Kitabı oku: «Un’esca per Zero», sayfa 4

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CAPITOLO QUATTRO

Maria Johansson fece scorrere la sua tessera magnetica in una fessura verticale nel muro di un corridoio bianco, nei sotterranei del quartier generale della CIA a Langley. Si sentì un forte ronzio, lo scivolare di un pesante dispositivo elettronico e la porta d'acciaio si aprì con grande fragore.

Questo era solo uno dei quattro piani sotterranei del George Bush Center for Intelligence: quattro di cui lei era a conoscenza e probabilmente ce n'erano altri di cui era all'oscuro. Anche in qualità di ex vicedirettore, non era a conoscenza di tutti i segreti dell'agenzia e non era abbastanza stupida da credere che avrebbe mai avuto accesso a tutti i segreti di quell’edificio.

Tuttavia, era stupefacente che la sua chiave magnetica funzionasse ancora. A novembre, dopo aver fermato il gruppo di ribelli cinesi e la loro arma ad ultrasuoni, si era dimessa dal suo incarico e aveva ripreso la sua attività di agente speciale. Eppure non le avevano ancora revocato le autorizzazioni di cui godeva grazie alla sua posizione precedente.

Ed era piuttosto sicura di sapere il perché.

Maria chiuse la porta dietro di sé e fece un cenno all'unica guardia di sicurezza vestita di grigio che sedeva dietro una scrivania beige. L’uomo stava leggendo una copia della rivista Sports Illustrated. "Buongiorno, Ben".

"Signora Johansson". L'agente in pensione non aveva intenzione di muoversi, tanto meno di controllare il suo ID o scansionare la sua chiave magnetica.

"Devo firmare …?" chiese dopo un momento di imbarazzante silenzio.

Ben sorrise. "Credo di ricordare ancora chi è lei, l'ho vista pochi giorni fa". Ciondolò con la testa lungo il corridoio. "Vada pure".

"Grazie".

I tacchi dei suoi stivali fecero rumore sul pavimento piastrellato ed echeggiarono tra le celle vuote mentre si dirigeva verso l'ultima stanza sul lato sinistro del corridoio. Non c'erano altri prigionieri in questo piano seminterrato; si trattava di un’area di detenzione temporanea, solitamente riservata a terroristi locali, criminali di guerra, militari furfanti e occasionali agenti traditori. Era una stazione di passaggio lungo il percorso verso luoghi molto peggiori, come Hell Six in Marocco, o un semplice buco scavato nella terra.

Odiava mentire a Zero. È così che pensava a lui in questi giorni, come a Zero. Le aveva chiesto di smettere di chiamarlo Kent il mese precedente. Nessuno ormai lo chiamava più con il suo ex alias della CIA; ormai non era più Kent Steele. E quasi nessuno tra tutti quelli che si relazionavamo con lui lo chiamavano con il suo vero nome, Reid Lawson. Era semplicemente l'Agente Zero. Accidenti, anche il Presidente lo chiamava Zero. E anche Maria.

Anche se "burocrazia", tecnicamente, non poteva essere considerata una bugia, ricordò a sé stessa. Era la loro parola in codice per dire "è un segreto e preferirei che non me lo chiedessi". In effetti, proprio la settimana precedente, quando aveva detto alle ragazze che sarebbe andato in California, le aveva detto che doveva prendersi cura di alcune "scartoffie burocratiche".

Quindi lei non gli chiese nulla. Beh ci aveva scherzato su molto con lui quella mattina, ma non seriamente. Inoltre, cosa avrebbe dovuto dirgli? Negli ultimi due mesi sono andata a trovare un'assassina, una prigioniera della CIA e mi imbarazza ammetterlo?

Certo che no. Suonava davvero terribile.

La cella era angusta, con un pavimento e un soffitto di cemento e pareti fatte non di sbarre ma di vetro rinforzato. Una griglia di fori sul lato rivolto verso il corridoio rendeva possibile la comunicazione con la prigioniera che si trovava all'interno. Non c'erano finestre, ma quel che è peggio è che non si riusciva a scorgere nemmeno una porta. Maria non era nemmeno sicura di come fosse accessibile la cella; un pannello nascosto in una delle facciate di vetro, molto probabilmente, ma non era minimamente evidente. Era una manovra psicologica intesa a dimostrare alla prigioniera che non c'era assolutamente via d'uscita.

Il cuore di Maria si spezzava un po' ogni volta che vedeva quel vetro. Anche se non c'era nessun altro lì, oltre a Ben, la guardia, non c'era alcuna privacy. All'interno c'era una piccola branda con coperta e cuscino, una minuscola zona bagno che consisteva in un lavandino, una toilette e una doccia, tutti aperti, tutti esposti, ed un'unica sedia d'acciaio, fissata al pavimento.

Ma oggi l'abitante della cella era seduta a gambe incrociate sul pavimento di cemento esattamente al centro della cella, la parte più aperta di quel piccolo ambiente. Probabilmente, suppose Maria, questo le dava l'illusione di avere un po' di spazio.

"Buongiorno", disse Maria. Doveva parlare a voce un po’ più alta del normale in modo che la ragazza potesse sentirla attraverso i fori praticati nel vetro.

“Ciao”. Mischa non si voltò subito a guardarla. Ma faceva così da quando Maria aveva iniziato ad andarla a trovare. Se ne stava un poco in disparte, quasi per abituarsi alla presenza di Maria.

La ragazza aveva dodici anni, i capelli biondi e gli occhi verdi. Maria poteva definirla carina nonostante il volto inespressivo che generalmente le appiattiva i lineamenti. Indossava semplici pantaloni blu di poliestere o cotone, come un'infermiera in un pronto soccorso, senza tasche o cerniere o alcunché di metallo. Era a piedi nudi. Di solito era imbronciata, parlava poco e sapeva uccidere un uomo tre volte più grossi di lei, senza il minimo sforzo. L'ultima volta che Maria l'aveva vista senza un vetro che le separasse aveva davvero cercato di uccidere lei e Zero.

"Ti ho portato una cosa", disse Maria in russo. Non era sicura della nazionalità della ragazza, ma il suo inglese era perfetto e senza accenti. Durante le molte visite Maria aveva scoperto che parlava altrettanto bene il russo, l'ucraino e il cinese.

All'altezza del gomito di Maria c'era un piccolo portello rettangolare nel vetro con una maniglia ad anello. Lo aprì e depositò il croissant che aveva preso nell'appartamento di Zero. La portella dalla parte di Mischa, era modificata in modo da non poter essere aperta contemporaneamente a quella esterna, non che avesse importanza. La ragazza non mangiava mai il cibo che Maria le portava prima che se ne fosse andata.

"Dovrebbe essere ancora caldo", aggiunse.

"Spasiba", disse Mischa, quasi troppo a bassa voce per essere sentita. Grazie.

"Ti danno da mangiare abbastanza?"

La ragazza si limitò a scrollare le spalle.

Maria chiuse gli occhi per un momento per reprimere le lacrime che improvvisamente le stavano salendo. Non sapeva perché si emozionasse così tutte le volte che veniva a trovarla, ma almeno una volta per ogni visita veniva colpita da un'onda di dolore nel vedere una ragazza così giovane rinchiusa in una cella sotterranea.

Mischa faceva parte del gruppo cinese che era in possesso dell'arma ad ultrasuoni. Il suo capo era una russa dai capelli rossi, una ex spia di nome Samara che si era unita ai cinesi in un complotto terroristico sul suolo americano progettato per apparire come un attacco di matrice russa. Samara e tutti i suoi compagni erano ormai morti. Solo Mischa era sopravvissuta. Eppure nessun paese la reclamava, era stata rinnegata dal mondo intero.

La ragione principale per cui era rimasta nel sotterraneo di Langley non era certamente perché la CIA avesse intenzione di mandarla nel sito nero marocchino. No, era perché l'agenzia non poteva effettivamente dimostrare che avesse commesso dei crimini. Nessuno della squadra, né Zero, né Strickland, e certamente nemmeno Maria, aveva fatto dichiarazioni contro di lei o raccontato in dettaglio le sue azioni.

Semplicemente non sapevano cosa farsene di una bambina potenzialmente pericolosa, a cui probabilmente avevano lavato il cervello, molto ben addestrata e decisamente letale. E così rimase lì.

Ma Maria non vedeva nulla di tutto ciò. Vedeva semplicemente una ragazza che, nel corso di un paio di mesi, aveva mostrato una grande vulnerabilità, aveva dimostrato di avere ancora un lato umano.

"Che c'è?" Chiese Mischa.

Maria si rese conto di avere ancora gli occhi chiusi. Li aprì e sorrise quando vide la ragazza che la guardava interrogativa. "Sai… per essere sincera, sono triste".

“Perché?" Lo chiese con indifferenza, come se fosse una domanda retorica.

"Sono triste per te", disse Maria. "Che devi stare qui".

"Sono stata in posti peggiori", disse semplicemente la ragazza.

"Dico sul serio", le disse Maria con fermezza. "Meriti qualcosa di meglio. Non sei un animale. Forse…” Si fermò. Forse potrei negoziare per procurarti una cella con una finestra, fu sul punto di dire.

Ma sarebbe stata comunque una cella.

Maria aveva cominciato a far visita alla ragazza solo due giorni dopo la sua incarcerazione, e da allora veniva due volte la settimana. Durante le visite Mischa non la guardava neppure, né le diceva mai una parola. Le visite successive servirono per convincere la ragazza che Maria non andava a trovarla per ferirla o torturarla. Maria non cercava informazioni. In realtà, non voleva che la ragazza parlasse della sua vita passata, e quella era la verità assoluta; la cella era monitorata sia da video che da registrazioni audio e qualsiasi discussione sul passato di Mischa avrebbe potuto svelare indiscrezioni che le avrebbero procurato un biglietto di sola andata verso un luogo ben peggiore.

Maria aveva impiegato sette settimane per capire che il colore preferito della ragazza era il viola e che le piacevano i Tootsie Rolls, anche se era chiaro che probabilmente Mischa non aveva mai assaggiato altri tipi di caramelle. Così Maria gliene portò un po'. Dopodiché divenne un rito per lei portarle un po' di cibo e, con il permesso di Ben, la guardia, lo faceva scivolare attraverso la piccola porta rettangolare nella cella.

Maria sapeva di essere osservata, ma non le importava. In effetti, era abbastanza certa che il motivo per cui aveva ancora le autorizzazioni da vicedirettore fosse perché andava a trovare la ragazza. Finché lo faceva nel suo tempo libero, nessuno doveva fare altro che guardare, ascoltare e sperare che arrivassero delle informazioni.

Maria si abbassò sul pavimento e si sedette a gambe incrociate appena oltre il vetro, le sue ginocchia quasi toccavano la superficie della cella. "Ti piacerebbe giocare?"

Mischa la guardò con la coda dell'occhio per un attimo. "Che tipo di gioco?"

"Si chiama Never Have I Ever". Ne hai mai sentito parlare?

La ragazza scosse la testa.

"È molto semplice. Alza tre dita, in questo modo". Maria sapeva che la ragazza non avrebbe parlato apertamente, ma sperava che nascondere qualche domanda in un gioco l'avrebbe convinta ad aprirsi di più. “Inizierò dicendo qualcosa che non ho mai fatto, ma che mi piacerebbe fare. Se tu hai già fatto quella cosa, abbassa un dito. Poi dì qualcosa che non hai mai fatto tu. Se tutte le tue dita sono abbassate, hai perso".

Mischa rimase a fissare il pavimento per alcuni secondi, abbastanza a lungo perché Maria potesse pensare che il suo stratagemma non fosse intelligente come aveva inizialmente pensato.

Poi la ragazza sollevò lentamente un braccio e sollevò tre dita.

"Bene. Comincio io. Vediamo… non sono mai stata alle Bahamas".

Le tre dita della ragazza rimasero alzate.

"Bene" disse Maria, "ora tocca a te".

"Non ho mai…" mormorò la ragazza. "Giocato a calcio".

Maria piegò lentamente un dito verso il basso. "Ma ti piacerebbe?"

Mischa annuì.

"Hai visto altri bambini giocarci? o alla TV?"

“In televisione. Sembrava…" Si interruppe per un momento, come se stesse cercando la parola giusta. "divertente".

Maria trattenne il sorriso. Quella era la più grande confessione che aveva ottenuto finora da Mischa. "Molto bene. Tocca a me. Non ho mai mangiato caramelle fino a star male".

La fronte della ragazza si corrugò. "Perché mai dovresti farlo?"

“Beh, tu non lo faresti, immagino. Ma a volte le persone tendono a esagerare".

Le tre dita di Mischa rimasero alzate. "Non ho mai avuto un'amica".

Maria si morse rapidamente il labbro per soffocare un forte sussulto che quasi le sfuggì". Non si aspettava quel candore e fu presa alla sprovvista, come da una morsa che la afferrasse all'improvviso.

"Mi dispiace", disse dolcemente abbassando il secondo dito. Forse dovremmo fermarci".

"Ma sto vincendo".

Un sorriso involontario si aprì sulle labbra di Maria. "Hai ragione. è vero. Ok. Non ho mai coltivato un giardino".

Le sue tre piccole dita rimasero sollevate e Maria trattenne il respiro nell'attesa di quello che la ragazza avrebbe potuto aggiungere.

"Non ho mai incontrato mia madre".

Maria lasciò che emettesse lentamente un sospiro. Era un'affermazione terribile, ma non così sorprendente. Immaginava che Mischa fosse probabilmente stata abbandonata, o orfana, o forse addirittura rapita dai cinesi o da Samara o da qualunque altro gruppo che potesse averla addestrata. Abbassò l'ultimo dito e si mise le mani in grembo.

"Hai vinto", disse. Il gioco si era completamente ritorto contro di lei. Oltre a voler giocare a calcio, l'unica cosa che Maria aveva appreso era che la vita della ragazza, come già aveva immaginato, era stata terribile. Se solo…

"Mischa", disse all'improvviso. “Non posso promettere che incontrerai mai tua madre Ma posso prometterti altre cose. Posso prometterti che non rimarrai qui per sempre". Parlava in fretta, come se avesse paura che le parole potessero smettere di scorrere se si fosse fermata. “Potrai giocare a calcio, avere amici e… potrai mangiare caramelle fino a star male, se lo desideri. Potrai fare tutte queste cose". Maria cercò di reprimere le lacrime, lei stessa sorpresa per le promesse che stava facendo e di cui si era già pentita. Ci poteva provare, certo, ma non avrebbe potuto garantire nulla. "Dovresti avere tutte quelle cose".

"Come faccio a crederti?" domandò la ragazza.

Maria scosse la testa, sapendo che se avesse fallito si sarebbe scavata la fossa da sola. "Iniziamo da un primo passo. Lascia che ti porti qualcosa. Non solo cibo. Dimmi qualcosa che vorresti. Qualcosa da fare. Un… un gioco, o una palla, oppure…" Non aveva idea di cosa potesse interessare la ragazza.

Mischa ci pensò un momento. "Un libro".

"Un libro?"

“Dostoevskij”.

Maria rise, un po' sorpresa. "Vuoi che ti porti Dostoevskij?"

"Memorie dal sottosuolo".

"Wow. Va bene… Sì. Te lo porterò. Promesso". Maria si alzò in piedi. "Tornerò tra un paio di giorni e ti porterò il libro".

"Grazie, Maria". Era la prima volta che la ragazza la chiamava per nome. Era bello sentirlo, ma allo stesso tempo straniante.

“E… Mischa, ti sbagliavi su una cosa. Tu hai un'amica".

Maria si allontanò per il corridoio, con gli stivali che rimbombavano e riecheggiavano sul cemento. Non si voltò per vedere, ma sentì il rumore del piccolo portello d'acciaio, dove aveva messo il croissant, e sorrise.

Non sapeva come sarebbe riuscita a convincere qualcuno a liberare Mischa, o addirittura a garantirle più spazio e una maggiore privacy, ma ci avrebbe provato in tutti i modi. La ragazza le aveva dato la prima chiara indicazione che non era del tutto indottrinata, che dopotutto era ancora solo una bambina, una che voleva amici, fare sport e avere una famiglia.

Maria avrebbe fatto in modo che potesse fare tutto questo. Non poteva rimangiarsi le promesse che aveva fatto, non aveva altra scelta che mantenerle.

CAPITOLO CINQUE

Zero indossava occhiali da sole e un berretto con un teschio nero, il bavero della giacca alzato mentre apriva la porta dell'ufficio del garage della Terza Strada ad Alexandria, in Virginia. Il suo abbigliamento era probabilmente eccessivo, ma da quando aveva scoperto dove si trovava Bixby cercava di rimanere il più possibile in incognito quando andava alla ricerca di informazioni. L'agenzia in passato aveva sempre tracciato la sua posizione, quando lui non se l'aspettava. Ed era probabile che lo stessero facendo ancora.

Il piccolo ufficio era vuoto, fatta eccezione per una scrivania d'acciaio con un vecchio computer e due sedie per gli ospiti. Sentì una musica ovattata provenire dal garage e la seguì, aprendo la seconda porta e trovandosi assalito da "Bad Moon Rising" dei CCR che squillava da uno stereo apparentemente vecchio quanto la canzone.

Premette il pulsante di arresto, è una cassetta? Ma Alan andò avanti a canticchiare, molto stonato, da sotto una Buik Skylark del 1972 color ciliegia.

"Questa è la parte migliore della canzone", borbottò mentre usciva da sotto la Buick sistemata su un carrello scricchiolante. "Mi dai una mano? Che ne dici?"

Zero afferrò la mano robusta di Alan e con un po' di sforzo aiutò quel pezzo d'uomo a mettersi in piedi. Anche Alan emise un gemito, ma Zero sapeva che stava fingendo. Alan aveva le spalle larghe ed era leggermente sovrappeso in vita, ma sotto c'erano strati di muscoli forgiati da una carriera trascorsa come agente della CIA. La sua folta barba, ora macchiata di grigio, e il cappello da camionista oscuravano i suoi lineamenti e perpetuavano ulteriormente la sua falsa identità di semplice meccanico, ma Alan Reidigger era molto, molto più di un semplice meccanico, ed era anche il miglior amico di Zero, per quanto si potesse ricordare.

"Sei un po' in anticipo", osservò Alan.

"Vuoi dire che non è pronta?" Chiese Zero, indicando la macchina.

“Oh, è pronta. Pensavo solo di avere un po' più di tempo per esercitarmi sul ritornello. Dai, salta dentro". Zero si infilò sul sedile del passeggero mentre Alan si metteva al volante. Girò la chiave nel blocchetto di accensione e il motore emanò un ruggito da sotto il cofano.

Alan aveva tanti difetti, uno di questi era una certa tendenza ad essere paranoico. Era convinto che il suo garage fosse controllato dalla CIA, nonostante lo perlustrasse continuamente. Zero non aveva idea a chi appartenesse la Skylark, ma dietro i suoi vetri oscurati e con il rombo del motore, nessuna telecamera o attrezzatura audio li avrebbe potuti né vedere né ascoltare.

"Allora, cosa hai trovato?" chiese Zero.

"Io? Niente". Alan estrasse dalla tasca di flanella un fazzoletto già macchiato e si asciugò le mani unte. "Ma forse Babbo Natale ti ha lasciato qualcosa nel vano portaoggetti".

Zero lo aprì e tirò fuori il grosso faldone a tre anelli che c'era dentro. Tra le copertine di plastica c'erano almeno centocinquanta pagine. "Cristo, Alan. Hai hackerato il database della CIA?"

"Certo che no", disse Reidigger indignato. "Ho pagato qualcuno per farlo". Sghignazzò, arricciando gli angoli della barba. "Proprio così, c'è l'identità e la posizione attuale di ogni persona affiliata alla CIA con il nome o il cognome Connor negli ultimi sei anni".

"Impressionante". Zero sfogliò rapidamente le pagine e intravide una dozzina di volti, foto identificative molto probabilmente, con paragrafi di informazioni personali sotto ciascuna. "Sto aspettando il ma…"

"Ma", disse Alan, "Ho già scorso tutto e…"

"E non si fa accenno al soppressore della memoria". Zero scosse la testa. “Non mi aspettavo di trovare qui questa informazione. Sto cercando qualcuno che è scomparso senza lasciare traccia. Ciò che si trova nei file non corrisponde al tipo di persona che era, né alla descrizione del suo lavoro".

"Forse se mi avessi lasciato finire". Sbuffò Alan sbuffò. "Ho già controllato tutto anche per quello. Senti, Zero, sono molto bravo a far sparire le persone che vogliono sparire, e ho imparato quasi tutto dall'agenzia. O il ragazzo che cerchi è morto, oppure non è in quel raccoglitore, e ci sono buone probabilità che non esista proprio. Almeno non su documenti cartaceo o su computer".

"Deve essere da qualche parte", mormorò Zero. "E' come cercare un ago in un pagliaio. Un conto bancario segreto, un abbonamento a una palestra, una garanzia scaduta…"

"E come pensi che riusciremo a trovarlo?"

"Non lo so". Aprì il raccoglitore su una pagina a caso e la scannerizzò. “Voglio dire, come facciamo a sapere che non è questo il ragazzo? Era un agente della KIA in Libano. Ma potrebbe essere una menzogna".

"Potrebbe" concordò Alan, "ma ciò significherebbe che è morto. Non credo sia questo che vuoi".

"No. No". Pensa, Zero. Ti devi essere perso qualcosa. "Concordiamo almeno sul fatto che dovrebbe essere un agente. Noi agenti siamo i più facili da far sparire. Potrebbero dire che è stato mandato da qualche parte e che non è più tornato…"

"Sono supposizioni", gli disse Alan. "E se qualcuno ci sta guardando, inizierà ad insospettirsi”.

"Sì", mormorò. I loro incontri in auto non avrebbero dovuto essere troppo lunghi, per non destare sospetti nel caso qualcuno li stesse spiando. "Hai ragione".

Alan fece per spegnere il motore, ma Zero non si mosse ancora.

Che cosa succede?

Gli tornarono in mente le parole di Bixby, la settimana precedente a Saskatchewan.

"Dopo averlo installato, mentre usciva dall'anestesia, il neurochirurgo l'ha chiamato Connor. Lo ricordo perfettamente. Gli disse, "sai chi sei, Connor?"

"Aspetta!" Zero allungò in fretta la mano e impedì ad Alan di spegnere il motore. "Ci sono! Non riesco a crederci di non averci pensato prima. Il neurochirurgo l'ha chiamato Connor!"

"Eh?"

"Questo è quello che mi ha detto Bixby", spiegò rapidamente. “Sono stato così fissato nel trovare questo Connor che non ho nemmeno pensato di provare a cercare il neurochirurgo! Quanti ce ne potranno essere nei registri della CIA degli ultimi cinque anni? Molti meno di questi, scommetto!" Disse scuotendo il raccoglitore. Potevano restringere il campo ora anziché sondare centinaia di possibilità, anche se Zero non ne era proprio sicuro. Qualche dozzina, forse meno?

Alan sospirò. "Va bene. Ora vorrai che io esegua…”

"Voglio che tu esegua un'altra ricerca, sì".

"Sai che quel raccoglitore mi è costato cinquemila dollari?"

"Ti offro da bere". Alan sorrise, ma tornò subito serio. "Ti prego".

"Sai che farei qualsiasi cosa per te, amico". Alan spense il motore; questa volta non c'era un "ma" nella sua affermazione. Era un semplice fatto e Zero lo sapeva. Alan gli aveva salvato la vita più di una volta, e anche alle sue figlie. Aveva fatto di tutto per togliere Zero dai guai quando era stato necessario. Alan si era persino finto morto, aveva rinunciato alla sua vita per alcuni anni ed era fuggito, tutto per il bene di Zero.

E ancora peggio, era vero anche il contrario. Anche lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per Alam, ma Alan non gli aveva mai chiesto nulla. Almeno niente di così significativo come ciò che lui aveva fatto e avrebbe fatto ancora per Zero. Il motore si spense, ma il silenzio che invase la cabina della Skylark era ugualmente rumoroso.

"Grazie", disse Zero a bassa voce. "Sai che non andrei molto lontano se non fosse per te".

"Saresti morto se non fosse per me". Alan sorrise, anche se era la verità. "Quindi troviamo il neurochirurgo…"

"E vediamo tutto quello che sa…"

"Troviamo l'agente…"

"E speriamo che non sia morto", concluse Zero.

"Pezzo di merda", ridacchiò Alan, ma si scurì subito. "Dobbiamo trovare quel ragazzo. Ma mi devi due drink".

*

Il Centro della comunità odorava di scaglie di cedro per qualche motivo. Ogni stanza, persino le sale, puzzavano di gabbia per criceti. Sara pensò che probabilmente quell'odore veniva dal parco giochi all'esterno, ma era febbraio, Cristo. Le finestre erano chiuse e il parco ghiacciato. Perché persisteva quell'odore di scaglie di cedro?

Cercò di non pensarci muovendo il pennello in tocchi delicati. In classe erano in quattordici, di tutte le età, il più anziano era un uomo calvo sulla sessantina. Erano tutti seduti su sgabelli davanti ai loro cavalletti centro della stanza era stata posizionata una cesta di frutta su un piedistallo. Natura morta, la chiamavano.

A Sara veniva da ridere. Natura morta. Fino a due settimane prima sarebbe stata una metafora che rappresentava bene i suoi sentimenti.

L'insegnante d'arte era una donna dall'aspetto fragile, stile bohémien, di nome Guest, che indossava un caftano, un paio di occhiali da gufo e aveva una criniera di capelli biondi crespi. Girava lentamente intorno al cerchio di studenti, facendo una pausa ogni tanto per mormorare parole di incoraggiamento come "sì, bene" o "prospettiva eccellente, Mark".

Sara sentì la schiena irrigidirsi, sulla difensiva, quando l'insegnante si fermò dietro al cavalletto.

"Oh", le sospirò la signora Guest all'orecchio. "Che immagine, Sara. Non ci sono risposte sbagliate, ma ti prego dimmi, che cosa ti ha spinto a dipingere la banana di color rosa?”

Il suo primo istinto fu quello di crear confusione nella mente di quella donna, di guardarla dritta negli occhi e dirle, che intende dire? Non sono rosa le banane? Io le vedo così. Invece si morse la lingua e prese in considerazione di formulare una risposta che un'insegnante d'arte di una comunità potesse trovare profonda.

"Perché", disse Sara con un colpo drammatico del suo pennello, "tutte quelle degli altri sono gialle".

La signora Guest si mise una mano sul cuore. "Mia cara, sei destinata a fare grandi cose".

Sara trattenne un sospiro mentre l'insegnante proseguiva oltre. Forse il corso d'arte era stato un errore. Ma non aveva disegnato o dipinto nulla da un bel po' di tempo, e anche se detestava la terapeuta della riabilitazione, tuttavia aveva avuto il merito di suggerire a Sara di sviluppare una passione, qualcosa da amare e in cui dedicarsi durante i momenti bui. Poteva trattarsi della pittura.

C'erano ancora tempi bui. I momenti peggiori della sua dipendenza erano ormai alle spalle e anche le crisi erano più leggere ora. Non aveva più toccato una pasticca dal giorno del Ringraziamento. Ma temeva ancora l'oscurità che aveva dentro, la possibilità troppo concreta che i suoi demoni potessero tornare indietro in qualsiasi momento. Temeva che un giorno qui demoni avrebbero potuto prenderla completamente di sorpresa e sopraffarla, trascinarla in un baratro nero dal quale non sarebbe stata in grado di fuggire.

Ancora una volta si mise quasi a ridere di sé stessa. Sei un'anima troppo dilaniata. Se Maya fosse con lei le suggerirebbe un po' di autoironia per venirne fuori.

Ma Maya non era lì e allora Sara dipinse della frutta di cera di color rosa. La sera studiava per il suo diploma. Generalmente non sarebbe stata molto ispirata a farlo ma, e non sapeva ammetterlo apertamente, vedere il cambio di comportamento di suo padre le aveva dato una nuova carica. Nonostante lo prendesse in giro, apprezzava il cambiamento.

Era comunque molto strano. Di solito la gente non cambia così. C'era sempre una ragione, un catalizzatore. Il suo era quello di riprendersi dalla tossicodipendenza. Mentre suo padre nascondeva le vere motivazioni, ne era sicura. Ma aveva i suoi problemi, e anche Maya, quindi nessuna delle due indagò oltre.

"Temo che non abbiamo più tempo oggi", disse la signora Guest. "Devo iniziare il mio corso di ceramica. Potete lasciare qui i quadri ad asciugare, ma vi prego di pulire i pennelli prima di andare via. Grazie!"

Sara sospirò. Aveva appena dipinto di arancione la mela e stava considerando di trasformarla in una zucca, ma avrebbe dovuto attendere. Pulì diligentemente la sua postazione, sollevò lo zaino su una spalla e si diresse lungo il corridoio dall'odore di cedro.

Se la prese con calma trascinando i piedi, non aveva fretta di tornare a casa in bici con il freddo che faceva. Maya si era offerta di venire a prenderla, ma Sara non voleva dipendere da nessuno. Inoltre, l'aria gelida che le sferzava il viso la teneva vigile.

Sbirciò in varie stanze della comunità mentre si trascinava lungo il corridoio verso l'uscita. C'era una specie di lezione di ginnastica per bambini, un mucchio di ragazzacci che rotolavano sulle stuoie e cercavano di farsi degli esercizi. Passò davanti al corso di ceramica, al laboratorio informatico…

La porta alla sua sinistra era socchiusa di qualche centimetro, non abbastanza per farle vedere dentro. Ma mentre la superava, carpì un frammento di conversazione all'interno della stanza.

"Mi ero ripromessa di non tornare mai più all'eroina".

Sara si bloccò, letteralmente, con un piede a mezz'aria, allungando il collo verso la porta.

"Ma come puoi immaginare", disse una donna cupamente dall'interno, "la mia dipendenza la pensava diversamente. Un brutto giorno, mi ha preso. Conoscevo un ragazzo, mio vicino di casa. L'ho chiamato".

Sulla porta c'era un cartello, solo un foglio di carta bianca con alcune parole stampate con inchiostro nero, tenuto agli angoli con nastro adesivo.

Legami comuni
Condividi il trauma, condividi la speranza

"Sono passati solo pochi minuti". La donna all'interno abbassò la voce, quasi al punto che Sara non riuscì a sentire. Spinse delicatamente la porta, aprendola ancora di un paio di centimetri. "Ho lasciato mio figlio di due anni nell'appartamento da solo, ma è stato solo per pochi minuti". All'interno della stanza, Sara poteva vedere le donne sedute a semicerchio, una di fronte all'altra, con espressioni sommesse, quasi funerarie.

"Ma in quei pochi minuti, il mio ex ragazzo, il padre del mio bambino, decise di passare da me". La donna che parlava fissava il pavimento. Aveva la pelle pallida e senza trucco, i capelli castani raccolti in una coda di cavallo semplice e fatta in fretta. "Sono tornata con la roba in mano e l'ho trovato con mio figlio in braccio. Da quel giorno l'ho perso…"

Improvvisamente una faccia riempì la porta parzialmente aperta, facendo sussultare Sara che fece un piccolo balzo all'indietro. Una donna le sorrise, aveva l'aspetto in qualche modo giovane e matronale allo stesso tempo, come quel tipo di mamma sportiva sempre pronta ad invitare a cena gli amici dei figli.

"Ciao", disse la donna piano, per non interrompere l'incontro che si stava svolgendo alle sue spalle. "Sei qui per noi?"

“Ehm io…" Sara si schiarì la voce e scosse rapidamente la testa. "No. No davvero. Stavo solo curiosando. Mi dispiace".

"Non preoccuparti". La donna fece un piccolo passo nel corridoio e chiuse delicatamente la porta dietro di sé. "Siamo un gruppo di supporto per le donne che hanno vissuto diversi tipi di traumi. Tossicodipendenza, violenze domestiche, depressione… Condividiamo le nostre esperienze e attraverso le altre troviamo…"

"dei legami comuni", mormorò Sara. "Sì, ho capito".

La donna le sorrise. "Esatto". Poi fece qualcosa di strano: guardò Sara negli occhi, e corrugò la fronte come per aggrottare le sopracciglia, anche se il sorriso non abbandonò mai le sue labbra.

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Yaş sınırı:
18+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ocak 2021
Hacim:
351 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781094306384
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