Kitabı oku: «Il processo Bartelloni», sayfa 9
XV
I primi ad entrar nel palco, dal quale cadeva la pioggia di sangue, videro un uomo con la testa tutta sfracellata, appoggiata al davanzale del palco e il cui corpo si era ripiegato nell’angustia dello spazio, cadendo, dopo la spaventevole ferita.
Le persone entrate proferivano grida di orrore.
Sulla parete del palco, in faccia alla scena, e alla quale l’uomo era appoggiato nel momento in cui aveva attentato alla sua vita, sulla parete si vedevano schizzati e rappresi piccoli frammenti di cervello.
Il sangue usciva dalle labbra dell’infelice, e gli bruttava le vesti.
Chi era?
Il volto del cadavere appariva irriconoscibile, nessuno sapeva ravvisarlo.
Nel Teatro l’eccitazione aumentava di istante in istante.
La folla invadeva i corridoi.
Tutti nei palchi restavano in piedi.
Si scambiavano dialoghi ad alta voce da una parte all’altra del Teatro.
Udito il colpo, poi le prime grida, la parola si ghiacciò sulle labbra di Antonietta; quindi essa cadde svenuta.
Il contralto, impaurito, fuggì subito fra le quinte.
Accorsero altre persone e sollevarono Antonietta, e la trasportarono nel suo camerino.
Un secondo appresso, il Gandi accorato, sopraffatto dalla passione, dallo sbigottimento era accanto a lei.
Il dramma d’amore, cominciato pochi anni innanzi in Piazza degli Amieri aveva un ben orrido fine.
A poca distanza l’uno dall’altro erano il cadavere di Carlo Tittoli, il corpo affralito, scosso da terribili convulsioni, di Antonietta.
Il Commissario della polizia austriaca accompagnato da un medico, seguito da varii suoi agenti, salì al palco, e mostrando i segni del suo grado, con le ripetute intimazioni, riuscì a farsi luogo fra la folla.
La identità del Tittoli fu facilmente e presto riconosciuta, mediante le carte che egli aveva indosso.
Nella sala continuavano le grida, la effervescenza.
Il Commissario intimò ad uno de’ suoi agenti di recarsi sul palcoscenico, e tornar subito a riferirgli quello che avesse veduto.
Tutti gl’impiegati della polizia, presenti in teatro, in un momento furono nel palco.
L’agente mandato sulla scena tornò immantinente e conferì col Commissario.
– Ho capito! – egli disse, dopo averlo ascoltato.
Si rivolse ad altri agenti, e scambiò con essi in furia alcune parole.
Costoro facevano rapidi segni di assentimento.
Allora il Commissario, guardando la folla, alzò una mano, come se volesse far cenno agli spettatori di acquietarsi, di tacere.
– Zitti! zitti! – gridarono più voci. – Parla il Commissario.
– Psss.... psss.... – si mormorava da ogni parte.
Tornò a regnare quel profondo silenzio in mezzo al quale era stato intuonato il bel duo del Donizetti.
– Signori! – esclamò il Commissario, sporgendo dal palco la sua testa calva, e tenendosi con un ginocchio sopra uno sgabello, accanto al cadavere – la rappresentazione non può continuare.... La prima donna è stata presa da violente convulsioni.... La polizia ha bisogno di quiete per trasportare il cadavere.... In nome della legge v’invito a sgombrare la sala!
Successe un gran tumulto.
Tutti si affrettavano ad uscire.
Tutti erano impauriti, impressionati dalla grande catastrofe.
Uscirono e si sparsero per Venezia dove propalarono la triste notizia.
Molte signore, appena arrivate a casa, si misero in letto con la febbre, il dì appresso alcune erano ammalate.
La bella e sensibilissima principessa Calliraki la notte tenne sempre sveglie le sue cameriere, essendo in preda ad un’agitazione, che pareva delirio.
Un’ora dopo che il pubblico aveva lasciato il teatro, il cadavere sformato del Tittoli era trasportato sino in riva all’acqua e adagiato nella barca dei pompieri; di lì a non molto si trovava steso sopra una tavola di marmo nella stanza mortuaria dello spedale.
Là fu spogliato, un medico, sebbene convinto di adempiere una inutile formalità, procedette alla ascoltazione del cuore.
Ma il cuore di Carlo Tittoli non batteva più.
La morte gli era sembrata l’unica riparazione al disonore, che credeva ricaduto sul suo nome dal vile impiego che aveva accettato, l’ultimo balsamo alle ferite di un amore non corrisposto, che era stato la sola, la più grande, la infelice passione di tutta la sua vita!
Più volte si era detto nei giorni del dolore, quando si sentiva soverchiato dal peso de’ suoi affanni: – «se non fosse mia madre!» – Sua madre morta, composta nel sepolcro, tributate alla sua memoria tutte le cure estreme dell’affetto, che sopravvive ad un essere adorato, egli era venuto a Venezia per compiere la ferale promessa.
Aveva voluto morire dinanzi alla donna che egli considerava come sleale, aveva voluto colpirla in mezzo a’ suoi trionfi: lasciarle il ricordo della sua morte come un atroce rimorso.
Mentre il cadavere del Tittoli era lentamente trasportato allo spedale nella barca di servizio, Antonietta riavutasi, sorretta da Roberto e da Lina, scendeva verso la gondola, che doveva condurla a casa.
Entrarono tutti e tre nel felze, tutti e tre muti, costernati, e tutti e tre in quel momento i soli in Venezia che capissero i veri motivi di quella disgrazia.
Nessuno di loro osava parlare.
Arrivarono dinanzi al palazzetto.
Senza proferir verbo, Antonietta tese la mano a Roberto che la baciò, e poi la strinse fra le sue.
E ambedue silenziosi, tremanti, si accomiatarono.
Antonietta e Lina non chiusero mai occhio, durante la notte.
Lina si era sdraiata in un lettuccio accanto al letto della padrona, e di tratto in tratto l’una sentiva i singhiozzi dell’altra.
– Voglio andare a vederlo! – disse Antonietta prima che albeggiasse. – Voglio andare ad ogni costo!
– Andiamo pure, – rispose Lina in tuono piuttosto severo. – Anche questa sarà un’espiazione!
XVI
E, balzando dal lettuccio, scarmigliata e discinta com’era, avvicinandosi al letto d’Antonietta, tutta trafelata soggiunse:
– Un’espiazione sì, perchè qui siamo tutti colpevoli!… e mentre laggiù ci è un cadavere, un altro innocente è in galera per causa nostra.
– Innocente!… in galera!… che cosa dici? – domandò Antonietta, inorridita, alzandosi a sedere sul letto.
– Dico che il giovane, il quale fu condannato per la ferita fatta al signor Roberto… non è lui l’assassino....
Antonietta ricadde col capo sul guanciale.
– Ma parla.... parla.... – soggiunse a stento, col volto tutto bagnato di lacrime, mentre cercava con una mano la mano di Lina.
– Sì, parlerò.... parlerò.... perchè altrimenti io sono sicura che Dio il quale già ha cominciato a punirci ci manderà altri più tremendi castighi…
Però la ragazza non andò più innanzi. La parola che stava per pronunziare sembrava le scottasse le labbra.
– Dunque,.. confidati – ripeteva Antonietta, attirando Lina verso di sè, e ben lungi dall’attendersi la rivelazione, che le doveva esser fatta.
– Ebbene – riprese tutta ansante Lina, dopo un breve momento di ansietà. – Sì, lo dirò… l’assassino del signor Gandi è stato… mio fratello!
E, dato un urlo, cadde stecchita sul pavimento.
Antonietta anch’essa per qualche tempo non fece alcun moto.
Le commozioni di quella notte ormai erano tali che si sarebbero spezzate fibre ben più robuste della sua.
Dopo il primo abbattimento, dopo la prostrazione, in cui gettano a un tratto le angosce supreme, avviene nell’animo umano una pronta reazione. La coscienza assopita si ridesta, le sofferenze divengono più generali, ma si fanno meno acute. La mente riacquista il privilegio funesto di poter esaminare, ragionare il dolore.
Antonietta poco appresso si scuoteva dalla sua atonia.
Guardava intorno a sè, e non vedendo Lina, la chiamò.
Sono qua! – rispose la sciagurata ragazza, sempre stesa sul tappeto, che cuopriva il pavimento.
E si strappava i capelli, e mandava imprecazioni, arrivata a uno stato di parossismo nel quale certo nessuno mai l’aveva veduta.
– Sono rovinata… rovinata… e tutto per lei… Se non fosse stato il suo amore con questo forestiero!
Antonietta non rispose.
Neppure in quel momento la sua indole fierissima le consentiva di venire a spiegazioni, a discussioni con una creatura come Lina, non ostante che le volesse un gran bene.
Ma Lina subito si alzava in ginocchioni, si avvicinava di nuovo al letto, prendeva le mani della sua padrona, e le cuopriva di baci, ripetendo, in mezzo alle lacrime:
– No… no… io sono un’ingrata… una cattiva… mi perdoni… io ho detto una cosa che non avrei dovuto mai dire… Sono tanto disperata!
E così, interrotta dai singhiozzi. Lina raccontò ad Antonietta tutto quello che sapeva sul delitto di Via della Luna, le sue scene col fratello, con Lucertolo, la condanna, la gogna di Nello, le angustie da lei patite, subite sin’allora, le lotte sostenute per non palesare la verità.
Quella effusione fra le due donne durò circa un’ora.
Antonietta aveva ascoltato tutti quei racconti, strabiliando, esterrefatta.
Vedeva chiaro, alla fine, la verità, che tante volte aveva sospettata.
Il suo amore era dunque una cosa fatale!
Già aveva spinto un uomo a darsi la morte, e per gli effetti del suo amore un altro, innocente, era precipitato in galera.
Ma, come avviene, nello sconforto profondo, mentre tutto cadeva, crollava, grondava sangue intorno a lei, essa sentiva avvivarsi e rinvigorirsi la sua passione per Roberto.
Le vere passioni si alimentano e crescono, divampano fra gli ostacoli.
– Voglio andare a vederlo!… Voglio andare a vederlo! – balbettava Antonietta.
Le due donne, vestite a lutto, uscirono di casa. Era sempre in sull’albeggiare.
Si presentarono all’Ospedale e chiesero di entrare nelle stanze in cui si custodiva il cadavere dell’uomo che si era ucciso. Ma fu loro negato.
Allora Antonietta domandò con insistenza del medico di servizio.
Il giovane medico accorse, riconobbe la celebre artista; e sebbene un poco meravigliato che essa venisse a tale ora, credendo obbedisse a un capriccio, a una curiosità di vedere l’uomo, del quale tutti dovevano averle parlato, la guidò egli stesso sino alla stanza mortuaria.
Ad un cenno del medico, un guardiano prima che le donne entrassero, corse a gettare sul cadavere un gran lenzuolo, che lo cuoprì quasi tutto.
Le donne entrarono trepidanti.
E si gettarono subito in ginocchio, ciascuna da un lato di quella tavola di marmo sulla quale giaceva la povera, straziata spoglia di Carlo Tittoli.
Una sola delle lacrime che Antonietta versava in quel momento, avrebbe potuto, versata in altri tempi, salvare la vita dello sventurato!
Ma la morte è sorda ai gemiti, ai preghi, alle lacrime, ai pentimenti. Il sepolcro non rende nè alle madri, nè alle amanti, nè alle spose, nè alle figliuole desolate che invocano, e supplicano, le vittime che esso ha divorato!
E in quell’ora che cosa faceva Roberto?
XVII
Le donne non avevano dormito, ma Roberto quella notte non si era neppur coricato.
La camera di Antonietta corrispondeva in via della Ca’ d’or, ed egli aveva passeggiato su e giù per ore intere, guardando in alto verso la finestra, che vedeva illuminata.
Voleva esser pronto ad ogni rumore, che udisse nel palazzetto; la quiete, che pareva vi dominasse, lo aveva alquanto rassicurato, e si era allontanato, molto sul tardi, aggirandosi sempre in angoscie e tutto agitato, per le più curiose straduzze, sulle quali batteva appena uno scarso raggio di luna.
La morte del Tittoli, lo stato in cui aveva lasciato Antonietta, lo travagliavano.
Egli aveva veduto il Tittoli una volta sola: quando cioè l’amico d’infanzia di Antonietta aveva consentito a visitarlo in via de’ Renai, poco prima della fuga della ragazza da Firenze, come ricorderà il lettore.
Poi ne aveva udito qualche volta parlare da Antonietta e da Lina, che ne avevano esaltato la devozione, le premure; ma nulla egli mai era venuto a sapere dell’odio concepito dal Tittoli contro di lui, della gelosia che gli aveva ispirato, della passione che esso aveva nutrito per Antonietta.
Antonietta non gli aveva naturalmente parlato mai della scena accaduta fra essa e il Tittoli nella osteria di campagna, allorchè egli si era ferito dinanzi a lei, e le aveva annunziato la sua risoluzione di morire.
Ma la scena le tornava in mente tale e quale l’aveva veduta due anni prima, nel momento in cui stava inginocchiata accanto al cadavere di Carlo.
Essa ricordava il consiglio, che le aveva dato di farsi artista, di trar partito dalle lezioni del Brinda, gli aiuti che le aveva procurato per esordire nella sua carriera.
Ed egli moriva proprio nel momento in cui era salita a quella gloria, a quei trionfi, che egli aveva affettuosamente vagheggiato, sognato per lei, che le aveva predetto nel suo entusiasmo verso di essa.
Già il cielo era soffuso dai primi chiarori dell’aurora.
Quando, ad un tratto, Roberto Gandi vide avvicinarsi due donne. Due donne in strada, e a quell’ora! il fatto era tale da sorprendere, ma incontanente ebbe riconosciuto Lina e Antonietta.
Si diresse verso di esse. Antonietta, ravvisatolo, fu piena di confusione.
XVIII
– Fuori… a quest’ora? – le domandò il Gandi. – E di dove vieni?
– Abbiamo passeggiato un poco… sentivo soffocarmi… non potevo dormire! – rispose Antonietta, che non aveva mai detto una menzogna al suo amante, e alla quale il sotterfugio, il primo che adoperasse con lui, spiaceva talmente, che essa tremava e balbettava.
Roberto aveva tanto rispetto, tanta fiducia, tanta passione per Antonietta, che non osò ripetere.
Si mise a camminare accanto a lei, a capo chino, molto sconfortato da quella risposta.
Sentiva per la prima volta la diffidenza, il dubbio sorgere fra lui e Antonietta.
Ma non stette molto che Antonietta posò una mano su un braccio di lui. Essa non poteva patire di vederlo così mesto, immaginava, conoscendone bene la indole, quanto egli dovesse soffrire in quel momento, e non voleva tener nulla celato al solo uomo che amava, che avesse mai amato.
Roberto, commosso da quell’atto, alzò il capo e la guardò.
Antonietta aveva preso una forte risoluzione: confessargli tutto, palesargli le sue relazioni col Tittoli, il motivo probabile che lo aveva indotto al suicidio, raccontargli tutte le confidenze, che aveva avuto da Lina sull’assassinio.
– Ho passato davvero una brutta nottata! – riprese Antonietta con un tuono dolcissimo di voce. – Se tu sapessi quanto ho sofferto!
– E io non mi sono mosso un istante dalla strada… Vedevo la tua finestra illuminata… Se avessi potuto farti sapere che ero là.... Tu però avresti dovuto immaginarlo.... Tu sai che quando soffri è per me il maggiore dei tormenti....
– Ah, lo so che tu sei sempre buono! – mormorava Antonietta.
– Ma tu hai pianto… tu piangi ancora? – domandava Roberto.
Antonietta infatti piangeva in un nuovo accesso di commozione, ripensando al cadavere, che aveva lasciato laggiù sulla tavola di marmo.
– Ti dirò tutto, – replicava Antonietta. – Ora andiamo a casa!…
Antonietta taceva, mentre Roberto era tutto intento a indovinare il segreto che le dava tanta ambascia.
La notte insonne, le emozioni provate in poche ore avevano lasciato sul volto delicato della giovane traccie spiccate.
Roberto si accorse che anche Lina piangeva.
Che cosa era dunque accaduto?
– Che c’è? – domandò a Lina con voce sommessa.
– Immense disgrazie! – costei rispose angosciata.
I più lugubri presentimenti si succedevano nell’animo di Roberto.
Il suicidio del Tittoli, l’abbattimento in cui aveva lasciato Antonietta già lo avevano predisposto alla malinconia, eccitando la sua sensibilità. Si era domandato fra sè e sè come mai il Tittoli fosse venuto a Venezia, avesse preso il partito di suicidarsi proprio al Teatro in mezzo ad una rappresentazione, mentre la sala era affollata, il pubblico, plaudente, allegro, sodisfatto.
Come mai aveva voluto morire con tanto clamore, circondare la sua morte di tanto apparato?
Questi pensieri da cui si era distratto per tornare ai pensieri del suo amore, che lo occupavano sempre, ora si facevano più insistenti.
L’uscita di Antonietta così per tempo doveva essere in qualche relazione col suicidio della sera precedente.
Essa aveva conosciuto il Tittoli, egli la aveva aiutata a fuggire dal Ghetto… La gratitudine, la compassione…
Il mistero che già trapelava in questo affare, lo teneva sospeso e perplesso nelle più crudeli ansietà.
Arrivarono a casa, e Antonietta, Lina, Roberto si trovarono riuniti nella sala ove pochi giorni innanzi era stato ricevuto l’abate Pildani.
In quella sala ora non risuonavano più i canti, nè le voci liete, ma solo il pianto delle due donne.
Antonietta fu la prima a rompere il silenzio.
Roberto ascoltò impassibile tutte le penose rivelazioni.
Allorchè essa ebbe finito:
– Bisogna, – egli disse, – partir subito e tornare a Firenze… Dobbiamo ad ogni costo far rendere la libertà a quell’innocente… Dobbiamo risarcirlo del male, che ha patito, e del quale noi… noi siamo causa… Abbiamo taciuto anche troppo…
La sera appresso il cadavere del Tittoli era portato a seppellire.
Il trasporto fu quasi solenne; qualcuno, che si teneva nell’ombra, aveva pensato a tutto.
Sulla bara erano state deposte due grandi corone di fiori.
Tutta Venezia parlava del caso orrendo.
La leggenda popolare contro la bella cantante si ridestava più fosca che mai.
Nessuno poteva ora più trattenere la calunnia, neppure il buon abate Pildani.
Il suicidio del Tittoli era collegato nel modo più strano dalla pubblica voce, sebbene inconsapevole, a qualche atto della vita passata di Antonietta.
La sera stessa in cui il cadavere del Tittoli fu condotto al cimitero, Roberto prese in disparte Lina e le domandò molto concitato:
– E tuo fratello… l’assassino che mi ferì… è morto?
XIX
La conversazione fra Roberto e Lina fu lunga. Non cessò fino al momento in cui Lina dovè andare ad aprire la porta. Un visitatore, a quanto pare molto vivace, aveva tirato giù tre o quattro scampanellate una dopo l’altra e con non piccola forza. Sembrava deciso, se non gli fosse subito aperto, a rimanere col campanello in mano piuttosto che desistere dal pensiero di entrare.
Era l’abate Pildani.
Lina lo fece subito passare nella sala dove si trovava Antonietta.
Roberto rimase in un salotto a confabulare con Lina.
– Buona sera, mia cara! – disse l’abate, tendendo la mano all’artista, che era quasi sepolta fra alcuni guanciali, in atteggiamento languidissimo.
– Buona sera, mio caro… maestro! – rispose Antonietta, con voce spenta. – Desiderava appunto di vederlo… Ho bisogno di lei!
– E io ti servirò volentieri, figliuola, in tutto quello che ti occorre. Ma come stai?…
– Oh, molto male… Non mi sono ancora riavuta dallo spavento dell’altra sera e credo che ne risentirò gli effetti per un pezzo…
– Conoscevi quel disgraziato!
– Sì, lo conoscevo!
– Però tu hai commesso una grande imprudenza.
– Quale?
– Presentandoti poche ore dopo, prima che facesse giorno, all’ospedale, insistendo per vedere il cadavere…
– E chi lo sa?
– A quest’ora tutta Venezia.
– Mio Dio!
– E non immagini quello che si dice?
– Oh, per me… mi è indifferente quello che si dice… io agisco sempre, secondo la mia coscienza.
– Belle, nobili parole – riprese l’abate – degne di te… ma che sono costate molti dolori ad anime molto generose, dolori che bastarono a scuotere fibre più forti della tua.
– Oh, se sapesse quanto sono forte io contro certe viltà, contro certe ingiustizie! – disse la ragazza, i cui bellissimi occhi lampeggiavano di sdegno. – Lei deve farmi un favore… Sarei obbligata a cantare altre due sere… La prego a adoperarsi perchè io sia sciolta subito dal mio contratto… Lei è onnipotente… ed io sono pronta a pagare tutto quello che vogliono, pur che mi lascino libera… Se avrò la forza di reggermi in piedi, domani voglio partire da Venezia…
– Va bene… Sebbene non sia facile, io otterrò che tu sii lasciata libera… ma a partire da Venezia ora… in questo momento… non ci pensare… Che cosa direbbe la gente?… No, no, tutti crederebbero che tu fossi fuggita… Tutto quello che io ho detto, che io ho fatto in questi giorni per te sarebbe inutile… E i maligni avrebbero ragione e si stropiccerebbero le mani!… No, no… spero mi ubbidirai… tu non devi partire!
L’abate era veramente concitato, poichè si alzò e andò a posare in un canto della sala il suo ombrello verde, separazione alla quale non si rassegnava che in ben solenni congiunture.
– Ma che cosa c’è di così terribile contro di me? Che cosa ho io fatto a questa gente, che mi calunnia?
– Che cosa hai loro fatto?… Tu sei giovane, tu sei bella, sei celebre… E la più parte di loro non sono nè giovani, nè belli; e, nonostante le vanitose cupidigie, le sordide ambizioni che li divorano, sono destinati a rimaner sempre oscuri… Che cosa c’è di terribile contro di te?… Le gagliofferie inventate dalla marmaglia… Non si contentano ora di dire che a Firenze tu hai ucciso un uomo… hai commesso un assassinio misterioso… ma aggiungono che questo Tittoli che si è suicidato, era stato mandato dalla polizia granducale per sorvegliarti… ma che egli è stato un tempo il tuo amante… e che si è ammazzato piuttosto che nuocerti…
– Stoltezze degne di chi le dice…
– E di chi le crede… siamo d’accordo… Ma il numero di coloro che sono disposti a credere il male, non è scarso… non sono pochi i codardi, che calunniano in segreto, che provano una gioia bestiale a contaminare tutto quello che vi è di puro, di nobile, di giovane, di gentile, di illibato, a contrariare gli sforzi che fa l’ingegno per riuscire, a contendere tutti i successi, i successi della grazia, della bellezza, dell’arte, dello studio… No, non voglio che tu parta da Venezia così.
– Ma che mi consiglia di fare?
– Ecco… tu hai chiesto un favore a me, io ne chiedo ora uno a te… Fra tre giorni è l’onomastico della principessa Calliraky. Questa gran dama già ti adora, senza conoscerti… Essa ha preso le tue difese contro i tuoi turpi e volgari nemici… Per la sera del suo onomastico, ha invitato il fiore della aristocrazia veneziana, poi gli artisti più eletti, una società sceltissima… Essa ti prega di voler cantare un pezzo in suo onore… Noi anderemo sul tardi, quando le sale saranno affollatissime. Tu entrerai, dando il braccio a me, a me, che ti rispetto, e che sarò orgoglioso di sfidare la calunnia al tuo fianco. Roberto ti accompagnerà anch’egli… Vedremo, se i calunniatori avranno il coraggio di alzare la testa, vedendoti in mezzo a due uomini d’onore, ciascuno de’ quali è pronto a difenderti…
– Ma perchè darsi tanta pena?… Io non tengo che alla stima di coloro che amo… Che m’importa di quello che dicono di me certi oziosi… certi sciagurati?
Antonietta parlava con appena un filo di voce.
Un po’ era sofferente, un po’ obbediva ad un vezzo.
Una cantante, quando è oppressa da qualche sciagura, quando vuol esprimere un gran dolore, o un gran disgusto che la muove, abbassa la voce… anche se l’ha.
L’abbassamento della voce in lei è destinato a rappresentare il supremo limite dello sconforto e della prostrazione, l’abbandono di tutte le facoltà. Sta quasi a indicare che, almeno per il momento, il male è senza rimedio. In simili congiunture è rigorosamente richiesta negli astanti una costernazione profonda, come se davvero una gola d’oro avesse perduto il suo metallo meraviglioso, o l’onda di una voce avesse gettato l’ultima perla.
L’abate conosceva bene le capricciose, delicate e suscettibili divinità dei teatri di musica. Ristette dalle sue domande e cominciò a parlare della voce di Antonietta.
– Questo abbassamento di voce, che mostri stasera – egli disse ad un certo punto – non è naturale. Il dispiacere che provi ti fa discorrere con un accento così velato, ma credo che se tu cantassi un poco, la voce ridiverrebbe subito più limpida e più chiara… Non bisogna prendere l’abitudine di parlare con coteste velature… Stasera lo fai per stanchezza, per ispossatezza, perchè sei triste e svogliata. Domani tornerai a fare lo stesso e l’organo si vizia facilmente… Fammi sentire una scala…
Antonietta prese una o due note e mostrò al maestro che sapeva ritrovare la sua magnifica voce.
L’abate si trattenne un pezzo con lei, si diffuse in ragionamenti sull’arte, sulla musica.
La giovane artista lo ascoltava un po’ distratta, immersa nelle tristezze, che le derivavano da tutto ciò che aveva saputo, sofferto nella notte, dopo il suicidio del Tittoli, un po’ attirata dai discorsi che la solleticavano ne’ suoi istinti di artista.
Alla fine l’abate, prendendola per una mano, e parlandole in tuono quasi paterno:
– Tu devi essere condiscendente col tuo vecchio Pildani – le disse in un impeto di affettuosa espansione – devi promettermi che canterai per l’onomastico della principessa.
Antonietta, dopo un istante di riflessione:
– Ebbene… – rispose – canterò… Lo prometto.
– Brava! – E il buon vecchio, chinandosi, le dette un bacio sulla fronte. – E ora ti lascio!
E, ripreso l’ombrello, con un gesto come se volesse fargli dimenticare il lungo distacco da sè a cui l’aveva condannato, si accomiatò.
Il giorno dopo, tutto il palazzetto era sossopra.
Fu fissato che Antonietta e Roberto partirebbero con Lina da Venezia la sera appresso a quella in cui dovevano trovarsi alla festa della principessa, e si sarebbero diretti a Firenze. Appena arrivati, Lina si sarebbe presentata al capo della polizia o all’avvocato fiscale della Rota per fare le sue rivelazioni.
Intanto essa aveva già subito dato mano a preparare i bauli.