Kitabı oku: «Il ritorno dell’Agente Zero», sayfa 4
Una prigione segreta in Marocco. Un uomo che ha passato tutta la sua vita in mezzo alle ricchezze e al potere, calpestando i meno fortunati di lui e schiacciandoli sotto le sue scarpe, ora è terrorizzato perché sa che potrebbero seppellirlo fino al collo nella sabbia e nessuno avrebbe mai ritrovato le sue ossa.
“Vi ho detto tutto quello che so!” insiste.
Come no. “Le mie fonti dicono altrimenti. Dicono che potresti sapere molto di più, ma che forse hai paura delle persone sbagliate. Ecco cosa ti dico, sceicco… il mio amico nella stanza qui vicina? Si sta innervosendo. Vedi, lui ha questo martello… è una cosetta, davvero, un martello da roccia, come quello che userebbe un geologo? Ma fa meraviglie sulle ossa più piccole, sulle nocche…”
“Lo giuro!” Lo sceicco si stringe le mani ansioso. Lo riconosci come un segnale. “Ci sono state altre conversazioni sui piani, ma erano in tedesco, in russo… io non le ho capite!”
“Lo sai, sceicco, un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua.”
Reid tornò di colpo al fetido baretto. Si sentiva la gola secca. Il ricordo era stato intenso, vivido e lucido come tutti gli altri. Ed era stata la sua voce a parlare, a minacciare con facilità, pronunciando cose che non si sarebbe mai sognato di dire a un’altra persona.
Piani. Lo sceicco aveva definitivamente detto qualcosa su dei piani. Qualsiasi cosa tremenda stesse sospingendo il suo inconscio, aveva la netta sensazione che ancora non fosse successa.
Prese un sorso del caffè ormai tiepido per calmare i nervi. “Okay,” disse a se stesso. “Okay.” Durante l’interrogatorio nello scantinato, gli avevano chiesto le identità di altri agenti attivi, e tre nomi gli erano lampeggiati nella mente. Ne scrisse uno, e poi lo lesse ad alta voce. “Morris.”
Un aeroporto privato a Zagreb. Morris sta correndo di fianco a te. Entrambi avete le pistole in pugno, con la canna puntata verso il basso. Non potete lasciare che i due iraniani raggiungano l’aereo. Morris prende la mira tra una falcata e un’altra e spara due volte. Un colpo arriva a segno a un polpaccio e il primo uomo cade. Tu ti avvicini all’altro, abbattendolo brutalmente al suolo…
Un altro nome. “Reidigger.”
Un sorriso giovanile, capelli pettinati accuratamente. Un po’ di pancetta. Il peso non gli sarebbe stato male addosso con qualche centimetro di più d’altezza. Il bersaglio di molti scherzi, ma li sopportava con pazienza.
Il Ritz a Madrid. Reidigger copre la hall mentre tu abbatti la porta a calci e prendi il terrorista di sorpresa. L’uomo cerca di prendere la pistola sul comò, ma tu sei più veloce. Gli spezzi il polso… Più tardi Reidigger ti dirà che ha sentito il rumore da fuori nel corridoio. Gli ha dato la nausea. Tutti ridono.
Il caffè ormai era freddo, ma Reid quasi non lo notò. Gli tremavano le dita. Non c’era alcun dubbio: qualsiasi cosa gli stesse succedendo, quelli erano dei ricordi… i suoi ricordi. O quelli di qualcuno. I rapitori, gli avevano tagliato qualcosa dal collo e lo avevano chiamato un soppressore dalla memoria. Non poteva essere vero; quello non era lui. Era qualcun altro. Aveva i ricordi di qualcun altro mescolati ai suoi.
Reid appoggiò di nuovo la punta della penna al tovagliolo e scrisse l’altro nome. Lo pronunciò ad alta voce: “Johansson.” Una forma gli apparve nella mente. Lunghi capelli biondi, lisci e lucidi. Zigomi rotondi e alti. Labbra piene. Occhi grigi, del colore dell’ardesia. Una visione lampeggiò…
Milano. Notte. Un albergo. Vino. Maria è seduta sul letto con le gambe incrociate sotto di sé. I primi tre bottoni della camicetta sono aperti. I capelli sono spettinati. Non avevi mai notato quanto fossero lunghe le sue ciglia. Due ore prima l’hai guardata uccidere due uomini in una sparatoria, e ora bevete Sangiovese e mangiate Pecorino toscano. Le vostre ginocchia quasi si toccano. Il suo sguardo incontra il tuo. Nessuno di voi due parla. Lo vedi nei suoi occhi, ma lei sa che non puoi farlo. Ti chiede di Kate…
Reid sussultò sentendo montare un gran mal di testa, che gli si allargò nel cranio come una nube temporalesca. Allo stesso tempo, la visione si sfocò e svanì. Strinse gli occhi e si premette le tempie per un minuto intero prima che il mal di testa diminuisse.
Che diavolo è stato quello?
Per qualche motivo sembrava che il ricordo della donna, Johansson, gli avesse provocato una breve emicrania. Ancora più disturbante, tuttavia, fu la strana sensazione che lo colse mentre il mal di testa gli passava. Era come… desiderio. No, era più di quello, sembrava passione, rinforzata dall’eccitazione e persino dal pericolo.
Non riuscì a evitare di chiedersi chi fosse la donna, ma poi si riscosse. Non voleva provocarsi un altro mal di testa. Invece appoggiò di nuovo la penna sul tovagliolo, per scrivere l’ultimo nome: Zero. Era in quella maniera che l’aveva chiamato l’interrogatore iraniano. Ma prima che potesse scriverlo o recitarlo, provò una sensazione bizzarra. Gli si rizzarono tutti i peli del collo.
Qualcuno lo stava guardando.
Quando alzò lo sguardo, vide un uomo in piedi all’ingresso del Féline, gli occhi puntati su Reid come un falco che stesse dando la caccia a un topo. Gli si gelò il sangue. Lo stava osservando.
Era quello l’uomo che doveva incontrare, ne era certo. Lo aveva riconosciuto? Gli uomini arabi non sembravano averlo fatto. Che quello sconosciuto stesse aspettando qualcun altro?
Appoggiò la penna. Lentamente e senza dare nell’occhio, accartocciò il tovagliolo e lo lasciò cadere nella tazzina di caffè mezza piena.
L’uomo annuì una volta. Lui annuì in risposta.
Poi lo sconosciuto portò una mano dietro la schiena, per prendere qualcosa infilato nel retro dei pantaloni.
CAPITOLO CINQUE
Reid si alzò con tanta forza che la sedia quasi cadde all’indietro. Immediatamente la mano gli andò al calcio ruvido della Beretta, riscaldato dalla sua schiena. La sua mente gli stava gridando freneticamente: Questo è un luogo pubblico. Ci sono delle persone qui. Non ho mai usato una pistola.
Prima che Reid potesse estrarre l’arma, lo sconosciuto prese un portafoglio dalla tasca dietro i pantaloni. Gli sorrise, apparentemente divertito dal suo nervosismo. Nessun altro nel bar pareva averlo notato, a parte la cameriera con i capelli arruffati, che si era limitata a sollevare un sopracciglio.
Lo sconosciuto si avvicinò al bancone, allungò una banconota e borbottò qualcosa al barista. Poi si diresse al tavolo di Reid. Rimase fermo in piedi dietro la sedia libera per un lungo momento, un ghigno sulle labbra.
Era giovane, doveva aver massimo trent’anni, con capelli tagliati corti e l’accenno di una barba. Era magro e la sua faccia era scavata, tanto che gli zigomi alti e il mento sporgente lo facevano sembrare una caricatura. Il dettaglio più disarmante erano gli occhiali dalla montatura nera che portava, che davano l’impressione che Buddy Holly fosse cresciuto negli anni ’80 e avesse scoperto la cocaina.
Era destrorso, si vedeva; teneva il gomito sinistro vicino al corpo, che probabilmente significava che aveva una pistola nella fondina da spalla che gli pendeva sotto l’ascella, per poterla estrarre con la destra se ne avesse avuto bisogno. Con la mano sinistra teneva ferma la giacca di velluto nero per nascondere l’arma.
“Mogu sjediti?” chiese alla fine l’uomo.
Mogu…? Reid non lo capì subito, come era stato invece per l’arabo e il francese. Non era russo, ma ci andava tanto vicino da poter intuire il significato aiutandosi con il contesto. L’uomo stava chiedendo se poteva sedersi.
Gli indicò la sedia libera davanti a sé e l’uomo si accomodò, tenendo sempre il gomito sinistro attaccato al corpo.
Non appena fu seduto, la cameriera gli portò un bicchiere di birra scura e l’appoggiò davanti a lui. “Merci,” disse. Sorrise a Reid. “Non parli il serbo?”
Reid scosse la testa. “No.” Serbo? Aveva dato per scontato che l’uomo con cui si sarebbe incontrato sarebbe stato arabo, come i suoi rapitori e l’interrogatore.
“In inglese, allora? Ou francais?”
“A tua scelta.” Reid era sorpreso da quanto sembrasse calma e rilassata la sua voce. Il cuore gli stava per esplodere dal petto per la paura e… e se doveva essere sincero, anche per un tocco di eccitazione nervosa.
Il sorriso dell’uomo serbo si allargò. “Mi piace questo posto. È buio. È tranquillo. È l’unico bar che conosco in questo arrondissement che serve la Franziskaner. È la mia preferita.” Prese una lunga sorsata dal bicchiere, con gli occhi chiusi, e gli sfuggì un grugnito di piacere. “Que deliciosa.” Aprì gli occhi e aggiunse: “Non sei quello che mi aspettavo.”
Un’ondata di panico si alzò nel ventre di Reid. Lo sa, gli gridò la sua mente. Lo sa che non sei tu quello con cui si sarebbe dovuto incontrare, e ha una pistola.
Rilassati, disse l’altra voce, quella nuova. Sai quello che devi fare.
Reid deglutì, ma in qualche modo riuscì a mantenere un contegno sdegnoso. “Neanche tu,” rispose.
Il serbo ridacchiò. “Mi sembra giusto. Ma siamo tanti, sì? E tu… tu sei americano?”
“Espatriato,” replicò Reid.
“Non lo siamo tutti?” Un’altra risatina. “Prima di te ho incontrato solo un altro americano nel nostro, uhm… quale è la parola… conglomerato? Sì. Quindi per me non è così strano.” L’uomo gli fece un occhiolino.
Reid si tese. Non riusciva a capire se era una battuta o meno. E se avesse capito che era l’uomo sbagliato e lo stava solo prendendo in giro o guadagnando tempo? Si appoggiò le mani in grembo per nascondere le dita tremanti.
“Mi puoi chiamare Yuri. Come posso chiamare te?”
“Ben.” Era il primo nome che gli era venuto in mente, quello di un mentore dei tempi in cui era assistente.
“Ben. Come sei arrivato a lavorare per gli iraniani?”
“Con,” lo corresse Reid. Strinse gli occhi per un maggiore effetto. “Io lavoro con loro.”
L’uomo, Yuri, prese un altro sorso della sua birra. “Certo. Con. Come è successo? Nonostante i nostri interessi comuni, tendono a essere un… ah, un gruppo chiuso.”
“Sono affidabile,” rispose Reid senza battere ciglio. Non aveva idea da dove venissero quelle parole, né la convinzione con cui le pronunciava. Le disse come se le avesse provate e riprovate.
“E dove è Amad?” chiese casualmente Yuri.
“Non è potuto venire,” rispose calmo Reid. “Ti manda i suoi saluti.”
“Va bene, Ben. Hai detto che la missione ha avuto successo.”
“Sì.”
Yuri si tese in avanti, socchiudendo gli occhi. Reid sentiva l’odore del malto nel suo fiato. “Ho bisogno di sentirtelo dire, Ben. Dimmi, l’uomo della CIA è morto?”
Reid si paralizzò per un istante. CIA? Cioè, la CIA? All’improvviso tutti i discorsi su agenti in campo e le visioni di terroristi catturati in aeroporti e in albergo acquistarono un senso, anche se la situazione generale rimaneva nebulosa. Poi si riscosse e sperò di non aver lasciato trasparire niente che lo avesse tradito.
Anche lui si sporse in avanti e disse lentamente: “Sì, Yuri, l’uomo della CIA è morto.”
Yuri si appoggiò allo schienale della sedia con calma e sorrise di nuovo. “Bene.” Sollevò il bicchiere. “E le informazioni? Le hai?”
“Ci ha detto tutto quello che sapeva,” gli confermò Reid. Non poté fare a meno di notare che le sua dita non tremavano più sotto il tavolo. Era come se qualcun altro fosse in controllo, e Reid Lawson avesse ceduto le redini del suo stesso cervello. Decise di non opporsi.
“L’ubicazione di Mustafar?” chiese Yuri. “E tutto quello che gli ha detto?”
Reid annuì.
Yuri batté le palpebre ripetutamente, in attesa. “Sto aspettando.”
Un’idea si fece largo nella mente di Reid, mentre metteva insieme le poche conoscenze che aveva. La CIA era coinvolta. C’era un qualche piano che avrebbe potuto uccidere molte persone. Lo sceicco lo sapeva, e aveva detto a loro, a lui, tutto quanto. Quegli uomini volevano sapere che cosa aveva detto lo sceicco. Ecco a cosa era interessato Yuri. Qualsiasi cosa fosse, doveva essere una grossa faccenda e Reid ci era finito in mezzo… anche se aveva la sensazione che non fosse la prima volta che capitava.
Non disse nulla per un lungo momento, abbastanza lungo perché il sorriso di Yuri evaporasse in una smorfia a denti stretti. “Io non ti conosco,” disse poi Reid. “Non so chi rappresenti. Ti aspetti che ti dica tutto quello che so e poi me ne vada via, fidandomi che vada tutto per il verso giusto?”
“Sì,” rispose Yuri. “È esattamente quello che mi aspetto, e precisamente la ragione di questo incontro.”
Reid scosse la testa. “No. Vedi, Yuri, sto pensando che questa informazione è troppo importante per giocare al telefono senza fili e sperare che arrivi alle orecchie giuste e nel modo giusto. Inoltre per quel che mi riguarda, c’è solo un posto in cui esiste, vale a dire proprio qui.” Si toccò la tempia sinistra. Era vero, le informazioni che stavano cercando erano, presumibilmente da qualche parte in fondo alla sua mente, in attesa di essere sbloccate. “Sto anche pensando,” continuò, “che ora che ho questa informazione, i nostri piani cambieranno. Mi sono stancato di fare il messaggero. Voglio entrarci. Voglio un vero ruolo.”
Yuri si limitò a fissarlo. Poi scoppiò in una risata secca e rumorosa, colpendo allo stesso tempo il tavolo con tanta forza da far sobbalzare gli altri clienti. “Tu!” esclamò, agitando un dito. “Sarai anche un espatriato, ma hai ancora l’ambizione americana!” Rise di nuovo, un verso che ricordava da vicino quello di un asino. “Che cosa è che vuoi sapere, Ben?”
“Iniziamo con chi rappresenti tu in questa storia?”
“Come fai a sapere che rappresento qualcuno? Per quel che ne sai tu, potrei essere io il capo. La mente dietro il piano criminale!” Sollevò entrambe le mani in un gesto plateale e rise di nuovo.
Reid sogghignò. “Non credo. Penso che tu sia nella mia stessa situazione, un messaggero, portatore di segreti, che si incontra per scambiare notizie in bar di quart’ordine.” Tattica di interrogatorio: mettiti al loro stesso livello. Yuri era chiaramente un poliglotta e non sembrava avere lo stesso atteggiamento temprato dei suoi rapitori. Ma anche se era di basso livello, sapeva più di Reid. “Che ne dici di fare un patto? Tu mi dici quello che sai, e io di dico quello che so.” Abbassò la voce in un sussurro. “E credimi, le mie informazioni ti interessano.”
Yuri si accarezzò il mento ruvido pensieroso. “Mi piaci, Ben. Che è, come si dice, uhm, un contrasto, perché di solito gli americani mi danno la nausea.” Sorrise. “Purtroppo per te, non posso dirti quello che non so.”
“Allora indicami chi può farlo.” Le parole uscirono dalla sua bocca senza neanche passare per il cervello, direttamente dalla gola. La parte più logica di Reid (o più appropriatamente, la parte Lawson di lui) gridò in protesta. Che cosa stai facendo?! Fatti dire quello che sa ed esci da qui!
“Vorresti venire a fare un giro in auto con me?” Gli occhi di Yuri lampeggiarono. “Ti porterò a vedere il mio capo. Lì potrai dirgli quello che sai.”
Reid esitò. Sapeva che non avrebbe dovuto. Sapeva che non voleva farlo. Ma c’era quel bizzarro senso di obbligo, e quella volontà ferrea in fondo alla sua mente che continuava a dirgli: Rilassati. Aveva una pistola. Aveva le competenze. Era arrivato fino a quel punto e a giudicare da quello che aveva imparato, si trattava di un affare più grosso di qualche uomo iraniano in uno scantinato di Parigi. C’era un piano, il coinvolgimento della CIA, ed era ovvio che lo scopo finale era la morte di molte persone.
Annuì seccamente, a denti stretti.
“Fantastico,” Yuri scolò il suo bicchiere e si alzò, continuando a tenere il gomito sinistro contro il corpo. “Au revoir.” Fece un cenno di saluto al barista. Poi il serbo lo guidò fino al retro del Féline, attraverso una piccola cucina lurida, e fuori da una porta d’acciaio che dava su un vicolo tutto in ciottoli.
Reid lo seguì nella notte, sorpreso che fuori si fosse fatto tanto buio mentre era nel bar. All’imbocco del vicolo c’era un SUV nero, in sosta, con i finestrini scuri quanto la sua vernice. La porta sul retro si aprì prima ancora che Yuri lo raggiungesse, e ne uscirono due scagnozzi. Reid non avrebbe saputo come altro definirli; entrambi avevano le spalle larghe, un’aria imponente e non facevano nulla per nascondere le pistole automatiche TEC-9 che pendevano dalle fondine sotto le loro ascelle.
“Calmatevi, amici miei,” intervenne Yuri. “Questo è Ben. Lo portiamo a vedere Otets.”
Otets. In russo il “padre”. O, a livello più tecnico, il “creatore”.
“Vieni,” gli disse amichevolmente Yuri. Batté una mano sulla spalla di Reid. “Sarà un viaggio piacevole. Beviamo un po’ di champagne. Vieni.”
Le gambe di Reid non volevano funzionare. Era pericoloso, troppo pericoloso. Se fosse salito in auto con quegli uomini e loro avessero scoperto chi era, o anche che non era chi aveva detto di essere, sarebbe stato un uomo morto. Le sue figlie sarebbero rimaste orfane, e probabilmente non avrebbero mai saputo che ne era stato di lui.
Ma che altra scelta aveva? Non poteva dire che aveva cambiato idea all’improvviso, sarebbe stato sospetto. Aveva già superato il punto di non ritorno seguendo Yuri fino a lì. E se avesse saputo mantenere la finzione abbastanza a lungo, avrebbe trovato la fonte e magari anche scoperto che cosa stava succedendo nella sua stessa testa.
Fece un passo verso il SUV.
“Ah! Un momento, por favor.” Yuri agitò un dito verso la sua muscolosa scorta. Uno dei due gorilla costrinse Reid a sollevare le braccia sui fianchi, mentre l’altro lo perquisiva. Prima trovò la Beretta, infilata dietro i pantaloni. Poi infilò due dita nelle sue tasche e ne estrasse la mazzetta di euro e il telefono usa e getta, per tenderli verso Yuri.
“Questi puoi tenerli.” Il serbo gli restituì il denaro. “Questi invece, li teniamo noi. Sicurezza. Tu capisci.” Yuri fece svanire cellulare e pistola in una tasca interna della giacca di velluto, e per un brevissimo istante Reid vide il calcio marrone di un’arma.
“Capisco,” rispose. Così era disarmato e senza alcun modo di chiamare aiuto se gli fosse servito. Dovrei scappare, pensò. Iniziare a correre senza guardarmi indietro…
Uno dei due scagnozzi lo costrinse a chinare la testa e ad avanzare nel retro del SUV. Entrambi salirono dopo di lui e Yuri li seguì, chiudendosi la portiera alle spalle. Si sedette accanto a Reid, mentre i gorilla incurvati, praticamente spalla contro spalla, sedevano nei sedili custom rivolti verso di loro, proprio dietro l’autista. Un vetro tinto di nero li separava da sedili davanti dell’auto.
Uno dei due bussò sul vetro dell’autista con due nocche. “Otets,” disse bruscamente.
Un secco click segnalò la chiusura delle portiere, e con esso arrivò la realizzazione di quello che Reid aveva fatto. Era salito in auto con tre uomini armati, senza avere alcuna idea di dove stesse andando e ancora di meno chi fosse lui stesso. Ingannare Yuri non era stato particolarmente difficile, ma adesso lo stava portando dal capo…. Avrebbe capito che non era chi diceva di essere? Lottò contro la tentazione di scattare avanti, aprire la porta e balzare giù dall’auto. Non aveva vie di fuga, almeno non al momento. Avrebbe dovuto aspettare che arrivassero alla loro destinazione e sperare di uscirne tutto d’un pezzo.
Il SUV avanzò nelle strade di Parigi.
CAPITOLO SEI
Yuri, che era stato tanto chiacchierone e animato dentro il bar francese, fu stranamente silenzioso durante il viaggio in auto. Aprì un compartimento lungo il sedile e ne estrasse un libro consumato e con la copertina strappata: il Principe di Machiavelli. Il professore dentro Reid avrebbe voluto sbuffare ad alta voce.
I due scagnozzi seduti davanti a lui rimasero muti, con gli occhi fissi in avanti come se stessero cercando di trapanargli il cranio. Memorizzò rapidamente i loro lineamenti: l’uomo sulla sinistra era rasato, bianco, con scuri baffi a manubrio e occhietti piccoli e scintillanti. Aveva una TEC-9 sotto la spalla e una Glock 27 infilata in una fondina da caviglia. Una cicatrice pallida e frastagliata sopra il sopracciglio sinistro suggeriva un rattoppo grossolano (non troppo diverso da quella che avrebbe avuto Reid, una volta che fosse guarito dal suo intervento con la supercolla). La nazionalità dell’uomo era indistinguibile.
Il secondo scagnozzo era leggermente più scuro, con una barba folta e incolta e una grossa pancia. La spalla sinistra sembrava leggermente cadente, come se preferisse caricare il peso sul fianco opposto. Anche lui aveva una pistola automatica infilata sotto un braccio, ma nessun’altra arma che Reid riuscisse a vedere.
Tuttavia aveva notato il marchio sul suo collo. La pelle era rosata e raggrinzita, leggermente rialzata per la bruciatura. Era lo stesso marchio che aveva visto sul gigante arabo nello scantinato. Un qualche genere di glifo, ne era certo, ma non uno che riuscisse a riconoscere. Sembrava che l’uomo con i baffi non l’avesse, anche se la maggior parte del suo collo era nascosta dalla maglietta.
Neanche Yuri pareva avere il marchio, almeno non dove Reid potesse vederlo. Il colletto della giacca di velluto nero era piuttosto alto. Forse è uno status symbol, pensò. Qualcosa che deve essere guadagnato.
L’autista diresse il veicolo sull’A4, lasciandosi Parigi alle spalle e dirigendosi a nord-est verso Reims. Le finestre tinte rendevano la notte ancora più buia, una volta usciti dalla Città delle Luci, era difficile per Reid distinguere qualsiasi punto di riferimento. Dovette fare affidamento sui cartelli stradali per sapere dove erano diretti. Il panorama mutò da un luminoso ambiente urbano a una topografia bucolica e rilassata. L’autostrada seguiva le curve gentili del terreno e fattorie si alzavano da ogni lato.
Dopo un’ora di viaggio in assoluto silenzio, Reid si schiarì la gola. “Ci vuole ancora molto?” chiese.
Yuri si portò un dito alle labbra e poi sorrise. “Oui.”
Reid allargò le narici, ma non disse altro. Avrebbe dovuto chiedergli dove avevano intenzione di portarlo; per quel che ne sapeva erano diretti in Belgio.
La Route A4 divenne l’A34, che a sua volta sfociò nell’A304 man mano che salivano verso nord. Gli alberi che punteggiavano la campagna diventarono più grossi e fitti, enormi abeti presero il posto delle fattorie aperte racchiudendoli in una foresta. La pendenza della strada aumentò e le colline gentili si trasformarono in piccole montagne.
Conosceva quel posto. O meglio, conosceva la regione, e non per via delle visioni lampeggianti o delle sue memorie misteriose. Non era mai stato lì, ma sapeva dai suoi studi che avevano raggiunto le Ardenne, una zona montagnosa e ricca di foreste divisa tra la Francia nord-orientale, il Belgio meridionale e il Lussemburgo settentrionale. Era stato nelle Ardenne che l’esercito tedesco, nel 1944, aveva tentato di mandare le sue divisioni armate attraverso la foresta nel tentativo di catturare la città di Antwerp. Era stato ostacolato dalle forze americane e inglesi vicino al fiume Mosa. Il conflitto che ne era risultato era stato chiamato l’Offensiva delle Ardenne ed era stato l’ultimo importante attacco dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Per qualche motivo, nonostante la sua situazione fosse, o sarebbe potuta presto diventare, disastrosa, trovò una piccola misura di conforto nel pensare alla storia, alla sua vita passata e ai suoi studenti. Ma poi la sua mente tornò sulla possibilità che le sue ragazze rimanessero da sole, spaventate e senza alcuna idea di dove fosse o in che guaio si fosse cacciato.
Ben presto, Reid vide un cartello che segnalava l’avvicinarsi del confine. Belgique, diceva il cartello, e sotto Belgien, België, Belgium. Meno di due miglia dopo, il SUV rallentò fino a fermarsi a una piccola cabina con una copertura di cemento. Un uomo in un pesante cappotto e un cappello di lana sbirciò verso il veicolo. I controlli alla frontiera tra Francia e Belgio erano tutt’altra cosa rispetto a quello a cui erano abituati gli americani. L’autista abbassò il finestrino e parlò all’uomo, ma le sue parole furono soffocate dal vetro e dai finestrini sul retro. Reid scrutò attraverso la vernice che oscurava i vetri e vide il braccio dell’autista tendersi per passare qualcosa all’agente di confine: una banconota. Una bustarella.
L’uomo con il cappello di lana li lasciò passare.
Solo qualche miglio lungo la N5, il SUV uscì dall’autostrada per prendere una stradina stretta che passava parallela alla via principale. Non c’erano cartelli d’uscita e la strada stessa era a malapena pavimentata: era una via d’accesso, probabilmente creata per i mezzi per il disboscamento. L’auto sobbalzò sopra i tagli profondi scavati nella terra. I due scagnozzi si rimbalzarono addosso davanti a Reid, ma continuarono a fissarlo impassibili.
Lui controllò l’economico orologio che aveva comprato in farmacia. Erano passate due ore e quarantasei minuti da quando si erano messi in viaggio. La notte prima era stato in America, poi si era risvegliato a Parigi, e ora era in Belgio. Rilassati, ripeté il suo subconscio. Non sono mete nuove per te. Fai solo attenzione e tieni la bocca chiusa.
Su entrambi i lati della strada sembrava esserci solo una densa boscaglia. Il SUV continuò, salendo lungo il fianco di una montagna e poi scendendo di nuovo. Nel frattempo Reid guardava fuori dal finestrino, fingendosi disinteressato ma in realtà alla ricerca di qualsiasi segno o cartello che gli dicesse dove erano, possibilmente qualcosa che avrebbe potuto riportare in seguito alle autorità, se ce ne fosse stato bisogno.
Davanti apparvero luci, anche se da quell’angolazione non riusciva a vederne la fonte. Il SUV rallentò di nuovo fino a fermarsi. Reid vide una recinzione nera di ferro battuto, ogni palo con una punta acuminata, che si estendeva per ogni lato svanendo nell’oscurità. Accanto alla loro auto c’era una piccola guardiola fatta di vetro e grossi mattoni, illuminata dall’interno da una luce fluorescente. Ne emerse un uomo. Indossava pantaloni eleganti e una giacca da marinaio, con il colletto alzato attorno al collo e una sciarpa grigia annodata attorno alla gola. Non fece alcun tentativo di nascondere il MP7 con silenziatore che gli pendeva da una cinghia sulla spalla destra. In effetti, mentre si avvicinava all’auto, strinse la pistola automatica, seppur senza alzarla.
Heckler & Koch, variante di produzione del MP7A1, disse la voce della testa di Reid. Silenziatore da sette virgola uno pollice. Mirino reflex. Caricatore da trenta colpi.
L’autista abbassò il finestrino e parlò con l’uomo per qualche secondo. Poi la guardia fece il giro del SUV e aprì la porta dal lato di Yuri. Si chinò e sbirciò nell’auto. Reid colse l’odore del whisky e fu colpito dalla ventata gelida che entrò con esso. L’uomo li guardò tutti, uno dopo l’altro, soffermandosi più a lungo su di lui.
“Kommunikator,” disse Yuri. “Chtoby uvidet’ nachal’nika.” Russo. Messaggero, per vedere il capo.
La guardia non disse nulla. Chiuse di nuovo la porta e tornò al suo posto, premendo un pulsante su una piccola console. Il cancello di ferro battuto ronzò mentre scivolava di lato, e il SUV entrò.
A Reid si strinse la gola mentre la gravità della situazione gli premeva addosso. Era andato all’incontro con l’intenzione di ottenere informazioni su qualsiasi cosa stesse capitando, non solo a lui, ma anche riguardo gli sceicchi, i piani e le città straniere. Era salito in auto con Yuri e due scagnozzi per trovare una fonte. Si era lasciato portare fuori dal paese e nel bel mezzo di una fitta foresta e ora erano dietro un’alta recinzione di ferro. Non aveva idea di come sarebbe potuto uscirne se le cose si fossero messe male.
Rilassati. Lo hai già fatto prima.
No, non è vero! pensò disperatamente. Sono un professore del college di New York. Non so che cosa sto facendo. Perché ho fatto una cosa del genere? Le mie ragazze…
Lasciati andare. Saprai che cosa fare.
Reid fece un respiro profondo, ma non calmò i suoi nervi. Sbirciò fuori dal finestrino. Nell’oscurità, riusciva a malapena a distinguere l’ambiente circostante. Non c’erano alberi al di l del cancello, ma piuttosto file e file di robusti rampicanti, che si alzavano e si stringevano a pali di plastica alti fino alla vita… Era una vigna. Che fosse veramente un vigneto o fosse solo una facciata, non ne era sicuro, ma almeno era qualcosa di riconoscibile, che poteva essere visto da un elicottero o da un drone.
Bene. Questo sarà utile in seguito.
Se ci sarà un seguito.
Il SUV si mosse lentamente sulla strada sterrata per un altro miglio circa, prima che finisse il vigneto. Davanti a loro si alzava un autentico palazzo, praticamente un castello, costruito in pietra grigia con finestre ad arco ed edera su tutta la facciata a sud. Per un brevissimo momento Reid apprezzò la magnifica architettura; doveva avere almeno duecento anni, forse di più. Ma non si fermarono lì; invece l’auto oltrepassò il palazzo e andò oltre. Dopo un altro mezzo miglio, si fermarono in un piccolo parcheggio e l’autista spense il motore.
Erano arrivati. Dove fossero arrivati, Reid non ne aveva idea.
Gli scagnozzi uscirono per primi, poi fu il turno di Reid, seguito da Yuri. Il freddo gelido gli tolse il fiato. Strinse la mascella per impedire ai denti di battere. La sua grossa scorta parve non esserne minimamente turbata.
A circa quaranta metri da loro c’era una struttura larga e bassa, alta due piani ed estesa per l’equivalente di diversi appartamenti; non aveva finestre ed era fatta di lamiere d’acciaio dipinte di beige. Una specie di impianto, ragionò Reid, forse per la vinificazione. Ma ne dubitava.
Yuri gemette e stiracchiò le membra. Poi sorrise a Reid. “Ben, capisco che ormai siamo buoni amici, ma lo stesso…” Estrasse dalla tasca della giacca un pezzo di stoffa nero e stretto. “Devo insistere.”
Reid annuì, seccamente. Che altra scelta aveva? Si girò perché Yuri potesse legargli la benda sopra agli occhi. Una mano forte e grossa gli strinse un avambraccio, uno dei due scagnozzi, senza dubbio.
“Ora, dunque,” annunciò Yuri. “Andiamo da Otets.” La mano forte lo tirò in avanti e lo guidò mentre si incamminavano in direzione della struttura d’acciaio. Sentì un’altra spalla contro la propria sul lato opposto; i due scagnozzi lo avevano circondato.
Reid respirò profondamente attraverso il naso, facendo del suo meglio per rimanere calmo. Ascolta, gli disse la sua mente.