Kitabı oku: «Il processo Bartelloni», sayfa 8
– Eh, che ve ne pare? Ma sentite anche questa. Ho voluto aggiustare una bottata al gran lusso delle scene, alla importanza che si dà a certi accessorii… E badate, figliuoli… Dio voglia si muti indirizzo… ma io prevedo fin d’ora che fra poco si scriveranno le opere per i macchinisti, per gli scenografi, per i vestiaristi… Se pure essi non saranno i veri autori! E si applaudiranno, non i canti, ma le scene dipinte, il vestiario dei sarti, i brillanti, i gioielli delle prime donne… Eccovi il mio paragrafo, corto, ma chiaro… come parlo sempre io:
«Diasi lode anche agli scenarii, particolarmente al primo, e al vestiario che è molto ricco. In oggi si sfoggia assai in vestiario: ciò è bene; ma guardiamoci dal fidarci troppo. Ricordiamoci del detto di Dèmonace a un tale che ne andava superbo del suo bel manto: Amico, prima di te, portò queste lane un ariete, e non era che un ariete.»
E l’abate, ridendo, buttò la Gazzetta sul tappeto.
XIII
Antonietta aveva avuto davvero a Venezia splendido incontro.
E l’incontro più lieto le aveva sempre arriso dacchè calcava le scene.
Bella, acclamata, idolatrata; nel gesto, negli atteggiamenti, nella voce della giovane tutto rivelava l’abitudine del comando, tutto indicava un essere gentile, abituato a soprastare, sicuro di piacere, certo che nessuno oserebbe pensare ad opporgli resistenze.
– Voglio che tu mi ripeta, – disse l’abate, – quel pezzo… Al dolce guidami… L’ho già sentito dalla Pasta, che lo accentava così!
E l’abate, in piedi, agitando l’ombrello verde, che teneva sempre nella mano destra, canticchiava il pezzo con una voce assai fresca e intonatissima per la sua età.
– Dunque, ripetimelo!
Antonietta sedette al cembalo.
La sua veste color di rosa ricadeva in larghissime pieghe sul tappeto.
E la testolina bionda, un po’ rovesciata all’indietro, in un’attitudine graziosissima, essa cominciò a cantare.
Il canto la trasfigurava, aumentava le seduzioni di quel visetto di sfinge, così perfetto nella tenue soavità delle sue linee. Le labbra vellutate non si contorcevano, ma pigliavano una movenza delle più leggiadre, come se appena le agitasse un sospiro armonioso. Le note uscivano così facili e folgoranti da una bocca così piccola, e così ben modellata, che davano l’illusione di un canto, che uscisse dal calice di una rosa.
Roberto ascoltava, puntellandosi con un ginocchio sull’orlo di una poltrona e i gomiti appoggiati alla spalliera.
Antonietta cantava.
Egli non poteva contemplarla, udirla senza estasi e senza fremiti nei momenti in cui, nel silenzio della sua casa, essa cantava per lui solo, tranquilla, dimentica della folla, degli applausi volgari, e prodigava per lui solo i prodigi del suo ingegno. Che cosa gl’importava di tutte quelle che aveva udito, lodato, applaudito, cercato sino allora?
E passava le intere giornate accanto a lei, amante, in un assoluto oblìo di tutto, beato di piacerle, di indovinare i suoi desiderii, beato di quello spontaneo sacrifizio che le faceva di tutto sè stesso in una abnegazione, in una devozione illimitata, accettata, professata con gioia, in una mite e attenta servitù che a lui era più cara di qualsiasi sovranità.
Universalmente conosciuto, ricco di amici, di aderenti; in tutte le città che visitava, il grande artista era veduto da pochi: viveva solo, silenzioso, rifuggente dai rumori, sempre come assorto in una interna visione. Si diceva di lui: – è innamorato!
Soltanto da poco tempo Antonietta e Roberto dimoravano nello stesso paese. La malattia di Roberto li aveva sempre tenuti disgiunti. Antonietta era andata a vederlo due o tre volte, nei periodi del riposo, che le lasciavano le sue rappresentazioni, quando egli non poteva uscire dalla sua camera, in una quieta campagna, vicino a Londra.
Aveva fatto tutti questi viaggi sola, accompagnata da Lina, che non vedeva se non per gli occhi di lei. In ogni città al suo arrivo aveva trovato adoratori già pronti ad umiliarsile, sospiranti, che rivelavano in bigliettini, fattile ingegnosamente recapitare, tutta la loro bestiale stoltezza. Ma la ragazza era tanto altera da non cedere a queste lusinghe, e le disprezzava, e aveva chiuso la sua porta a tutti gli oziosi, ai melensi, che calano a stormi, come le cavallette, egualmente molesti, dove apparisce una donna, giovane, bella, circondata di qualche mistero.
Naturalmente le era accaduto quello che accade a una donnina giovane, bella, che ride de’ suoi presuntuosi pretendenti, che li pone in scompiglio col suo disprezzo. La calunnia aveva cercato di addentarla. Si ripetevano di lei quelle storielle con cui la canaglia elegante crede poter vendicarsi dei nobili orgogli che la sferzano, la puniscono, la respingono.
E le calunnie erano giunte a Roberto, avevano sibilato intorno a lui con la maggior energia, ma indarno. Tutte le volgarità della vita non potevano neppure sfiorarlo.
Insieme con Antonietta visitavano ora i monumenti, uscivano ad ammirare nelle giornate più miti gli splendori del cielo, della terra che si cuopriva di fiori. Contemperavano i loro entusiasmi, il loro affetto, le loro ammirazioni.
Che importava ormai a lui de’ ritrovi, della società, che di tanto in tanto gli mandava le sue tentazioni, lo richiamava, cercava di riattirarlo a sè? Egli fuggiva tutto.
In quegli istanti, mentre ascoltava Antonietta, gli tornava alla mente tutta la storia della loro passione. Un solo punto in essa lo rattristava ogni volta che il suo pensiero ricorreva a certi tempi; la passione che Carlo Tittoli aveva avuto per la sua amante; passione generosa, esaltata, che aveva ispirato a quell’uomo infelicissimo i più duri sacrifizii.
Guarito della ferita, non pensava più al delitto di via della Luna; per lui e per Antonietta quel delitto aveva avuto un solo movente: il furto. Essi credevano Nello reo, e il Gandi era persuaso che Nello avesse tentato ucciderlo per derubarlo.
Lina non aveva osato fino allora di dire la verità, ma da anni aspettava, anelava le si presentasse il momento di palesarla, di liberarsi dal segreto orribile che la opprimeva.
Intorno a Roberto e a Antonietta, che vivevano così sereni e tranquilli, così contenti e sodisfatti del loro amore, si addensava, si preparava la più cupa tempesta.
Antonietta aveva finito di cantare il suo pezzo.
L’abate si profondeva in lodi, faceva le sue osservazioni estetiche.
Ma egli mandava in lungo la conversazione, non si decideva ad andarsene.
Era facile capire che era venuto con altro scopo che quello della musica.
Il celebre giornalista veneziano sapeva tutto quello che si diceva nella città, raccoglieva tutte le chiacchiere, tutti i pettegolezzi, che si mormoravano intorno a lui.
A que’ tempi correvano facilmente sugli artisti le più strane leggende.
Non si raccontava, per esempio, che il Paganini aveva assassinato una donna; non si vendeva per le piazze un lamento, stampato in foglietti volanti, e le cui strofe erano sormontate da una grossolana incisione, che rappresentava il Paganini, affacciato alle inferriate della prigione?
Si aggiungeva che, carcerato, aveva ottenuto di poter suonare il violino per divertire la noia della prigionia, ma che il carceriere, per paura che si impiccasse, gli aveva lasciato soltanto allo strumento la quarta corda. Così egli aveva acquistato una delle sue più meravigliose abilità!…
Antonietta era giunta a Venezia, preceduta, accompagnata dalle calunnie, da una certa leggenda, che si era bisbigliata in certi piccoli crocchi per tutto dove era stata.
Naturalmente, come avviene in simili casi, si faceva una spaventevole confusione.
I mezzi di locomozione allora erano scarsi, lentissimi. Un fatto, accaduto a Firenze, arrivava per esempio a Venezia trasformato, modificato, abbellito, aggravato dalla fantasia, dai capricci, dalla malignità, dalla spensieratezza di tutti coloro per la cui bocca passava e, in certe congiunture, il numero di essi era davvero straordinario.
I giornaletti, che andavano per le mani de’ più, non parlavano mai di delitti; reputati argomento troppo umile, o troppo abbietto. Ciò che oggi solletica tanto la curiosità, pareva indegno di attenzione.
Ma sul delitto del Vicolo della Luna si eran fatte chiacchiere anche a Venezia; il nome, notissimo, del pittore, che era stato vittima del latrocinio, dava al delitto una certa importanza.
Quando arrivarono a Venezia il Gandi e Antonietta, circa tre anni dopo, il nome del Gandi tornò ad essere ripetuto, unito a quello della cantante famosa; si fece il più strano accozzo di circostanze e, con la rapidità con cui si propalano le più ingiustificabili, le più inesplicabili voci, cominciò a serpeggiare la notizia più bislacca e più feroce.
La notizia giunse subito all’abate, lo tenne perplesso, gli parve assurda, divisò di parlarne subito con Antonietta.
Dopo essersi trattenuto più di un’ora, mandando in lungo la visita, dopo aver titubato, esitato, prese la ragazza in disparte, come se volesse parlarle in segreto.
Il Gandi si trovava all’altra estremità della sala, ed era tutto occupato a disegnare.
L’abate parlò alcuni minuti, facendo il suo esordio, insistendo sul mal vezzo delle calunnie, sulle accuse strampalate da cui erano spesso bersagliati gli artisti; alla fine soggiunse:
– Sai che cosa si dice di te?
– Che cosa? – domandò Antonietta, i cui occhi cercavano il Gandi in fondo alla sala, e che ascoltava l’abate con molta noncuranza.
– Si dice… si dice… – e l’abate non osava andare innanzi.
– Ma dunque?
– Si dice… che tu abbia ammazzato un uomo!
Con grande sorpresa dell’abate, Antonietta, invece di respingere la odiosa calunnia, di indignarsi, impallidì, si turbò.
In un attimo essa aveva compreso l’origine di quella voce: il delitto del Vicolo della Luna.
Non riflettè che essa non poteva esser coinvolta in quel delitto, che il suo nome non era stato mai pronunziato nel processo, che il vero reo, secondo lei, era stato riconosciuto. Non riflettè che ognuno aveva ignorato la sua presenza nella stanza misteriosa, mentre si compieva il delitto; non pensò che la leggenda poteva nascere tutt’al più dalla presenza del Gandi in Venezia, vicino a lei; che poteva essere uno di quei ciechi colpi, che dà l’ingiustizia popolare a coloro che l’ingegno, la bellezza, il valore, le ricchezze mettono in vista, al di sopra della folla.
No, una simile idea, così semplice, così facile, non le balenò neppure alla mente. Fu presa subito da uno spavento: che si fosse risaputo il suo convegno nella stanza dinanzi alla quale il delitto era stato commesso, che si sospettasse....
E da quel convegno, il primo, il solo che essa avesse dato all’amante, era uscita pura, vi era andata, forte della sua innocenza e del suo amore, per assistere ad una effusione di tenerezze, per avere, lontano da sguardi malevoli e curiosi, un colloquio con lui, interrogarlo seriamente sull’avvenire, discorrere insieme dei loro disegni di felicità.
Aveva arrischiato molto, come fanno spesso le donne virtuose, appassionate, guidate, sospinte dai loro sentimenti, che incaute si fabbricano i pericoli, a’ quali sfuggono le abili, le accorte, che sono sempre vigilanti, e sanno preparare i loro convegni, lo svolgimento dei loro capricci con astuzie sottili. Invece le indoli buone, altere, sdegnose di ogni bassezza, rifuggono dalla ipocrisia, dagli avvilimenti della menzogna: affrontano il pericolo a fronte alta, trovano il coraggio, la fede nel loro amore indomito e nella loro coscienza.
Il colloquio fra l’abate e Antonietta durò poco.
L’abate la lasciò convinto che la voce popolare fosse ridicola, si aggirasse sopra un fatto insussistente, fosse una grottesca, immane esagerazione; ma il pallore della ragazza, alla domanda che egli le aveva mossa, non sapeva bene spiegarsi.
Antonietta rimase addolorata dopo quella conversazione.
Nella giornata essa uscì con Roberto,
Il sole splendeva pel cielo azzurro: l’aria era carica di tutti gli effluvii, di tutte le fragranze, di tutti gl’inebrianti tepori della primavera.
Ad un tratto Antonietta gettò un grido, e si rannicchiò nel fondo della gondola, accanto a Roberto.
In una gondola, che era passata quasi volando accanto a quella in cui essi si trovavano, aveva veduto un uomo, tutto vestito di nero, pallidissimo, col volto esprimente un’angoscia mortale.
In quell’uomo, che si teneva diritto, rigido, nell’atteggiamento di una statua sopra una tomba, appoggiato fuori del felze della gondola, essa aveva riconosciuto Carlo Tittoli!
XIV
E che faceva a Venezia Carlo Tittoli?
Era forse tornato alla sua antica utopia, traeva a cercare nuove afflizioni vicino alla donna, per la quale già aveva versato lacrime e sangue?
Perchè era egli venuto a Venezia, che gli ricordava l’onta della sorella: a Venezia ove sua sorella aveva commesso l’atto vituperoso, dopo il quale, per salvarla da una condanna infamante, aveva dovuto immolare sè stesso, ed egli, così buono, di sentimenti così puri e così elevati, era precipitato nella geldra dei delatori?
Antonietta, non disse nulla quel giorno, nè il giorno appresso, a Roberto, volle tenergli il segreto sull’incontro, che forse a lui poteva spiacere.
Ma, nel momento in cui vide il Tittoli così severo, così cupo, così contraffatto dall’angoscia, da tutte le torture cui aveva dovuto andar incontro, si era sentita tutta rabbrividire.
Le era entrato in cuore il più funesto presentimento.
– Torniamo a casa! – aveva detto a Roberto – Ho freddo....
– Come! hai freddo in questa bella giornata? – Ma l’amante, prima che ella avesse finito di pronunziare queste parole, si era già avvicinato ad uno dei gondolieri e gli aveva ordinato di tornare dinanzi al palazzo.
– Ah!… mi sento male!… mi sento male! – ripeteva Antonietta. – Non so se stasera potrò cantare.
– Così ad un tratto! – mormorò Roberto, sul cui volto si dipingeva la più sincera desolazione. – Ma che cosa ti senti?
– Non te lo so dire....
E la ragazza rimaneva pensosa, mentre Roberto con la cura più amorevole le accomodava uno scialletto intorno alle spalle, chiudeva le finestruole del felze, le domandava se volesse un medico, se desiderava che egli le portasse a casa qualche medicina, smaniava di sgomento per quella subita indisposizione.
Antonietta era avvezza a vederlo così affaccendato, così premuroso in quelle occasioni, e, in mezzo alle sue pene, sorrideva di tenerezza.
Arrivati alla porta del palazzetto, Roberto la aiutò ad entrare, e domandatole reiteratamente se le occorreva alcuna cosa, le baciò la mano, rispettoso, e si accomiatò.
– Non sarà nulla.... Ho bisogno di un po’ di riposo.... e sono sicura che tutto passerà… – essa gli susurrava con piccoli gesti e con inflessioni adorabili.
Roberto, come gli accadeva ogni volta che si separava da lei, fosse pure per breve spazio di tempo, cadde in una grande mestizia.
Gli era sembrato che la mano, che egli aveva baciato, fosse troppo calda.
Se avesse la febbre!
L’idea lo martellava, lo teneva sulle spine.
Un quarto d’ora dopo Roberto tirava di nuovo il campanello del palazzetto.
Lina veniva ad aprire. Le domandava notizie. Antonietta era un po’ agitata. Egli le lasciava un piccolo involto, e le scriveva in un biglietto che vi avrebbe trovato rimedio infallibile al suo male.
Dopo una mezz’ora un uomo portava al palazzetto un libro. Roberto lo mandava ad Antonietta perchè lo leggesse, si distraesse, immaginandosi che doveva già star meglio.
Un’ora appresso un ragazzetto saliva le scale portando un grosso mazzo.
Fiori, che Roberto mandava ad Antonietta!
Essa gli era gratissima di tali premure, a cui l’aveva abituata, e con le quali l’innamorato gli rivelava che pensava a lei, che si occupava di lei ad ogni istante.
Antonietta, appena tornata in casa, se n’era andata in camera, dopo che Lina le aveva tolto il cappello e il mantello, e là, gettatasi sopra una poltrona, si era ingolfata ne’ suoi pensieri.
Cercava d’illudersi: forse l’uomo, che aveva veduto, non era il Tittoli.... Ma no, lo aveva veduto troppo bene.... aveva dinanzi agli occhi quella fisonomia così triste.... Gli sguardi di lui si erano incontrati co’ suoi, e avevano una tale espressione di rammarico, avevano gettato lampi di gelosia nel vederla accanto al rivale fortunato!
Le lacrime le venivano agli occhi ripensando alla sua oscura casa di Piazza degli Amieri, in Firenze, a’ suoi poveri vecchi, agli anni della sua infanzia, a quelle sere in cui Carlo Tittoli andava a vederla, accompagnato dalla propria madre.
Fu colpita a questo punto delle sue riflessioni da un’idea più straziante di tutte quelle che l’avevano assalita.
Carlo Tittoli era vestito a lutto, certo aveva perduto sua madre!
Egli aveva dunque bisogno di consolazioni.
Due lacrime calde, grosse, le rigarono le guancie, uno spasimo interno le contraeva il volto. Si morse il labbro inferiore, chinò la sua bella testina fra le mani, i singhiozzi la soffocavano.
Pianse, pianse senza ritegno: il cuore le scoppiava a tutte quelle rimembranze della sua infanzia, de’ suoi vecchi, dell’amico fedele.
Quando si alzò, si vide nel grande specchio, che aveva dinanzi.
Era lei, lei la cantante applaudita, la donna celebre, amata, per cui delirava la folla, lei che quella sera stessa doveva comparir sulla scena coperta di gemme, scintillante di bellezza, per rappresentare la parte della Regina? Era lei con gli occhi gonfi di lacrime, arrossati dal pianto, col volto bianco per la commozione, lei, non più artista, non più commediante, ma la povera ragazza di Piazza degli Armieri, la povera figliuola di Agatina e di Enrico, che piangeva!
Stette sola, affranta, oppressa dai ricordi, lacrimando, per alcune ore.
Verso le 7, quando già cominciavano a cadere le prime ombre della sera, Lina venne a chiamarla.
Era l’ora di andare al teatro.
Come sempre, Lina l’accompagnava. La aiutava a vestirsi nel camerino: poi, mentre cantava, la aspettava tra le quinte per gettarle addosso lo scialle, quando usciva di scena: le teneva pronta una sedia, allorchè doveva trattenersi fra le quinte soltanto alcuni minuti, per ricomparire subito dinanzi al pubblico; le offriva da bere, le porgeva il ventaglio, le stava attorno come se l’adorasse.
Quella sera il teatro era affollatissimo: la platea stipata: nei palchi il fiore dell’aristocrazia veneziana: uno splendore di spalle bianche, un folgorio di sguardi, di gemme, un ondeggiar di ventagli variopinti.
Antonietta ebbe un applauso di sortita, unanime, fragoroso, un applauso da far crollare il teatro, e che durò alcuni secondi.
Tutta Venezia aveva saputo della gran festa popolare, che le era stata fatta due notti innanzi all’uscire dal teatro. Le signore erano curiose di vedere la donna sulla quale correvano così strane leggende, leggende che anche in quel momento si ripetevano sotto i ventagli. E poi quella sera al teatro si raccontava una cosa di più, che eccitava le fantasie, che dava l’aìre alle supposizioni…
Carlo Tittoli non aveva potuto più oltre nascondere la professione a cui apparteneva. Egli era conosciuto ormai anche in Firenze come uno degli uomini più ragguardevoli, più intelligenti, che contasse la polizia toscana. Se avesse voluto, avrebbe potuto arrivare ai primi gradi. La profezia che gli aveva fatto in un momento terribile per lui, il Presidente del buon Governo, si avverava.
Arrivato a Venezia con altri viaggiatori, le parole scambiate con l’ufficiale, che riceveva i passaporti, gli atti d’ossequio e di deferenza degl’impiegati subalterni, richiamarono l’attenzione su di lui. All’albergo dove andò ad alloggiare si trovava un fiorentino, che lo riconobbe. Subito si seppe che un alto impiegato della polizia del Granduca di Toscana era giunto nella città.
Ne’ due giorni fu veduto spesso vicino al palazzetto dove abitava la cantante.
Era forse venuto a sorvegliarla?
A poco a poco il forse sparì: il fatto fu affermato, ripetuto co’ soliti ornamenti, si inventarono circostanze, particolari, perfino parole pronunziate dall’agente superiore della polizia.
E la gente bisbigliava, commentava quelle fiabe sinistre, quella storia di sangue, di sospetti, di orrori.
– Così giovane! – dicevano le signore più benevole, e tutte tenevano i canocchiali fissi sulla leggiadra artista, e non la perdevano d’occhio un minuto – così giovane e già vi è un tal mistero nella sua vita!
Era appunto quel mistero, nato dalle calunnie, dalle cupe, contradittorie e spaventevoli voci, che serpeggiavano, che sorvolavano di labbro in labbro, era quel mistero che agitava, scuoteva, attirava la folla: la rendeva più commovibile ai canti strazianti, che udiva.
Nel palco della principessa Calliraki, bellissima dama greca, che si trovava da un mese a Venezia, l’abate Pildani dopo il primo atto declamava, gestiva con in mano il suo ombrello verde.
– Dica, signor Abate… lei che conosce questa grande artista.... crede sia possibile che essa abbia commesso un delitto?… – domandava la principessa.
– No… Eccellenza… no – rispondeva l’abate – non è possibile!… È una leggenda, una leggenda infame… come quella che raccontano sul sublime violinista, sul mio amico Paganini… L’ingegno della ragazza ha del prodigioso… la sua voce è un miracolo musicale. La folla crede difficilmente ai prodigi, ma quando ci crede, quando si è formato un idolo, dopo le prime pazze adorazioni cerca il punto debole, la fragilità, che possono avere questi esseri, che vede, con invidia, tanto superiori a sè, dopo averli essa stessa inalzati freneticamente a quelle altezze… E se può trovare il punto debole… se può scoprire un pretesto, un appiglio a queste fragilità… come è contenta! Le mille bocche briache, che urlavano l’osanna, che facevano intorno alla donna, all’uomo d’ingegno un tal baccano da divezzarli dal comprendere il valore della lode vera, onesta, temperata, immutabile perchè senza esagerazioni… le mille bocche, su cui tuonava l’iperbole, allora diventano bocche di vipere, e di vipere mai sazie di spargere il loro veleno… È la folla cieca, ilota, che ha avvelenato così le più nobili esistenze, le reputazioni più gloriose, le fame più intemerate… Ciò che si racconta di questa ragazza è mostruoso....
– Bravo, signor Abate! – esclamava la Principessa, tendendo al principe della critica la sua mano delicata. – Gli occhi, tutta la fisonomia della ragazza confutano da sè le infami calunnie… Le si legge nel volto, negli atteggiamenti, la bontà, la generosa fierezza dell’animo.
La Principessa era giovane, ricca, corteggiata indipendente, e come abbiamo detto bellissima: non prendeva quindi alcun piacere alle calunnie: le era anzi molto a grado che la sfuriata dell’Abate le avesse dato modo di umiliare le tre o quattro creature meschine, spigolistre, che si trovavano nel suo palco, e che avevano lacerato fino allora il nome della artista.
Le parole dell’Abate furono, entro un quarto d’ora, riportate di palco in palco, e anch’esse cresciute, aumentate, a favore della ragazza: e del resto, prima che il secondo atto fosse a mezzo, l’ombrello verde dell’Abate aveva fatto la sua comparsa in varii palchi; egli aveva ripetuto da sè il suo giudizio, e con la sua solita chiarezza.
La calunnia si andava dissipando rapidamente, come era sorta.
Antonietta riceveva feste come una sovrana.
Ad ogni sua frase la salutavano grida entusiastiche, prorompeva l’applauso, immenso, alto, fragoroso, e sotto quell’onda sonora, vibrante nell’aria, la bella testolina bionda s’inchinava, in atto di ringraziare gli spettatori, senza però perder nulla della sua alterezza, della sua compostezza dignitosa.
Il pubblico aspettava con grande ansietà il duo fra il soprano e il contralto.
Le due donne si avanzarono verso la ribalta.
Regnava un silenzio profondo: tutti rattenevano perfino il respiro.
Anna Bolena intuonava il duo famoso con le parole rivolte a Giovanna Seymour:
Sul suo capo aggravi Iddio…
Era arrivata alle cadenze del primo tempo sulle parole: fia la scure a me concessa: dove, copiando una puntatura della Pasta, levava un do acuto di effetto meraviglioso.
In quell’istante si udì il rumore dello sparo d’un’arma da fuoco.
Vi fu un panico.
Tutti erano rimasti sbigottiti.
La gente si alzava in piedi, le signore si spenzolavano dai palchi; conturbate, esterrefatte.
In alcuni palchi del terz’ordine si vedevano spettatori, che gesticolavano in modo furibondo.
– Fermi tutti – gridò una voce robusta – si tratta di un suicidio!
Da un palco del terz’ordine veniva già una gora di sangue, che aveva spruzzato gli abiti, il volto di signore, che si trovavano nei palchi sottoposti.
Il sangue cadeva nella platea, sotto que’ palchi, e la gente, essendosi ritirata per raccapriccio, da quel punto si scorgevano sul pavimento le goccie rosse.