Kitabı oku: «Un’esca per Zero», sayfa 3

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CAPITOLO DUE

Il funerale del sovrano saudita fu, come previsto, davvero opulento. Almeno questo lo era; quello che il mondo avrebbe visto sulle reti di informazione, il funerale pubblico, dopo che i riti islamici tradizionali erano stati onorati in un contesto più intimo con la famiglia. Questo era il funerale a cui partecipavano i capi di stato, la nobiltà saudita e i leader dell'industria, tenuto nel cortile dorato, circondato di colonne di marmo, del palazzo reale di Riyadh. O meglio, uno dei palazzi reali, pensò Joanna mentre si trovava in mezzo ai presenti in lutto, la testa china in segno di riverenza e la fronte cosparsa di sudore e illuminata dal rovente sole saudita.

Lei era la rappresentante degli Stati Uniti, ma non poteva fare a meno di sentirsi leggermente fuori posto per via del suo abbigliamento, un blazer nero, una camicia di seta nera e una gonna a tubino nera. Unito al fatto che la temperatura superava i trenta gradi, quell’abbigliamento la stava facendo soffocare, anche all'ombra. Fece del suo meglio per non darlo a vedere.

Joanna Barkley era una donna pragmatica quanto il suo guardaroba. Non aveva dubbi su quella caratteristica della sua personalità, sebbene gli altri talvolta sembrassero dubitarne. Da adolescente, la sua idea di diventare senatrice nello stato della California veniva vista come un sogno irrealizzabile dai suoi insegnanti e coetanei e persino da suo padre, procuratore. Ma Joanna già si figurava il percorso, la carriera che l'avrebbe portata a realizzare quel sogno. Lo sarebbe diventata, semplicemente. All'età di trentadue anni, aveva realizzato il suo sogno, quello che per lei non era altro che un'idea, ed era stata eletta al Congresso degli Stati Uniti, la più giovane senatrice della storia.

Quattro anni dopo, e poco più di due mesi prima, aveva scritto ancora una volta la storia quando il Presidente Jonathan Rutledge l'aveva nominata vicepresidente. A trentasei anni, Joanna Barkley era diventata non solo la prima vicepresidente donna nella storia della politica americana, ma anche la più giovane, insieme a John C. Breckinridge.

Nonostante il suo carattere serio e pragmatico, Joanna non poteva evitare di essere definita una sognatrice. Le sue politiche furono accolte con la stessa considerazione con cui era stato preso il suo sogno di infanzia, ciò nonostante, aveva realizzato tutto ciò che si era prefissata. Per lei, la revisione del sistema sanitario non era affatto impossibile, ma semplicemente qualcosa che necessitava di un piano completo per essere portato a compimento. Uscire dai conflitti in Medio Oriente, raggiungere la pace, il commercio equo e persino sedersi alla scrivania dello Studio Ovale… niente di tutto ciò era irrealizzabile o impraticabile.

Almeno non ai suoi occhi. I suoi detrattori e rivali, che erano molti, avrebbero detto diversamente.

Finalmente la processione si concluse dopo che un uomo alto con la barba grigia ebbe concluso una preghiera, mormorata prima in arabo e poi in inglese. Era vestito interamente di bianco dal collo alle caviglie; un prete, suppose Joanna, o qualcosa del genere. Non era molto esperta di cultura islamica come avrebbe dovuto essere, soprattutto ora che avrebbe dovuto farsi carico di quelle visite e missioni diplomatiche. Ma due mesi non erano stati sufficienti per prepararsi, e il suo mandato fino a quel momento era stato un vortice di eventi, non ultimo dei quali la missione di pace tra Stati Uniti e i paesi del Medio Oriente.

Il re Ghazi dell'Arabia Saudita aveva perso la sua lunga battaglia con una malattia sconosciuta, la cui natura la famiglia reale non era stata incline a condividere con il mondo. Joanna pensava che fosse percepita come una vergogna o ignominia al suo nome e che non aveva alcun desiderio di conoscerne i particolari. Mentre la preghiera volgeva al termine, la processione di leader, diplomatici e magnati si ritirò silenziosamente nella santità (e nell'aria condizionata) del palazzo reale, lontano dalla stampa e dalle telecamere. Una cosa curiosa, pensò Joanna, considerando quanto sembrasse essere riservata la famiglia reale.

Ma prima che potesse entrare, una voce la chiamò.

"Signora vicepresidente".

Si fermò. L'uomo che la stava chiamando non era altro che il principe Basheer, o meglio il re Basheer adesso, il figlio maggiore del sovrano defunto. Era alto, aveva le spalle larghe, forse stava anche gonfiando leggermente il petto, se non si sbagliava. Era vestito completamente di bianco, proprio come il prete, ad eccezione del suo copricapo: come si chiama? si chiese, che era stampato in un motivo a scacchi bianchi e rossi che, a dire il vero, le ricordava da vicino una tovaglia da picnic. La sua barba era corta e appuntita, già brizzolata nonostante avesse soltanto trentanove anni.

"Re Basheer". Disse, mentre si congratulava con se stessa per aver ricordato correttamente il suo titolo. "Le mie condoglianze, altezza".

Lui sorrise con gli occhi, ma la sua bocca rimase ferma. "Devo ammettere che abituarsi al nuovo titolo si sta rivelando piuttosto difficile". L'inglese di Basheer era eccellente, ma Joanna notò che faticava a pronunciare le consonanti dure. "Immagino che la sua visita sarà piuttosto breve. Speravo potessimo scambiarci qualche parola in privato".

Era vero; il volo di ritorno era già stato organizzato. Avrebbe dovuto tornare sul jet entro un'ora. Ma la diplomazia le imponeva di non respingere l'offerta di un figlio in lutto, appena divenuto re e un possibile alleato, dal momento che il governo degli Stati Uniti aveva poca idea dei rapporti diplomatici che avrebbe instaurato con il Re Basheer.

Joanna annuì gentilmente. "Ma certo".

Basheer le fece segno di seguirla. "Da questa parte".

Esitò, e a stento si trattenne dallo sbottare, "Adesso?" Il suo sguardo si rivolse alla processione. Basheer aveva appena sepolto suo padre; sicuramente c'erano questioni più importanti a cui occuparsi che parlare con lei.

Uno stretto nodo di apprensione si formò mentre seguiva di pochi passi il nuovo sovrano, nel palazzo e attraverso una sala di ricevimento per dignitari delle dimensioni di una piccola palestra. Mentre i camerieri servivano il rinfresco agli altri visitatori, Joanna fu condotta verso una piccola anticamera. Notò del movimento con la coda dell’occhio; l'alto sacerdote in bianco la stava seguendo silenziosamente.

È più che un prete, pensò. Un consigliere, forse? Nella cultura dei quei luoghi, spesso queste due figure coincidono. Cercò con difficoltà di ricordare come si chiamassero queste persone, Imam, forse?

Chiunque egli fosse, l'alto sacerdote chiuse le spesse doppie porte dell'anticamera dietro di lui. Erano solo in tre in quella stanza; sorprendentemente, non c'era nemmeno un servitore o una guardia. Divani e voluminosi cuscini dai colori accesi erano disposti ovunque, e persino le finestre erano decorate con pesanti velluti.

Questa era una stanza in cui si parlava di segreti, una stanza senza orecchie. E sebbene non sapesse di cosa avrebbe dovuto discutere, Joanna Barkley sapeva che era precisamente il motivo per cui aveva sperato di tornare rapidamente a Washington.

"Si accomodi", disse Basheer, indicando una delle sedie nella stanza. "Prego".

Si sedette su un divano color crema, ma non si abbandonò affatto né fece alcuno sforzo per mettersi comoda. Joanna si sedette sul bordo del cuscino con la schiena dritta e le mani in grembo. "A cosa devo questo incontro?" osò chiedere, saltando tutte le formalità di rito.

Basheer si concesse un raro sorriso.

Non era un segreto che le relazioni tra gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita si fossero un po' deteriorate da quando il re Ghazi si era ammalato. Ghazi era stato un alleato, ma quando la malattia aveva preso il sopravvento ed era trapelata al pubblico, quelli che avrebbero dovuto parlare per lui erano rimasti stranamente silenziosi. La monarchia in Arabia Saudita era il potere assoluto e dominava tutti i rami del governo, quindi gli Stati Uniti trovarono prudente muoversi cautamente, seguendo i movimenti del principe ereditario Basheer.

Quello che videro non piacque loro affatto.

A peggiorare le cose, Joanna era ben consapevole che l'ex principe aderiva fortemente alla legge della Sharia e aveva un evidente disprezzo per le donne al potere. Nella sua mente non erano e non sarebbero mai stati uguali o pari. Lei era semplicemente inferiore a lui.

"Vorrei parlare brevemente del futuro delle relazioni tra i nostri grandi paesi", iniziò il re.

Joanna sorrise gentilmente. "Prima che si pronunci, sua altezza, ho il dovere di informarla che mi manca l'autorità per autorizzare qualsiasi azione a nome del mio paese".

"Certo", concordò il re. "Ma qualsiasi argomento discusso in questa riunione potrà essere riferito al Presidente".

Joanna cercò a stento di trattenere il suo disappunto per l'essere considerata alla stregua di un messaggero, e non disse nulla.

"So che l'America ospiterà l'Ayatollah dell'Iran questa settimana", proseguì Basheer.

"Esatto". Joanna aveva organizzato la visita da sola; l'alleanza strategica con l'Iran era stata una parte fondamentale degli sforzi del Presidente Rutledge per portare la pace tra gli Stati Uniti e l’Iran. Stavano puntando in alto, ma come era solita fare, Joanna aveva affrontato il problema diplomaticamente e senza pregiudizi e aveva scoperto che una soluzione era tutt'altro che improbabile. “I nostri paesi si stanno riconciliando. Un trattato è attualmente in fase di elaborazione da parte delle Nazioni Unite".

Al funzionario in bianco si dilatarono le narici; sarebbe stato quasi un movimento impercettibile se non si fosse trovato in piedi come una statua accanto alle doppie porte. Per questo il suo movimento istintivo ebbe lo stesso effetto di una frase pronunciata.

"Capisco che potrebbe non essere del tutto, come dire, aggiornata", disse altezzosamente Basheer. "Dato che ha da poco ricevuto l'incarico…"

"Ho ricevuto da poco l'incarico", lo interruppe Joanna. "Ma le assicuro che gli affari esteri non mi sono affatto nuovi".

Cosa sto facendo? Si rimproverò. Non era affatto da lei rivolgersi con irriverenza al suo interlocutore durante un incontro diplomatico. Eppure c'era qualcosa in quel giovane re e nel suo consulente statuario che la irritava in modo insostenibile. Era più che un disprezzo per lei personalmente; era un disprezzo per il suo genere, il pensiero che tutte le donne fossero inferiori a lui. Eppure sapeva che doveva mantenere l’autocontrollo. Era la sua prima grande missione diplomatica da quando aveva assunto la carica di vicepresidente e non avrebbe permesso che si concludesse nel peggiore dei modi.

Basheer annuì. "Certo. Quello che intendevo dire era che potrebbe non essere a conoscenza della storia dei rapporti tra i nostri paesi. Cioè, tra l'Arabia Saudita e l'Iran. Siamo nemici giurati e come tali non possiamo accettare un simile trattato. C'è un detto: Il nemico del mio nemico è mio amico. Secondo la stessa logica, l'amico del mio nemico è il mio nemico".

Joanna si morse la lingua, cercando di trattenersi dal dire ciò che pensava a quel re testardo. Piuttosto che smontare la sua logica a dir poco fallace, lei rispose: "Allora posso chiederle cosa suggerisce, nella sua saggezza, signore?"

"Una scelta, vicepresidente", disse semplicemente Basheer. "Un'alleanza con l'Iran è un affronto al mio paese, alla mia gente e alla mia famiglia".

"Una scelta", ripeté Joanna. L'idea che Basheer si aspettasse che gli Stati Uniti scegliessero la pace unilateralmente era ridicola, a meno che, ragionò, non la stesse mettendo alla prova. “Spero che lei capisca che il nostro obiettivo è la pace con tutte le nazioni del Medio Oriente. Non solo l'Iran, e non solo l'Arabia Saudita. Non è un affare personale, si tratta di diplomazia".

"Non posso fare a meno di prenderla sul personale", rispose immediatamente il re. "Come nuovo monarca ci si aspetta che mostri forza…"

“Può comunque farlo”, intervenne Joanna, “unendosi a noi. Ricercare la pace non è un segno di debolezza".

"La pace non è una possibilità", replicò Basheer. "La storia delle tensioni tra le nostre nazioni trascende ciò che potrebbe aver appreso nei libri di testo…"

La rabbia divampò dentro di lei. "Con tutto il rispetto…"

"Lei continua ad interrompermi!" sbottò il re.

Joanna trasalì. Chiaramente Basheer non era abituato ad essere interrotto da nessuno, tantomeno da una donna. "Vostra altezza", disse, mantenendo un tono di voce calmo, "Non penso che questo sia il momento giusto per discuterne. Per non parlare del fatto che non ho l'autorità per prometterle quello che sta chiedendo".

"Quello che mi è dovuto", le disse Basheer.

"E non lo farei", Joanna alzò la voce, "se anche l'avessi". La rabbia che era scaturita in lei non poteva più essere domata. “Siamo ben consapevoli dei suoi… legami, re Basheer. Delle sue alleanze piuttosto discutibili con alcune fazioni".

Basheer socchiuse gli occhi e lei si pentì immediatamente di quello che aveva fatto. Non solo si era lasciata sfuggire, in modo indiretto, che gli Stati Uniti lo stavano monitorando, ma anche che erano consapevoli delle crescenti connessioni tra la sovranità saudita e i gruppi di ribelli che agivano sia all'interno che all'esterno dei loro confini.

"Andatevene", borbottò Basheer.

Aspettava solo questo, pensò Joanna ironicamente mentre si alzava. Non disse altro, aggiungendo soltanto un brusco "Grazie per la sua ospitalità" e voltandosi verso la porta.

"Non credo che abbia capito", disse Basheer ad alta voce. “Non le sto semplicemente dicendo a lei di andarsene. Sto dicendo che gli Stati Uniti dovranno lasciare il mio paese. Le ambasciate sono chiuse, con effetto immediato. Tutte le truppe americane, i cittadini americani, i diplomatici americani devono essere fatti rientrare. Fino a che il suo governo non comincerà a ragionare e non sarà disposto a parlarne seriamente, troncheremo ogni legame".

Joanna Barkley rimase con la bocca semiaperta mentre cercava di valutare se Basheer fosse sincero o se stesse bluffando. Sembrava proprio che fosse serio. "Vuole realmente diventare un nostro nemico per disprezzo dell'Iran?"

"Voi mi avete reso un vostro nemico". Basheer indicò la porta senza alzarsi. "Vada a riferirlo al suo Presidente".

Non c'era più altro da dire. Il vicepresidente Joanna Barkley aprì la porta dell'anticamera senza rivolgere una sola occhiata allo stoico sacerdote che era ancora immobile lì accanto. Fu subito accolta dal frastuono di un fitto chiacchiericcio; aveva quasi dimenticato che era in corso la processione funebre. Ma non prestò alcuna attenzione a loro mentre attraversava il lato opposto dell'ampio auditorium, dove i suoi due membri dei servizi segreti la stavano attendendo.

"Andiamo", disse loro bruscamente. "E fatemi parlare con il Presidente Rutledge prima ancora di decollare".

Temeva di aver fallito nel suo primo incarico diplomatico come vicepresidente, che avrebbe dovuto essere semplice e di routine. Ma soprattutto, temeva che la pace con un paese del Medio Oriente significasse solo guerra con un altro.

*

"Che insolenza!" Basheer ringhiò in arabo mentre camminava avanti e indietro nell'anticamera. “Che audacia! Questo è il motivo per cui l'America sta cadendo a pezzi. Per cui l'America cadrà". Rutledge è debole. Quella donna è insopportabile. Se fosse saudita, la giustizierei pubblicamente!”

Lo sceicco non si era mosso dalla sua posizione per diversi minuti, nonostante avesse desiderato estrarre la sottile lama nascosta nella sua manica e portarla alla gola della donna americana. Fece due lunghi passi nella stanza, dirigendosi verso il suo re. “Abbia pazienza, altezza. Non è il momento per perdere la calma. Bisogna usare tatto e disciplina adesso".

Basheer annuì, sebbene le sue labbra fossero ancora arricciate in una smorfia di disgusto. "Sì", rispose. "Hai ragione. Certo".

In circostanze normali, uno sceicco tribale come Salman non sarebbe mai stato alla destra del re. Ma mentre altri si erano ingraziati Ghazi, Salman aveva guardato al futuro e aveva rivolto le sue attenzioni al figlio maggiore, Basheer, che un giorno sarebbe diventato re. Da quando il principe aveva sedici anni, Salman aveva sfruttato ogni opportunità per incontrare il ragazzo. Per ricordargli la sua grandezza. Per incoraggiarlo ad essere un re più forte di suo padre. Per consolidare in egual misura la necessità della caduta dell'Occidente e dell'espansione del regno saudita. Salman non avrebbe mai potuto essere il re, ma poteva stare dalla parte del re e il suo nome poteva essere conosciuto in tutto il mondo.

"Temo di aver agito in modo avventato", mormorò Basheer. "Questa situazione non promette nulla di buono per noi".

"Al contrario", lo rassicurò Salman. “Hai dimostrato che la tua volontà è forte. Ora dobbiamo dimostrare che hai una mano altrettanto forte".

"E come? Dimmi come”, lo implorò Basheer. “Se riusciranno a firmare un trattato con l'Iran, non avremo alleati. Rimarremo soli di fronte al mondo. Non possiamo resistere all'esercito americano. Non possiamo permetterci di entrare in guerra con loro".

"No", disse Salman, posando la sua mano esile sulla spalla del giovane re. "Non possiamo. Ma potremmo non averne bisogno. C'è un piano, altezza, già in atto. E se avrà successo, il mondo occidentale imparerà una lezione dolorosa e il mondo vedrà la nostra ascesa".

CAPITOLO TRE

Non preoccuparti

Di una piccola cosa,

Perché ogni piccola cosa…

Perché ogni piccola cosa…

"Accidenti", mormorò Zero. "Non lo sapevi?" Fischiettava la melodia recitando il testo a mente, le ragazze gli avevano chiesto più volte di smettere di cantare, ma quei versi l'avevano incantato come mai era successo prima. “Che succede?”

"Stai parlando da solo?" Chiese Sara entrando nella piccola cucina del suo appartamento a Bethesda, nel Maryland. Indossava una maglietta, i capelli biondi in disordine e, a giudicare dalle occhiaie, aveva dimenticato (o trascurato) di lavarsi il mascara dal viso la sera prima.

“Certo!”. Zero le baciò la testa mentre apriva il frigorifero. "Buongiorno, tesoro".

"Mmm", rispose Sara prendendo la caraffa con il succo d'arancia. Era rimasta con Zero sin dal giorno del Ringraziamento, da quando era fuggita dall'istituto di riabilitazione in cui suo padre l'aveva mandata ed era scampata di poco ad un rapimento su una spiaggia. Aveva sedici anni, ormai quasi diciassette, Zero ricordò a se stesso, sebbene i suoi lineamenti fossero abbastanza maturi da farle dimostrare almeno un paio d'anni in più. Trovava piuttosto doloroso il fatto che le sue ragazze stessero crescendo, tanto più che il trauma che aveva vissuto l'aveva invecchiata prematuramente, ma soprattutto, giorno dopo giorno, assomigliava sempre di più alla madre defunta.

"E tu che stai facendo?" chiese, allungando il collo sopra la spalla del padre per sbirciare nella padella.

"Oh, questa? Questa, mia cara, è una frittata". Zero prese la padella, la scosse due volte e poi lanciò abilmente la frittata in aria.

Sara torse il naso. "Sembra un'omelette".

È simile ad un'omelette. Simil-omelette, potremmo dire. Come se fosse figlia di una omelette e di una pizza. Una frittata".

"Per favore, smetti di dire…"

"Frittata".

Sara alzò gli occhi al cielo bevendo un sorso di succo d'arancia. "Sei strano".

"Ehi, topolina" disse Maya entrando in cucina. "Dammene un po'". Indossava pantaloncini corti e una felpa con cappuccio, scarpe da ginnastica e una fascia sulla fronte. I suoi capelli scuri erano tagliati corti, quasi a caschetto, un "taglio da fatina", come lo chiamavano i bambini e se i lineamenti di sua sorella minore ricordavano la loro madre, il viso giovane di Maya era molto più somigliante a quello di Zero.

Anche Maya stava con lui, e ciò rendeva l'appartamento con due camere da letto accogliente ma allo stesso tempo un po' angusto. Le sue ragazze, di diciassette e diciannove anni, condividevano una stanza, ma non se ne lamentavano. Zero contava i giorni mentre Sara viveva in Florida e Maya era stata arruolata a West Point. Ma la primogenita aveva saltato il resto del semestre autunnale, e ora anche il semestre primaverile, e sebbene non avesse affrontato l'argomento, sperava che alla fine sarebbe tornata e avrebbe finito gli studi.

Sara passò il succo d'arancia a Maya, che ne bevve un bel sorso. "Maya, papà non è un po' strano ultimamente?"

“Intendi più strano del solito? Sì. Certamente".

"Prima di tutto", disse Zero, "prendete un bicchiere. Non ho cresciuto un paio di selvagge. In secondo luogo, in che senso vi sembro strano?"

"Canti molto ultimamente", disse Maya.

"Ho smesso di farlo quando me l'hai chiesto".

"Adesso fischi molto", gli disse Sara.

"Cosa c'è che non va se fischio?"

"Stai preparando una frittata?" Chiese Maya.

"Sta cucinando molto", disse Sara come se non fosse nemmeno nella stanza.

"Sì, è strano", concordò Maya. "È come se fosse… più felice".

"Perché vi sembra strano?" protestò Zero.

"In questa famiglia…" lo prese in giro Sara. "È strano".

"Oh!" Zero si portò una mano al cuore mimando un infarto. "Mi dispiace tanto per aver cercato di arricchire la vita delle persone che amo".

“Non mi fido di questa cosa”, disse Sara facendo una smorfia a sua sorella.

"Dov'eri la scorsa settimana?"

La domanda arrivò così all'improvviso che a Zero sembrò quasi un colpo di frusta. La sua primogenita lo fissò con un sopracciglio inarcato sulla fronte, in attesa.

"Te l'ho detto. Ero in California…"

"Giusto", disse Maya, "sei andato a consultare uno specialista per la tua mano".

"Esatto".

"Peccato che secondo il nostro assicuratore non hai presentato alcuna documentazione", disse Maya con nonchalance. "Non hai pagato alcun premio. Allora, dove sei stato la settimana scorsa?"

Stavo seguendo un ingegnere della CIA, incluso nella lista nera, per vedere se poteva dirmi perché il mio cervello mi sta portando alla morte. Era la verità, ma non aveva alcuna intenzione di raccontarla a loro, le sue figlie non sapevano nulla dei suoi ricordi perduti, dei suoi problemi recenti e neppure dell'avvertimento di Guyer.

Allora, sorridendo timidamente, disse: "Forse non sono affari vostri".

Maya sapeva imitare perfettamente quel sorrisetto falso. "Forse non dovresti mentire alle tue figlie".

"Forse sto cercando di tenerle al sicuro".

"Forse non ne hanno bisogno".

"Forse…

Dei colpi alla porta lo interruppero. Il suo primo istinto fu ancora quello di cercare la Glock che aveva nascosto nel cassetto delle posate, e Zero lo notò con dispiacere. Nonostante il numero di volte in cui la sua casa era stata saccheggiata, dovette ricordare a se stesso che i terroristi non bussano mai. Fece sforzo sui propri muscoli e cercò di scrollarsi di dosso il pensiero, mentre Maya gridava: "È aperto!"

La porta dell'appartamento si aprì ed entrò una donna. Aveva circa due anni meno di Zero, non ancora quaranta, anche se in effetti ne dimostrava almeno una decina di meno. Fuori servizio portava i suoi folti capelli biondi sciolti sulle spalle, ad incorniciarle perfettamente il viso e i suoi occhi color ardesia. Indossava jeans attillati, stivali neri e un cappotto nero lanuginoso. Zero l'aveva vista al meglio, in eleganti abiti da sera, e anche nelle situazioni peggiori, con del sangue sul viso e una pistola in mano, eppure vederla gli faceva ancora battere il cuore.

Maria entrò in cucina, diede a Zero un bacio sulla guancia e lasciò cadere una scatola bianca sul bancone. "Buongiorno a tutti! Ho portato i croissant".

"Perfetto". Maya ne prese uno e lo addentò. "Posso assumere carboidrati prima di correre".

"Ma la frittata…" mormorò Zero.

"Maria, secondo te", le domandò Sara. "Papà non è strano ultimamente?"

Maria si accigliò. "Strano? Non saprei. Sicuramente diverso. Forse più felice?"

"Te l'ho detto". Sara prese un croissant.

"Rimani in zona?" Le chiese Zero mentre disponeva la sua frittata poco apprezzata in un piatto.

"Passavo di qui, e sono venuta", gli disse Maria. "Devo andare a Langley".

"Di sabato?" chiese Zero stupito.

Lei alzò le spalle, e aggiunse "burocrazia".

"Scartoffie", aggiunse. Zero sapeva perfettamente che non c'era nessuna scartoffia. La "burocrazia" era la scusa che si davano l'un l'altra quando non potevano dire la verità ma non volevano mentire apertamente. Un'ironia naturalmente, dato che la "burocrazia" era in realtà una vera e propria balla.

"Dove sei stato la scorsa settimana?" Chiese Maria con finta innocenza.

Zero sorrise. "Burocrazia".

“Touché”.

Maria non sapeva di Bixby e Zero voleva che continuasse a non sapere nulla. Così cambiò rapidamente argomento. "Ci vediamo stasera?"

"Assolutamente sì". Lei sorrise e prese un croissant dalla scatola. "Ma ora devo scappare. Ne prendo uno da mangiare per strada. Ti chiamo più tardi".

"Devo scappare anch'io", aggiunse Maya. “Letteralmente”.

"Vado a farmi una doccia", annunciò Sara.

"Ehi, aspettate". Gridò Zero mentre cercavano di abbandonare contemporaneamente la cucina. "Aspettate un attimo". Tre volti in attesa si voltarono verso di lui. “Ehm, stavo pensando… Tra poco è San Valentino. Perciò magari, non prendetevi impegni".

Si guardarono a vicenda. "Dici a noi?" Chiese Maya.

"Voi tre. Ciascuna di voi. Voglio trascorrerlo con le tre donne della mia vita".

"Uhm… certo. Okay". Maya annuì.

“È fantastico", disse Maria.

"Come ho detto," mormorò Sara. “Strano.”

E poi se ne andarono, la porta principale e quella del bagno si chiusero alle loro spalle quasi nello stesso momento.

Zero sospirò sulla sua frittata. "Ora a noi due, amica mia". Afferrò il piatto e si sedette al piccolo bancone.

A vederlo da fuori tutto sembrava fantastico nella sua vita. Lui e Maria si frequentavano di nuovo ufficialmente e da un paio di mesi avevano ripreso la loro relazione. Lui aveva tenuto l'appartamento a Bethesda e lei il piccolo bungalow che un tempo condividevano. Forse presto sarebbero tornati a vivere insieme. Lui aveva con sé le due ragazze, ed era molto bello. Cercava davvero di lasciare loro dello spazio affinché prendessero le loro decisioni da sole, una era ormai un'adulta e l'altra aveva già fatto l'esperienza di vivere da sola. E anche se lo consideravano strano, certamente avevano notato un positivo cambiamento nel suo atteggiamento.

Ed effettivamente era cambiato. Zero si era sforzato seriamente di migliorare, perfezionando le sue abilità culinarie, trascorrendo più tempo con le ragazze, proponendo cose divertenti da fare come famiglia coinvolgendo il più possibile anche Maria. Voleva vivere la vita al massimo… perché non aveva idea di quanto tempo gli restasse ancora da vivere.

Guyer non ne aveva idea. Nemmeno Bixby. E se le due menti più brillanti che avesse mai incontrato non sapevano dargli risposte, dubitava che chiunque altro al mondo potesse farlo. Avrebbe continuato a perdere la memoria. Di tanto in tanto dei ricordi sarebbero affiorati, come i ricordi degli omicidi compiuti in gioventù come agente oscuro della CIA. Ma aveva deciso che doveva guardare avanti, non indietro. Il passato era il passato, quello che contava ora era il futuro.

Sapeva cosa doveva fare: doveva trovare l'agente di cui Bixby gli aveva parlato, quell'uomo di nome Connor, quello a cui era stato impiantato il soppressore della memoria. Le possibilità che quel ragazzo fosse ancora vivo erano scarse e, nel caso, le possibilità che Zero lo trovasse lo erano ancora di più.

Tuttavia, doveva provarci. Allo stesso tempo doveva continuare a cercare di sfruttare al massimo il tempo che gli era rimasto per influenzare positivamente la vita delle persone che amava. Voleva essere sicuro che, una volta che se ne fosse andata, loro si sarebbero ricordate di lui e di questi momenti. Era questo il lato di lui che voleva ricordassero.

Perché alla fine il suo cervello lo avrebbe ucciso, a meno che non venisse ucciso prima dal dolore per il fatto di dover conservare questi segreti quando aveva promesso a tutti di essere onesto.

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Yaş sınırı:
18+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ocak 2021
Hacim:
351 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781094306384
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