braccia si tese.

Uno strano suono lo raggiunse, una dolce melodia. L’interrogatore stava cantando una canzone in arabo mentre affettava la testa di Reid.

Lasciò cadere lo scalpello insanguinato nel vassoio mentre Reid continuava a respirare sibilando tra i denti. Poi afferrò un paio di pinze piane.

“Temo che quello fosse solo l’inizio,” gli sussurrò all’orecchio. “La prossima parte farà davvero male.”

Le pinze si strinsero attorno a qualcosa nella testa di Reid—l’osso del cranio?—e l’interrogatore tirò. Reid gridò per l’agonia, mentre un dolore accecante gli attraversava il cervello, pulsando nelle sue terminazioni nervose. Gli tremarono le mani. Sbatté i piedi sul pavimento.

Il dolore crebbe fino a quando Reid pensò che non sarebbe più riuscito a resistere. Il sangue gli pompava nelle orecchie e le sue stesse grida sembravano lontanissime. Poi la luce della lampada si affievolì, vide tutto nero e perse i sensi.

CAPITOLO TRE

A ventitré anni, Reid aveva avuto un incidente in auto. Il semaforo era diventato verde e lui aveva attraversato l’incrocio. Un furgone era passato con il rosso ed era andato a schiantarsi nel lato del suo sedile del passeggero. Aveva battuto la testa ed era rimasto svenuto per diversi minuti.

L’unica ferita era stata una frattura all’osso temporale. Era guarita bene, e l’unica prova dell’incidente era un piccolo ingrossamento dietro l’orecchio. Il dottore gli aveva detto che era una malformazione ossea.

La cosa buffa era che anche se ricordava l’incidente, non aveva memoria del dolore, né durante l’evento ma neanche dopo.

In quel momento lo sentiva. Mentre tornava in sé, la piccola zona ossea dietro l’orecchio pulsava d’agonia. La lampada tecnica gli brillava di nuovo negli occhi. Lui li strinse e gemette piano. Anche il minimo movimento del capo gli provocava una nuova ondata di dolore giù per il collo.

All’improvviso fu colpito da un pensiero. La luce accecante nei suoi occhi non era affatto la lampada.

Il sole del pomeriggio brilla in un cielo azzurro e sereno. Un Warthog A-10 vola sopra di lui, piegandosi a destra e abbassandosi sui tetti piatti e grezzi di Kandahar.

L’immagine non era fluida. Appariva in lampi, come diverse fotografie in sequenza, come guardare qualcuno ballare sotto una luce stroboscopica.

Sei in piedi su un tetto di un edificio parzialmente distrutto, un terzo del quale era stato abbattuto da una cannonata. Porti il calcio alla spalla, l’occhio al mirino, e punti un uomo al di sotto…

Reid mosse di scatto la testa e gemette. Era nella stanzetta di cemento, sotto l’occhio attento della lampada tecnica. Gli tremavano le dita e sentiva freddo a tutto il corpo. Il sudore gli gocciolava lungo la fronte. Probabilmente stava andando in shock. Con la coda dell’occhio notò che la spalla sinistra della camicia era intrisa di sangue.

“Un'irregolarità dell’osso,” disse la voce placida dell’interrogatore. Poi ridacchiò sarcastico. Una mano snella apparve davanti al suo campo visivo, stringendo le pinze. Tra le ganasce c’era un minuscolo oggetto argentato, ma Reid non riusciva a distinguere i dettagli. La sua vista era annebbiata e tutta la stanza girava. “Sai che cosa è?”

Reid scosse lentamente la testa.

“Lo ammetto, ne avevo visto solo uno prima,” disse. “Un chip di soppressione della memoria. È uno strumento molto utile per le persone nella tua particolare situazione.” Lasciò cadere le pinze insanguinate e il granello argentato nel vassoio di plastica.

“No,” grugnì Reid. “Impossibile.” L’ultima parola fu poco più di un bisbiglio. Soppressione della memoria? Era fantascienza. Per funzionare, avrebbe dovuto influenzare l’intero sistema limbico del cervello.

Il quinto piano del Ritz a Madrid. Ti sistemi la cravatta nera prima di sferrare un solido calcio appena sopra la maniglia. L’uomo all’interno è preso alla sprovvista; salta in piedi e afferra una pistola dal comò. Ma prima che riesca a puntartela contro, gli prendi la mano e la pieghi lontano. La forza del gesto gli spezza con facilità il polso

Reid si riscosse dalla scena confusa che gli era apparsa nella mente, mentre l’interrogatore si riaccomodava davanti a lui.

“Mi hai fatto qualcosa,” borbottò.

“Sì,” concordò l’interrogatore. “Ti ho liberato dalla tua prigione mentale.” Si sporse in avanti con un ghigno a labbra strette, cercando qualcosa negli occhi di Reid. “Stai ricordando. È uno spettacolo affascinante. Sei confuso. Le tue pupille sono dilatate in maniera anormale, nonostante la luce. Che cosa è reale, ‘professor Lawson’?”

Lo sceicco. Con ogni mezzo possibile.

“Quando i nostri ricordi ci abbandonano…”

Ultimo avvistamento: Una casa sicura a Teheran.

“Chi siamo noi?”

Un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua… chi lo ha detto?

“Chi diventiamo?”

Lo hai detto tu.

Reid si sentì scivolare nel vuoto. L’interrogatore lo schiaffeggiò due volte, riportandolo nella stanza di cemento. “Ora possiamo continuare. Quindi te lo domando di nuovo: Come… ti… chiami?”

Entri da solo nella sala degli interrogatori. Il sospettato è ammanettato a un bullone attaccato al tavolo. Infili una mano nella tasca interna dell’abito, ne estrai un portadocumenti in pelle con dentro una carta d’identità e lo apri…

“Reid Lawson.” La sua voce era incerta. “Sono un professore… di storia europea…”

L’interrogatore sospirò deluso. Fece cenno di avvicinarsi al gigante corrucciato e un pesante pugno si abbatté sulla guancia di Reid. Un molare rimbalzò sul pavimento accompagnato da uno spruzzo di sangue fresco.

Per un momento, non ci fu dolore; la sua faccia era insensibile, pulsante per l’impatto. Poi una nuova ondata di agonia ebbe il sopravvento.

“Nggh…” Cercò di formare delle parole, ma le sue labbra non si muovevano.

“Te lo chiedo di nuovo,” disse l’interrogatore. “Tehran?”

Lo sceicco si era nascosto in una casa sicura camuffata da fabbrica tessile.

“Zagreb?”

Due uomini iraniani arrestati in un aeroporto privato, mentre stanno per salire a bordo di un aereo per Parigi.

“Madrid?”

Il Ritz, quinto piano: una cella dormiente attivata con una bomba in una valigetta. Destinazione presunta: la Plaza de Cibeles.

“Lo sceicco Mustafar?”

Ha contrattato per avere salva la vita. Ci ha detto tutto quello che sapeva. Nomi, luoghi, piani. Ma non sapeva abbastanza…

“Lo so che stai ricordando,” disse l’interrogatore. “Il tuo sguardo ti tradisce… Zero.”

Zero. Un'immagine gli lampeggia davanti agli occhi: Un uomo con degli occhiali da aviatore e una giacca da motociclista scura. È in un angolo di una qualche città europea. Si muove insieme alla folla. Nessuno sa chi è. Nessuno sa che è lì.

Ancora una volta Reid cercò di togliersi quelle visioni dalla testa. Che cosa gli stava succedendo? Gli danzavano nella mente come sequenze in stop-motion, ma lui si rifiutava di accettarle come ricordi. Erano falsi. Impiantati, in qualche maniera. Era un professore universitario, con due figlie adolescenti e una umile casa nel Bronx…

“Dicci che cosa sai dei nostri piani,” chiese impassibile l’interrogatore.

Noi non parliamo. Mai.

Le parole gli riecheggiarono nella mente, ancora e ancora. Noi non parliamo. Mai.

“Ci sta mettendo troppo tempo!” gridò l’uomo iraniano più alto. “Costringilo.”

L’interrogatore sospirò. Tese una mano verso il carrello di metallo, ma non per accendere il poligrafo. Invece le sue dita si soffermarono sulla vaschetta di plastica. “Di solito sono un uomo paziente,” disse a Reid. “Ma devo ammettere che la frustrazione del mio socio è piuttosto contagiosa.” Sollevò lo scalpello insanguinato, lo strumento che aveva usato per tagliare il granello argentato dalla sua testa, e premette gentilmente la punta della lama contro i jeans di Reid, una decina di centimetri sopra il ginocchio. “Tutto ciò che vogliamo sapere è che informazioni hai. Nomi. Date. A chi hai detto quello che sai. Le identità dei tuoi colleghi in campo.”

Morris. Reidigger. Johansson. I nomi gli apparvero davanti agli occhi, ognuno accompagnato da un volto che non aveva mai visto prima. Un uomo giovane dai capelli scuri e il sorriso arrogante. Un altro dall’aspetto amichevole e bonaccione in una rigida camicia bianca. Una donna dai lunghi capelli biondi e occhi grigi e severi.

“E che cosa ne è stato dello sceicco.”

In qualche modo Reid sapeva che lo sceicco in questione era stato catturato e portato in una prigione segreta in Marocco. Non era una visione. Era semplicemente quello che sapeva.

Noi non parliamo. Mai.

Un brivido freddo corse lungo la sua spina dorsale mentre lottava per tenere stretta la sua sanità mentale.

“Dimmelo,” insisté l’interrogatore.

“Non lo so.” Le parole erano strane sulla sua lingua gonfia. Alzò lo sguardo allarmato e vide che l’altro uomo gli stava sogghignando.

Aveva capito la domanda fatta in una lingua straniera… e aveva risposto in un perfetto arabo.

L’interrogatore spinse la punta dello scalpello nella gamba di Reid. Lui gridò quando la lama penetrò il muscolo della sua coscia. Istintivamente cercò di spostarsi, ma aveva le caviglie legate alla sedia.

Strinse con forza i denti, la mascella dolorante in reazione. La ferita alla gamba bruciava intensamente. L’interrogatore sogghignò e piegò leggermente la testa. “Devo ammettere che sei più tosto di molti altri, Zero,” disse in inglese. “Sfortunatamente per te, io sono un professionista.” Si abbassò per sfilargli uno dei calzini ormai sporchi. “Non mi capita spesso di dover usare questa tecnica.” Si raddrizzò e lo guardò direttamente negli occhi. “Ecco cosa sta per succedere: io ti taglierò via dei piccoli pezzi e te li farò vedere, uno a uno. Inizieremo con le dita dei piedi. Poi con quelle delle mani. Dopo di che… vedremo cosa vorrai fare.” L’interrogatore si inginocchiò e premette la lama contro il dito più piccolo del suo piede destro.

“Aspetta,” supplicò Reid. “Ti prego, aspetta.”

Gli altri due uomini gli si avvicinarono, guardandolo interessati.

Disperato, Reid strinse le corde che gli tenevano bloccati i polsi. Era un nodo da pescatore con due cappi opposti legati con due mezzi colli…

Un intenso brivido lo attraversò dalla base della spina dosale alle spalle. Lui sapeva. In qualche modo sapeva e basta. Provava una forte sensazione di déjà vu, come se fosse già stato in quella situazione, o piuttosto, come se quelle visioni pazzesche che si erano impiantate nella sua mente gli stessero dicendo che era così.

Ma ben più importante, sapeva che cosa doveva fare.

“Te lo dirò!” ansimò. “Ti dirò che cosa vuoi sapere.”

L’interrogatore alzò lo sguardo. “Sì? Bene. Per prima cosa, comunque, ti taglierò questo dito. Non vorrei che pensassi che stavo bluffando.”

Dietro la sedia, Reid strinse il pollice sinistro nella mano opposta. Trattenne il fiato e diede uno strattone. Sentì la sensazione di distacco quando il pollice si dislocò e attese l’arrivo di un dolore acuto e intenso, ma fu poco più di una vaga fitta.

Fu colpito da un nuovo pensiero: non era la prima volta che gli succedeva.

L’interrogatore tagliò la pelle del suo dito del piede e lui strillò. Con il pollice a un’angolazione opposta alla solita, riuscì a sfilare la mano dal cappio. Una volta liberato uno dei due nodi anche l’altro cedette.

Aveva le mani libere, ma nessuna idea di cosa farci.

L’interrogatore alzò lo sguardo e corrugò le sopracciglia in un'espressione confusa. “Cosa…?”

Prima che riuscisse a dire un'altra parola, la mano destra di Reid scattò e afferrò il primo strumento che trovò, un coltello di precisione dal manico nero. L’interrogatore provò ad alzarsi e Reid si mosse. Gli tagliò la carotide con la lama.

Lui si portò entrambe le mani alla gola. Il sangue gli colò tra le dita mentre crollava con gli occhi sgranati a terra.

Il gigante ruggì furibondo e corse in avanti. Strinse le grosse mani attorno alla gola di Reid e premette. Reid cercò di pensare ma era sopraffatto dalla paura.

Il momento dopo stava alzando di nuovo il coltello di precisione e stava pugnalando il polso del gigante. Roteò la spalla mentre spingeva, e gli aprì un varco su per l’avambraccio. Il gigante gridò e cadde, afferrandosi la profonda ferita.

L’uomo alto e magro lo fissava sbalordito. Proprio come in precedenza, nella strada davanti a casa di Reid, sembrava esitare ad avvicinarsi. Invece, armeggiò con il vassoio di plastica alla ricerca di un’arma. Prese una lama ricurva e si gettò contro il suo petto.

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Yaş sınırı:
16+
Litres'teki yayın tarihi:
09 eylül 2019
Hacim:
431 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781094310022
İndirme biçimi:
epub, fb2, fb3, ios.epub, mobi, pdf, txt, zip
Serideki Birinci kitap "Uno spy thriller della serie Agente Zero"
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