Kitabı oku: «Un’esca per Zero», sayfa 5
A Sara non piaceva affatto quello sguardo. Era come se la donna stesse leggendo dentro di lei.
“Sei sicura di non voler entrare? Puoi semplicemente sederti e ascoltare. Non devi dire niente".
"No. Grazie. va bene così…" Sara fece un altro passo indietro. "In effetti, stavo andando via". Aveva fatto bene da sola senza riabilitazione; di certo non aveva bisogno di un "gruppo di supporto".
Si voltò, ma la donna continuò a parlare. "Sono Maddie, comunque".
"Sara", la chiamò.
"È stato un piacere conoscerti. Ci vediamo, Sara".
No, non credo. Sara si affrettò lungo il corridoio. All'improvviso il freddo di febbraio nel Maryland le sembrò quasi accogliente.
CAPITOLO SEI
Maya fissava il cellulare che teneva in mano. Il registro delle chiamate era aperto, il numero era lì. Doveva solo toccarlo.
Magari domani.
Si sedette a gambe incrociate sul suo letto, nascosto in un angolo della camera, di fronte a Sara. Gli spazi a volte erano angusti, ma mai come nelle baracche di West Point a cui era abituata. E Sara aveva avuto quattro coinquilini quando viveva a Jacksonville, quindi quel tipo di sistemazione poteva andar bene ad entrambe. In diverse occasioni avevano rifiutato l'offerta del padre di farle dormire nella camera più grande dell'appartamento.
Maya lanciò il telefono sul copriletto accanto a una copia in gran parte ignorata dell'Ulisse ("Un trionfo di masochismo", come lo chiamava suo padre) e una barretta proteica mangiata a metà. Voleva fare la chiamata. E l'avrebbe fatto. Ma non quel giorno.
Il numero, se avesse avuto il coraggio di chiamarlo, l'avrebbe messa in comunicazione con l'ufficio della preside di West Point, il generale di brigata Joanne Hunt. L'ufficio della Hunt aveva chiamato Maya non meno di quattro volte nelle ultime due settimane, ma non avevano lasciato messaggi vocali o qualsiasi altra indicazione sul perché stessero cercando di raggiungerla.
Non ce n'era bisogno, e lei sapeva perché. Dopo un'esperienza straziante nello spogliatoio femminile e una lite con tre ragazzi durante la quale Maya aveva picchiato gravemente due di loro e quasi ucciso il terzo, la preside Hunt le aveva gentilmente offerto di prendersi una pausa per il resto del semestre autunnale, in attesa di farla tornare in gennaio, dopo la pausa invernale.
Ma Maya non era tornata ed era troppo tardi per farlo ora. Si era persa troppo. Aveva prolungato inutilmente la sua istruzione di almeno sei mesi, un duro colpo per il suo obiettivo di diventare il più giovane agente della CIA nella storia dell'organizzazione.
Aveva solo bisogno di più tempo. Questo è quello che aveva detto a suo padre e sua sorella. Ancora un po' di tempo con sé stessa e con loro e poi sarebbe ritornata. Ma sapeva benissimo che ogni giorno passato senza fare quella telefonata l'avrebbe allontanata sempre di più dal suo ritorno.
La porta dell'appartamento si aprì e Maya si irrigidì per un attimo, una reazione naturale dato il numero di volte in cui qualcuno era entrato nella loro casa con l'intenzione di ucciderle o rapirle. Ma sapeva riconoscere i passi di suo padre ed il suo sospiro frustrato quando la porta si bloccava leggermente, perché il legno si era espanso a causa del freddo, e tornò a respirare regolarmente.
"Tesoro, sono tornato!" Disse.
"Chi è il tesoro?" Rispose Maya con un sorriso.
"Chiunque risponda, immagino".
"Ci sono solo io".
Lui apparve sulla soglia, sorridendo. "Allora, ciao, tesoro. Dov'è tua sorella?"
"Lezione d'arte al Centro ricreativo".
“Bene. Dimenticavo che lo stava seguendo. Ma sono contento che lo faccia. Ha bisogno di un passaggio?"
"No, è andata in bici".
Suo padre batté le palpebre. "In febbraio?"
“Ha detto che le piace il freddo. La tiene vigile".
“Uhm. E poi sarei strano io".
Maya scivolò giù dal letto e lo seguì in cucina, dove frugò nel frigo e prese una birra leggera. Dopo essersi levato il cappello, si passò una mano tra i capelli e sospirò prima di prenderne un sorso.
"Sei frustrato", osservò Maya.
"No, sto bene. Felice come un bambino". Tentò di ingannarla con un sorriso, ma lei non ci cascò. "In realtà dovresti dire, felice come un bambino in alto mare". Sai che quel modo di dire risale al 1841? Alcuni addirittura lo attribuiscono a Robert E. Lee…"
Si interruppe mentre lei incrociò le braccia e sollevò un sopracciglio. “Sei frustrato. O arrabbiato per qualcosa. Forse entrambe le cose. Non ti sei tolto le scarpe quando sei entrato, sei andato dritto a bere una birra, ti sei toccato i capelli e hai sospirato…"
"Non è vero", disse lui.
"E ora stai cercando di sviare", concluse lei. "Scommetto che eri sul punto di dirmi di ordinare le pizze stasera". La pizza era la sua soluzione nelle serate in cui aveva troppe cose per la testa.
"Bene, hai vinto". Aggiunse in un mormorio: "a volte vorrei aver avuto figlie più stupide. O magari con un senso dell'osservazione meno sviluppato".
"Vuoi dirmi come sono andate le tue commissioni?" Chiese Maya.
Ci pensò un momento, poi disse: "Mettiti una giacca".
Prese il cappotto e lo seguì sul loro piccolo balcone, grande abbastanza per contenere due sedie e un piccolo tavolino di vetro. Ma non si sedettero; suo padre chiuse la porta a vetri alle loro spalle e si appoggiò alla ringhiera.
Maya si abbottonò la giacca contro l'aria fredda dell'inverno e incrociò le braccia. "Sputa il rospo".
"Ho cercato una persona", le disse, mantenendo la voce abbastanza bassa da permetterle di sentire. “Un agente o qualcuno che lo era circa cinque anni fa circa. Si chiama Connor".
"E' il nome o il cognome?" Chiese Maya.
Lui scrollò le spalle. "Non ne ho idea". Potrebbe essere morto. E se non lo è, l'hanno nascosto molto bene.
Sara si accigliò, chiedendosi perché suo padre avrebbe dovuto cercare un agente presumibilmente morto. "Che cosa ti serve da lui?"
Suo padre bevve faticosamente un sorso dalla bottiglia poi mormorò qualcosa sottovoce. Maya non riuscì a capirlo, ma le sembrò quasi che avesse detto "scartoffie".
“Che cosa?”
"Niente", le disse. “Non posso dirtelo. È una… questione di lavoro".
"Ho capito". Ma dal suo comportamento e dal fatto che al momento non era ingaggiato dalla CIA per condurre una caccia su vasta scala per trovare questo ragazzo, ipotizzò che non si trattasse di una questione di lavoro. "E perché me lo dici qui al freddo, sul balcone…?"
Non rispose nulla, ma la guardò inespressivo. Le ci volle un momento per interpretarlo, ma quando lo fece le si rivoltò lo stomaco.
"Oh mio Dio, non pensi davvero …?" Si trattenne dal dirlo ad alta voce. Pensava che il loro appartamento potesse essere in qualche modo controllato.
"Non ne sono sicuro. Alan ha fatto un po' di ricerche, ma tendono a diventare sempre più creativi".
Maya scosse la testa disgustata al pensiero che tutto ciò che diceva, forse anche tutto ciò che faceva, per non parlare della sorella, venisse registrato in qualche database della CIA. Una volta le avevano impiantato un chip di tracciamento proprio sotto la pelle e il pensiero che qualcuno potesse sempre conoscere la sua posizione era abbastanza inquietante.
Ma essere effettivamente osservata… le riportò alla mente i tre ragazzi adolescenti di West Point, che si erano nascosti in uno spogliatoio, aspettando che uscisse dalla doccia in modo da poterla aggredire. Chi sapeva da quanto tempo erano lì, cosa avevano visto…?
Allontanò con forza quel pensiero dalla testa. Suo padre conosceva il minimo indispensabile di ciò che era accaduto e non aveva alcuna intenzione di rivelargli i dettagli in quel momento. Era un problema suo, come non la riguardava il problema di suo padre.
"Cosa hai intenzione di fare ora?" Domandò lei.
Zero agitò una mano con disprezzo. “C'è un medico, forse, che lo conosce. O lo conosceva. Non lo so ancora. Sto aspettando alcune informazioni da Reidigger". Le sorrise, voltandosi indietro. "Dai, torniamo dentro".
"Aspetta. Se non dovresti parlarne, perché mi stai dicendo tutto questo?”
La fissò per un momento, abbastanza a lungo da permetterle di pensare che neanche lui fosse sicuro della risposta.
"Perché", disse alla fine, "quando sono frustrato, parlare mi aiuta".
La strinse alle spalle e tornarono dentro, giusto in tempo per vedere Sara che si stava chiudendo la porta alle spalle. Si tolse il berretto di lana, il naso e le guance arrossati e screpolati dall'aria invernale.
Sara diede un'occhiata al loro papà e annuì. "Quindi pizza per cena, allora?"
Lui alzò entrambe le mani. "Sono davvero così prevedibile?"
Maya sorrise, ma poi notò che c'era qualcosa in Sara che non andava. Si muoveva con rigidità e sembrava che non fosse solo per il freddo. Anche dopo aver tolto il parka, sua sorella tenne i gomiti ben chiusi, quasi sulla difensiva.
“Tutto bene?” Chiese Maya.
Sara tirò su con il naso. "Sì. Solo, sai, le mie solite cazzate".
"Attenzione al linguaggio", la richiamò suo padre dalla cucina. E poi, "Sì, vorrei due grandi piz…"
"Sto bene", la rassicurò Sara mentre si dirigeva verso la loro camera da letto condivisa.
Maya non ci credeva, ma sapeva che non era il momento di indagare oltre. Tutti avevano i loro problemi e tutti li trattavano a modo loro. Per una famiglia che si era promessa reciprocamente l'onestà, sembravano mantenere molti segreti. Ma non era una questione di disonestà; era una questione di indipendenza, ciascuno era responsabile per sé stesso.
Doveva ammettere comunque, che talvolta si sentiva sola.
Ma forse non avrebbe dovuto. Stava pensando a questo Connor scomparso. Doveva esserci un modo per trovare il ragazzo… e una persona intelligente come lei avrebbe dovuto arrivarci. Forse avrebbe dovuto riuscirci per mostrare a suo padre, non a parole, che non doveva essere sempre solo davanti ai suoi problemi.
Se solo ci fosse riuscita in qualche modo.
CAPITOLO SETTE
Il Presidente Jonathan Rutledge si stava rilassando su un divano a strisce nello Studio Ovale. Si tolse i mocassini e appoggiò i talloni sul tavolino lucido che si trovava davanti a lui. Era abbastanza certo che il divano, uno dei due disposti in posizione perpendicolare alla scrivania, non fosse in quel posto il giorno prima, ma non poteva esserne sicuro. Di solito quella stanza era piena di attività, consiglieri, capi e amministratori che correvano qua e là, e i mobili erano per lo più uno sfondo, non arredamento. A ciò si aggiungeva sua moglie, Deidre, che si era incaricata di "aiutare" il team di progettazione della Casa Bianca a ridipingere ogni stanza una volta alla settimana, o almeno così gli sembrava.
Era un bel divano. Sperò di poter stare ancora un poco in ufficio.
Lo scorso novembre Rutledge aveva fatto quasi la fine dei mobili. Solo pochi mesi prima aveva preso seriamente in considerazione di dimettersi dall'ufficio di presidenza, ritenendosi inadatto al compito. Era stato promosso da Presidente della Camera alla carica più alta grazie all'immenso scandalo dei suoi predecessori che coinvolgeva la Russia, e gli ci era voluto del tempo per abituarsi alla posizione, ai poteri che gli erano stati concessi e alla responsabilità richiesta.
Ma ormai era acqua passata. Aveva preso la decisione di rimanere in carica, e poi aveva nominato vicepresidente la senatrice della California Joanna Barkley. Fino a quel momento stava facendo un lavoro stellare. Il loro indice di gradimento era alle stelle; Rutledge nei sondaggi stava conquistando persino i conservatori. C'era stata solo una piccola battuta d'arresto per un paio di giorni a metà dicembre quando aveva commesso il grave errore di tingersi i capelli di un color nocciola. L'aveva fatto solo perché i capelli grigi lo infastidivano, non per vanità o per sembrare giovane, ma per preservare la propria autostima. Eppure per ben due giorni e mezzo gli esperti dei media non poterono fare a meno di lamentarsi di ciò che Rutledge stava cercando di dimostrare. Apparentemente tingersi i capelli non era previsto nel grande libro non scritto delle regole presidenziali. Ci si aspettava, com'era successo ai suoi predecessori, che invecchiasse con dignità, oppure anche in maniera terribile.
Questo era uno di quei momenti molto rari in cui era solo, e si stava proprio godendo quell’attimo, la giacca appesa al muro e i calzini neri sul tavolo. Ovviamente non era mai davvero solo; c'erano telecamere dappertutto e almeno due membri dei servizi segreti erano appostati appena fuori dalle porte dell'ufficio. Ma era abbastanza, e si sarebbe regalato quei piccoli momenti appena possibile, perché erano rari e lontani tra loro, momenti che a malapena riempivano gli spazi esigui come le fessure tra i mattoni.
I rapporti degli Stati Uniti con la Russia erano in crisi da un paio d'anni ormai, anche prima che Rutledge diventasse Presidente della Camera. E ora anche la Cina era passata dalla parte del nemico. La guerra commerciale era finita e il governo cinese se la stava giocando bene, ma solo perché Rutledge stesso aveva minacciato di far trapelare l'intero calvario dell'arma ad ultrasuoni e le identità dei commandos che la gestivano. Al momento c'era una tregua, ma fragile come il vetro e che poteva frantumarsi non appena i cinesi ne avessero intravisto l'opportunità.
Eppure qualcosa doveva dare. Rutledge lo sapeva e aveva anche un'idea, ma fu la Barkley a fargli credere che si potesse fare. Aveva un modo tutto suo di affrontare problemi enormi, apparentemente impossibili e trasformarli in soluzioni attraverso percorsi razionali. Sarebbe stata una grande matematica, pensò; per lei ogni problema si risolveva nei componenti più semplici.
L'obiettivo, in poche parole, era la pace in Medio Oriente. E non solo tra gli Stati Uniti e ogni paese membro, ma anche tra tutti gli altri paesi. Certo, era inverosimile, ma l'importante sarebbe stato muoversi nella giusta direzione.
E dopo due mesi di incontri, di pianificazione, di speranza e di ascolto degli oppositori, di strategie e corteggiamenti, di scrittura di discorsi e di notti agitate, stava accadendo.
"Domani, l'Ayatollah dell'Iran verrà a Washington".
Lo disse ad alta voce, solo a se stesso nello Studio Ovale vuoto, come se volesse sfidare qualcuno ad entrare per contraddirlo. Ma era vero; il capo supremo dell'Iran, un uomo che una volta aveva promesso pubblicamente che non avrebbe mai capitolato agli Stati Uniti, un uomo che aveva demonizzato l'intero paese, sarebbe arrivato il giorno seguente, per far visita prima di tutto all'edificio delle Nazioni Unite a New York, dove in quel momento si stava rivedendo in fretta e furia un trattato da sottoporgli. Poi l'Ayatollah si sarebbe recato a Washington, DC, per incontrare Rutledge per firmare il trattato reciprocamente vantaggioso che avrebbe garantito non solo la pace tra i loro stati, ma anche aiuti concreti al popolo dell'Ayatollah e (possibilmente) avrebbe contribuito a mitigare la xenofobia islamica.
Rutledge era nervoso, ma cautamente ottimista. Se l'Ayatollah avesse accettato i termini del trattato, non solo avrebbe fatto la storia ma sarebbe anche diventato il motore propulsore per altre nazioni islamiche che ne avrebbero seguito l'esempio.
O la maggior parte di loro, pensò amaramente. La Barkley non aveva risparmiato alcun dettaglio durante il suo recente viaggio in Arabia Saudita per il funerale del defunto re e le conseguenti richieste del principe, o meglio, del nuovo sovrano. Le truppe statunitensi stavano già lasciando i posti di comando e si stavano ritirando nelle nazioni vicine. Le ambasciate erano state svuotate. Rutledge laggiù aveva dei contatti che cercavano di tenerlo il più possibile lontano dall'opinione pubblica americana, ma era un compito impossibile. Le voci arrivavano vorticose dall'Arabia Saudita attraverso altri canali.
Tutto questo li aveva dunque spinti ad affrontare il fragile equilibrio tra Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti. Presto o tardi ci sarebbero stati progetti e conferenze stampa.
Finalmente. Ma si doveva aspettare la visita del leader iraniano. Aveva trascorso troppo tempo a fare in modo che questa visita potesse avere luogo.
Un forte bussare alla porta non solo lo scosse dai suoi pensieri, ma lo spaventò tanto da fargli togliere i piedi dal tavolino per mettersi seduto diritto, come se sua madre l'avesse sorpreso con i piedi sul mobilio buono.
"Signor Presidente".
Si schiarì la voce. "Vieni, Tabby".
La porta sinistra delle due porte color crema si aprì quanto bastava per consentire a Tabitha Halpern di infilarvi la testa di capelli ramati lunghi fino a terra. "Mi dispiace signore, ma è necessario immediatamente…"
"Fammi indovinare". Rutledge si massaggiò la fronte. "La stanza delle decisioni".
Il capo dello staff della Casa Bianca si accigliò. "Ha chiamato qualcuno?"
"No, Tabby. Era solo un'ipotesi plausibile". Prese le scarpe. "Una settimana. Mi piacerebbe passare almeno una settimana senza affrontare una crisi. Non sarebbe già qualcosa?
*
La sala conferenze John F. Kennedy si trovava nel seminterrato dell'ala ovest, uno spazio di quindici metri quadrati comunemente denominato la stanza delle decisioni, e giustamente, poiché l'unica ragione per cui il Presidente Rutledge doveva metterci piede era per prendere delle decisioni su questioni urgenti.
E c'erano sempre decisioni da prendere a quanto pare.
Due agenti dei servizi segreti aprivano la strada, con un'altra coppia dietro, mentre Tabby Halpern cercava di velocizzare i movimenti per tenere il passo leggendo qualcosa su un foglio che le era stato consegnato solo pochi istanti prima. Si parlava di qualcosa sulla Corea del Sud e di una nave rubata; Rutledge era ancora abbastanza perso nei suoi pensieri.
Ti prego, fa che non sia una catastrofe. Non ora, alla vigilia di una visita storica.
Già attorno al tavolo lucido da conferenza c'erano i soliti sospetti e facce familiari, o almeno la maggior parte. Il segretario alla Difesa Colin Kressley era in piedi davanti alla sua sedia, accanto al direttore dell'intelligence nazionale, David Barren. Di fronte a loro c'era il direttore della CIA Edward Shaw, un uomo che si muoveva come se la sua spina dorsale fosse fatta di acciaio e la bocca esistesse solo per fare una smorfia. I due uomini ai lati di Shaw erano sconosciuti.
Il vicepresidente Barkley non era presente, osservò, sebbene il protocollo stabilisse che la sua presenza fosse facoltativa in riunioni come questa, a seconda della natura della situazione e di qualunque altra cosa avesse tra le mani in quel momento.
"Signori", salutò Rutledge mentre lui e Tabby attraversavano la stanza. "Prego, sedetevi. Non credo di dover ricordare che giorno sia domani o quanto sia importante questa visita. Qualcuno, per favore, mi dica che si tratta di un briefing sulla sicurezza o di una festa a sorpresa".
Nessuno riuscì a tirare fuori un sorriso; semmai, il cipiglio del direttore Shaw si fece più intenso. Rutledge si ricordò di reprimere il suo comportamento generalmente sprezzante quando si trovava in quella stanza progettata per affrontare problemi catastrofici.
"Signor Presidente", disse burbero in tono baritonale il generale Kressley. "Due giorni fa un satellite sull'Oceano Pacifico del Nord ha rilevato un picco di energia molto breve e molto potente a poco più di trecento miglia a sud-est del Giappone".
Il Presidente corrugò la fronte. Aveva ascoltato solo per metà Tabby mentre si dirigevano verso la stanza delle decisioni, ma lei aveva parlato di una nave scomparsa.
"Il picco di energia si è poi trasformato in un potente aumento di fulmini o potenzialmente in un'esplosione proveniente da una tasca geotermica", continuò Kressley. "Ma ora abbiamo motivo di credere che si tratti decisamente di qualcos'altro…"
"Mi scusi, generale", interruppe Rutledge con una mano alzata. “Il briefing diceva che nella Corea del Sud era scomparsa un'imbarcazione. Se si scopre qualcosa sul picco di energia, possiamo arrivarci più velocemente?”
Kressley si irrigidì un momento, ma fece un cenno al direttore Shaw.
“Signore". Shaw incrociò le mani sul tavolo, una strana abitudine che Rutledge notava sempre quando l'ex direttore della CIA parlava. “Meno di trenta minuti fa, il governo sudcoreano ha condiviso un dossier interno con la Central Intelligence Agency. Se quello che stanno dicendo è vero, hanno sviluppato un'arma molto potente e l'hanno montata su una piccola nave introvabile. Durante il primo test dell'arma nell'Oceano Pacifico, l'impennata di energia che il Segretario alla Difesa, ha appena descritto, la nave è stata attaccata. Nessuno dell'equipaggio è sopravvissuto. La nave e l'arma sono state rubate".
Un sibilo sfuggì dalla gola di Rutledge, perfettamente in tema con la sensazione esplosiva che stava improvvisamente crescendo in lui. Troppe informazioni di assimilare in poco tempo.
"Quest’arma". La voce di Rutledge era bassa ma udibile in quella stanza silenziosa. "Quest'arma è stata creata in segreto?"
"Sissignore".
"Ed è stata testata in segreto".
"Esatto, signore".
"E i sudcoreani hanno aspettato due giorni interi per dirci che è stata rubata". Rutledge aveva solo bisogno di confermare che tutto ciò che aveva sentito dire dai suoi così detti alleati sulla penisola coreana fosse corretto.
"Esattamente, signor Presidente". Shaw fece una pausa per un momento prima di aggiungere: “Sembra che inizialmente fossero ottimisti sulle possibilità di recuperarla. Ma ora stanno chiedendo il nostro aiuto".
Rutledge digrignò i denti. Era peggio di quanto potesse immaginare. Non solo qualcuno aveva messo le mani su quest'arma, ma non poteva certo rompere alleanze proprio ora che stava cercando di crearne una.
"Di che arma si tratta?" Chiese.
"Riguardo a questo", disse Shaw, "lascio che glielo dica il Dottor Michael Rodrigo". Fece un gesto verso l'uomo alla sua sinistra, probabilmente il più giovane nella stanza, non più di quarant'anni. "Il nostro massimo esperto di tecnologia delle armi avanzate e responsabile per la ricerca e lo sviluppo della Marina degli Stati Uniti".
"Grazie, signor Presidente", disse in fretta il dottor Rodrigo. "È un onore per me essere qui a parlare con lei di questo argomento…"
"Di che arma si tratta?" Chiese di nuovo Rutledge.
Il dottore si aggiustò la cravatta. "Bene, signore, se il dossier della Corea del Sud è legittimo, allora hanno creato un’arma al plasma".
Rutledge sbatté le palpebre. Aveva già sentito parlare di armi al plasma, e sapeva che la Marina ne aveva un modello funzionante da qualche parte, ma sembrava ancora una cosa piuttosto fantascientifica. “Che cosa?”
"Un’arma al plasma", ripeté il dottore. “Ad essere sinceri, fino ad ora questo tipo di arma non era mai stato realizzato nella realtà. In effetti, è difficile poter credere pienamente alla sua esistenza fino a quando non verrà trovata la nave scomparsa…"
"O fino a quando l'arma non viene utilizzata", aggiunse secco Kressley.
"Beh… sì", concordò il dottore. "Basti pensare che l’arma è un'arma a proiettili con la capacità di distruggere qualsiasi bersaglio a poche centinaia di miglia di distanza".
“Un proiettile? Come un missile?" Chiese Rutledge.
"Nossignore. I missili possono essere intercettati e abbattuti. I missili si possono vedere arrivare. Ho già esaminato lo schema coreano; quest'arma sparerebbe un proiettile al plasma da una velocità superiore a quella del suono. Non c'è difesa, se non qualcosa che si possa mettere sul suo percorso".
Il Presidente Rutledge chiuse gli occhi, sentiva crescere il mal di testa. “Lei dice che la Corea del Sud ha cercato l'arma per due giorni. Hanno qualche indizio sulla posizione della nave?"
Shaw scosse la testa. "Nessuno, signore".
"Nessuno. Perfetto”. Disse Rutledge con sarcasmo. "Con tutti i nostri satelliti, quanto potrebbe essere difficile trovare una nave nell'oceano?"
"Con tutto il rispetto", disse il dottor Rodrigo, "sarebbe molto difficile. Questa nave ha dei dispositivi avanzati che le permettono di muoversi in segretezza. Non possiamo dimenticare che i nostri militari condividono informazioni e risorse con i sudcoreani e che hanno il decimo budget militare al mondo…"
Rutledge alzò bruscamente una mano e il dottore tacque. "Sanno almeno chi l'ha presa?"
Nessuno parlò. Il direttore Shaw fissò le sue mani giunte. Il DNI Barren si sistemò i gemelli. Alla fine fu Tabby Halpern a dirlo, con grande esitazione.
“Sì, lo sanno, signore. Una nave della Marina nel Mar Cinese Meridionale ha individuato una imbarcazione passare diverse ore prima dello scoppio di energia. Nessuno al momento ha dato importanza alla cosa, ma sono state scattate alcune foto. L'imaging ha rintracciato l'origine dell'imbarcazione in un porto locale di Mogadiscio".
"Mogadiscio?" Ripetè Rutledge, sconcertato. Cosa diavolo stava facendo una barca di Mogadiscio nel Mar Cinese Meridionale?
"Signore", spiegò Tabby, "i sudcoreani hanno buoni motivi per sospettare che l’arma sia stata rubata da pirati somali".
Sotto il tavolo delle conferenze, Rutledge si pizzicò una gamba. No, non stava sognando, anche se avrebbe voluto.
"Solo per ricapitolare ciò di cui stiamo parlando", disse lentamente il Presidente. “Mi state dicendo che dei pirati… hanno rubato una nave invisibile… con un'arma impossibile… a uno dei nostri più stretti alleati… che la stavano testando in segreto. E ora quei pirati hanno un vantaggio di due giorni su di noi. È corretto?"
"Sì, signor Presidente". Tabby annuì. "Abbiamo a che fare con una cosa del genere".
"Non posso gestire una questione del genere in questo momento". Rutledge si strofinò il viso con entrambe le mani. “E non voglio dire che non sono in grado di farlo; voglio dire, letteralmente che non ne ho il tempo, l'energia o la capacità mentale considerando ciò che è in gioco. Siete tutti in questa stanza per un motivo, e quel motivo è gestire situazioni come questa. Quindi, occupatevene". Indicò alla sua sinistra, verso Kressley. "Consideri che le sto dando carta bianca per attivare tutto quanto è necessario. Utilizzo di droni, sorveglianza satellitare completa su ogni centimetro d'acqua tra il luogo dell'attacco e Mogadiscio. Voglio che le navi vengano spedite da Diego Garcia immediatamente e che siano pronte in un attimo".
Kressley annuì, ma il dottor Rodrigo parlò di nuovo. "Signore, non sono sicuro di aver veramente sottolineato quanto questa nave non sia rintracciabile…"
Ancora una volta Rutledge lo zittì con una mano. "Dottore, la sua preoccupazione è stata ascoltata e presa in considerazione". Tuttavia sapeva di avere poca scelta se non quella di rimettersi all'esperienza del medico. Avevano bisogno di qualcosa di più della semplice tecnologia; avevano bisogno di occhi veri sul posto. Qualcuno che cercasse quella nave. Qualcuno di cui potersi fidarsi per portare a termine il lavoro.
"Shaw", disse il Presidente. "Voglio lui per questo caso".
Il direttore Shaw si morse il labbro pensieroso per un momento, un'espressione che suggeriva che aveva capito cosa stesse per dire. "Signore, non sono sicuro che questo tipo di operazione sia adatta alla sua esperienza".
Rutledge mostrò irritazione. “Mi scuso se non mi sono spiegato bene, Shaw. La mia non era una domanda".
"Se posso, signor Presidente". Alla fine l'uomo vicino a Shaw, il più lontano dal Presidente, parlò. Era basso di statura, probabilmente era il contabile di Shaw. Il naso e il mento erano spigolosi, quasi appuntiti, tanto da farlo vagamente assomigliare ad un roditore. Un topo? No, era più simile ad un furetto, pensò Rutledge.
"E lei è?"
"Il vicedirettore Walsh", disse l'uomo con un cenno profondo della testa. "Sono a capo del gruppo Operazioni Speciali della divisione Attività Speciali della CIA dall'inizio di dicembre".
Ah, pensò Rutledge. Un altro scarto della NSA, si disse. Shaw assumeva dalla sua ex agenzia; questo Walsh non avrebbe potuto sembrare meno un uomo CIA se avesse indossato un paio di bermuda e gli occhiali di Groucho Marx.
“Abbiamo un numero di agenti estremamente qualificati e altamente preparati che sono pronti ad assumersi questo compito. Nei prossimi trenta minuti, potremmo avere un'intera squadra di ex SEAL e personale Black Ops pronti a dirigersi verso il luogo dell'attacco …"
"Walsh, vero?" Interruppe Rutledge.
"Esatto, signore".
"Lei è il nuovo capo di Zero?"
Walsh si sedette un po' più dritto sulla sedia. "Esatto, signore".
Il Presidente Rutledge si alzò dalla sedia e girò attorno al tavolo finché non si fermò accanto, o più precisamente, sovrastò, quell'uomo molto più piccolo di lui. Quindi allungò una mano.
Walsh lanciò un'occhiata nervosa a Shaw prima di prendere la mano del Presidente e stringerla con cautela.
"Un piacere conoscerla", disse Rutledge. “Io sono il capo del capo del capo. E non intendevo chiedere. Lo chiami. Altrimenti lo farò io, e al prossimo incontro, qualcun altro siederà al suo posto".
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