Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 12
II
Fu assai forte l’impressione che cotesta scena crudele fece su Armando. Ne fu sbalordito e intimamente addolorato. Sentì che la società non era fatta per lui. Egli non era della sua epoca. Un altro non si sarebbe lasciato abbattere da uno scacco, anche insultante; avrebbe aspettato con pazienza, avrebbe strisciato, avrebbe imparato l’arte del cortigiano, avrebbe assunto quella maschera di allegra sfrontatezza che piace, avrebbe lavorato assiduamente a farsi un nome e sarebbe riuscito a molto. Forse sapendo fare, eccitando la curiosità di quella donna capricciosa, come Richelieu aveva soppiantato Breteuil, egli si sarebbe fatto cedere il posto da Richelieu! Tutto era possibile sotto il regno della Pompadour. Ma bisognava essere abile, ed egli non lo era; bisognava essere freddo, ed invece il suo cuore batteva fortemente; bisognava vincere audacemente gli ostacoli, saper sopportare umiliazioni e sconfitte, farsi piccino per parare i colpi e potersi poi sollevare ad abbattere gli altri, ed egli invece era timido e sincero.
Egli si rinchiuse nella sua soffitta, nascondendosi a tutti. Aveva cambiato alloggio e nemmeno Verny lo seppe ritrovare. Usciva solo e di rado in qualche luogo solitario, e nessuna delle donne che aveva conosciuto, nè le dame della corte, nè le fanciulle leggiere non lo rividero più.
– E il vostro protetto? domandò un giorno la Champrosé al cavaliere, lo avete abbandonato? Perchè non lo si rivede più?
– Non lo so neppur io, rispose Verny. È per me un enigma. Non capisco davvero che grillo gli sia venuto in capo. Non so neppure dove andarlo a cercare. È un vero peccato perchè prometteva assai.
Il cavaliere non risparmiò alcuna indagine per trovare il luogo di ritiro del suo protetto, ma tutte le sue ricerche furono lungamente infruttuose. Tre mesi passarono senza ch’egli potesse averne alcuna notizia.
Finalmente un giorno il suo cameriere vide Armando per via, ed avendolo seguito, venne a portare al padrone l’indirizzo da tanto tempo cercato invano. In questo modo Verny venne a scoprire il rifugio dell’artista e all’indomani, salite faticosamente le sporche scale di una casa situata in una delle vie più oscure del Marais, picchiò all’uscio della soffitta d’Armando.
– Avanti! fu detto dall’interno.
Egli spinse l’uscio ed entrò.
Era una stanza piccola, bassa, informe, ma chiara. Il sole dardeggiava contro i vetrini impiombati della finestra e illuminava allegramente le malinconie del pittore. Un letto, un tavolo, due sedie e uno sgabello erano la mobilia. Armando era stato ammalato – ed ora non lavorava più ed era povero. Però davanti allo sgabello stava un cavalletto. Vi era sopra una tela, ma coperta da uno strato di seta verde. Armando lo riponeva quando il cavaliere entrò. Verny fu dolorosamente stupito del suo aspetto. La malattia era stata forte ed egli aveva per molti giorni delirato, ripetendo allora ad ogni momento il nome della marchesa. Ora era guarito, ma i bei colori della salute non erano tornati sul suo viso; un gran mutamento era visibile in lui. Nel suo viso dimagrato spiccavano le orbite cinte d’un cerchio color di piombo; solo lo sguardo brillava. Naturalmente esile, stancato dagli studi, dalla povertà, il tocco della passione gli era stato terribile. L’aria mefitica delle sale non era fatta per lui.
Intanto, una tosse leggiera, ma continua, ostinata, non lo abbandonava più. Il male faceva quotidianamente rapidi progressi, e la vita che conduceva non poteva che affrettarne il corso. Verny ch’era un uomo di spirito e di cuore, fu addolorato dello stato d’Armando e cercò ogni modo possibile di distrarlo. Gli rimproverò vivamente di essersi per tanto tempo nascosto.
Egli sapeva confusamente la scena del ballo, e senza particolareggiare tenne ad Armando un lungo discorso sulle donne e sull’amore, dicendogli (come sempre in simili casi) ciò che il giovane sapeva quanto lui, ma non per questo poteva porre in esecuzione. Partì, essendosi fatto promettere dal suo protetto di cercare le distrazioni.
Che accadeva intanto della marchesa?
Nei tre mesi che erano trascorsi dalla notte del ballo non aveva più pensato ad Armando.
Ritroviamola ora la mattina del giorno in cui finalmente Verny aveva scoperto il ritiro dell’artista.
I dodici colpi del mezzogiorno erano già scoccati, eppure le imposte della sua camera da letto erano ancora socchiuse. La cameriera, vedendo che la sua padrona dormiva sempre, ne aveva soltanto semi-aperta una ed era ripartita. Da questa un indiscreto raggio di sole veniva baldanzoso a far visita alla bella signora, come rimproverandola della sua indolenza, e con una famigliarità un po’ impertinente le si posava sul bel viso addormentato. Ella si scosse, socchiuse gli occhi ed apri la bocchina in tutta la sua estensione, dando in un prolungatissimo sbadiglio. In quell’istante, d’improvviso così, senza un motivo, come quel raggio di sole era penetrato a posar sul suo letto, un pensiero le attraversò la mente: il pensiero d’Armando. Eran tre mesi ch’ella non lo aveva veduto ed in quel tempo, di ben altro occupata, non si era più affatto ricordata di lui. Perchè dunque, si dirà, proprio quella mattina un tal pensiero le attraversò la mente? Perchè? Ah, la saprebbe lunga chi sapesse il perchè di tutti i pensieri che passano per il capo delle signore come la marchesa di Saint-Aubin!
Il fatto sta che la mattina di quel giorno la marchesa pensò ad Armando. Pensò a lui – e un sorriso le sfiorò le labbra. Un sorriso che per tradurlo, se fosse possibile, ci vorrebbe la coltura d’Aspasia, l’esperienza di Ninon de l’Enclos e l’immaginazione di un poeta orientale.
Questo nuovo pensiero la occupò talmente, che malgrado avesse già guardato l’ora alla pendola dorata del camino, pure restò per una mezz’ora immobile, sostenendosi la testa con le mani incrocicchiate sotto la nuca e guardando fissamente lo spazio. Finalmente si scosse, allungò il braccio bianchissimo, facendo scorrere in giù la manica tutta coperta di trine, verso il cordone di seta del campanello, e diede un lieve colpo che fece apparire all’istante la cameriera.
– Berta, disse la marchesa, spalancate la finestra, portatemi una tazza di cioccolata, preparatemi una veste da camera e andate a dire a Larose che corra dal cavaliere di Verny e gli annunci che ho assoluto bisogno di parlargli e che lo supplico di venire all’istante.
Berta, senza scomporsi, eseguì in silenzio questi molteplici comandi l’un dopo l’altro e con un’ammirabile precisione; e un quarto d’ora dopo, la marchesa, avvolta in un’ampia veste da camera rosa tutta coperta di trine, era seduta in una poltrona con una tazza di cioccolata tra le mani, illuminata dal sole ch’entrava dalle finestre, solo difese dalle cortine di seta che coprivano i vetri, e riceveva da Larose la risposta del cavaliere, il quale le prometteva di venire all’istante.
La stanza da letto della marchesa era tutta color albicocco. Il letto, in legno bianco e oro, aveva delle tende ampissime dello stesso colore a frangie d’argento e oro, foderate di raso bianco. I mobili, pure in bianco e oro, erano elegantissimi di forma, ma pesanti e pure di color albicocco, tranne la poltrona su cui era seduta la marchesa, ch’era di damasco bianco.
Verny entrò ed ella subito gli chiese d’Armando. Egli rispose quello che sapeva, raccontò come l’avesse trovato e in quale stato e finì dicendo con un sorriso, che sospettava un poco lei di essere, in parte, la causa del male.
Il viso della marchesa prese una strana espressione.
– Se sono io che ha fatto il male, voglio rimediarvi, cavaliere. Non sapeva tutto ciò. Andate dal vostro protetto, ve ne prego, e ditegli che voglio parlargli.
– Sarà fatto, marchesa. Ma non credo che verrà.
– Ed io dico di sì. Andate, andate, mio caro, e vogliate darmi subito la risposta.
Il cavaliere andò da Armando e tornò nella stessa giornata dalla marchesa.
– Il nostro amico non vuol venire; mi ha pregato di farvi le sue scuse. Credo che non sia ancora guarito abbastanza per moversi.
E Verny, così dicendo, sorrise.
La marchesa, rimasta indispettita, non lasciò però nulla travedere, e ringraziatolo, congedò Verny molto amabilmente. Appena fu uscito, andò a sedersi a un piccolo mobile in laque posto vicino alla finestra. Prese una penna e tracciò le seguenti righe sopra un foglio di carta profumato all’ambra.
«Avete torto. Perchè mi tenete ancora il broncio? Volete stare eternamente in collera? Ho veramente bisogno di parlarvi, di darvi una spiegazione. Non dubito che questo vi deciderà; venite, ve ne prego. Vi aspetto con impazienza, non voglio vedere alcuno prima di voi.
«Marchesa di Saint-Aubin.»
Poi agitò un campanello d’oro che stava sulla tavola.
– Berta, mandate questa lettera al suo indirizzo.
Il biglietto era stato accuratamente piegato, un piccolo sigillo con inciso un amorino, impresso nella ceralacca odorosa, era stato applicato in un angolo, e sull’altra parte leggevasi l’indirizzo di Armando, datole dal cavaliere.
Mezz’ora dopo Larose portava la risposta. La marchesa l’aprì con impazienza. Era assai laconica; solo due righe nelle quali si scusava di non poter ubbidire al suo cenno, causa la salute ancor malferma.
Ella si morse le labbra e quella sera litigò per un’ora con Richelieu, annoiandolo talmente, che contro alle sue abitudini di diplomazia galante, ne parlò alla marchesa di Prie, che appunto allora incominciava a corteggiare.
III
La Corte si era trasportata a Versailles. Il re, con la Marchesa, come i cortigiani chiamavano la Pompadour, vi andavano spesso, preferendo i giardini di Lenôtre al Louvre; e in quello splendido soggiorno, ancora tutto pieno delle memorie del gran re e del gran secolo, le feste si succedevano, una più variata dell’altra: balli, ricevimenti, caccie, recite, e frammezzo a tutto questo, i facili intrighi, improntati della leggerezza del tempo, si legavano, rompevano e riannodavano incessantemente.
Poche sere dopo ciò ch’è stato narrato, le sale di Versailles si aprivano ad un ballo sontuoso. Le sale di Diana e d’Apollo, quelle della Primavera e delle Muse, e tutti que’ magnifici appartamenti, improntati del marchio di mitologia galante che Luigi XIV aveva posto su tutto, erano illuminati a far impallidire il sole. Le belle signore passavano e ripassavano, dando la mano, anzi la punta delle dita, ai loro affettati cavalieri, e camminando un po’ di profilo per non guastare i loro paniers, tutte fulgenti di gemme, in cui i mille lumi dei candelabri si riflettevano mille volte, tutte superbamente vezzose ed abbellite dai loro trionfi. La loro bellezza non era quella che avrebbe innamorato un amante della natura, poichè la cipria nascondeva i loro capelli, il belletto ed il bianco coprivano le loro guancie d’un leggiero strato come di vernice, le labbra erano ravvivate dal minio, le ciglia, gli occhi, tutto era dipinto; i fianchi erano artificiali. Pure erano ben sontuosamente belle, con le loro bocchine di corallo, coi loro vestiti luccicanti, con le affettate movenze di testa e di spalle, con la pronunzia smangiata e coi loro sguardi sapienti. – Nella sala da ballo, accompagnate dall’orchestra, venti coppie ballavano il minuetto. I gentiluomini, coperti di raso e di velluto al par delle signore, facevano strisciare la punta de’ piedi, tenendo sollevati i loro alti talloni rossi, e si movevano effeminatamente, porgendo con grazia la destra alla ballerina, con un movimento arrotondato del braccio, mentre la sinistra poggiava sulle impugnature d’oro e di madreperla delle loro spade, che ne’ sottili foderi di velluto, sollevavano le ampie falde degli abiti di color tenero e riccamente ornati. – Pareva intanto che le galanti pastorelle e i mille amorini della vôlta sorridessero a quello spettacolo e si movessero lievemente anch’essi, tra i dolci suoni dei violini, frammezzo alle loro ghirlande di fiori. – Le pareti erano ornate dei capolavori di Vanloo, e Luigi XIV, in piedi, in fondo alla sala, imponeva ancora, benchè dipinto.
In una sala d’angolo, dalle pareti coperte di quadri, vi era un piccolo crocchio che circondava il conte di Choisy, uno dei signori più alla moda, il quale stava raccontando qualcosa che pareva interessasse moltissimo il suo piccolo uditorio. Egli aveva una gran riputazione d’uomo di spirito, ma non troppo meritata.
– Si deve confessare, stava dicendo la contessa di Grives, ch’è uno de’ più bei giovani che si possano vedere.
– Questo poi sì! esclamò una piccola signora, che sebbene sembrasse vicina ai cinquant’anni, aveva ancora molta pretesa. Io non lo aveva molto guardato; chi guarda quella specie di gente? Ma ora che l’ho ben osservato devo confessare ch’è un piccolo Apollo.
– E lo sa la marchesa di Saint-Aubin, soggiunse Choisy ridendo. Vi assicuro l’autenticità di ciò che vi ho narrato.
– Ma ne siete certo?
– Certo quanto che voi siete questa sera d’una bellezza irresistibile, contessa. Mi voglio appiccare domani se non è vero che ho veduto coi miei occhi Larose che saliva la scala della dimora di quel pittorello – di cui non so, del resto, perchè si parli tanto, aggiunse stizzosamente.
– Ma siete certo che abita dove dite?
– Me ne sono informato e lo so di sicuro! – E il più bello di tutto è che il giovane è etico marcio e dicono che sia per colpa della marchesa. Pretendono che sul principio ella si sia beffata di lui. Forse qualcuno se ne ricorderà; parlano d’una scena successa ad un ballo. Io era allora in Inghilterra.
– Oh mi par di ricordarmene!.... Ma sapete che se è vera la storia è stranamente bella e che fra due giorni farà il giro di Parigi? Si susurra che il re voglia fermarsi qui solo alcuni giorni. Appena a Parigi me ne informerò.
Il piccolo crocchio si sciolse e Choisy appoggiandosi al braccio di Breteuil, rientrò nella sala da ballo.
– Ne sei sicuro, conte?
– Sicurissimo, cavaliere, rispose Choisy. Ora poi si dice anche di più, si pretende che pure la contessa di Grives ne sia un pochino invaghita. Aveva un bel fare la disinvolta, si vedeva ora che il mio discorso la interessava molto.
– Per Dio! questo pittore è noioso! Ma ora si racconta che è ammalato, pallido da far pietà.
– È forse quello che piace. Le donne sono tanto capricciose!....
In quel momento un giovane delle guardie di S. M. si avvicinò a loro:
– Parlate del pittore?
– Sicuro, capitano, rispose Breteuil. Oramai non si parla più che di lui…
– Sapete che la Champrosé ieri sera mi disse che ne è innamorata?
– Anche lei?.... Il diavolo le porti tutte! esclamò Choisy.
– Ma guardatelo là! – disse Breteuil. – Anche a Versailles deve venire?
Infatti se ne stava vicino ad una porta, conversando con Verny. Egli era pallidissimo. Si vedeva che il suo male inesorabile progrediva e che malgrado i suoi apparenti trionfi, tutto era finito per lui.
Ma, dirà il lettore, come è avvenuto un tale mutamento? Perchè se ne parlava tanto? – Perchè? – Ah! domandar dei perchè ai tempi di Lebel! Tutto allora era guidato dal capriccio. La sua storia con la Saint-Aubin, svisata, raccontata in mille modi diversi; la simpatia che la marchesa poi sembrava realmente aver sentito per lui, l’avevano d’un tratto messo di moda, e subito dall’esser nulla, divenne l’eroe del quarto d’ora. Sotto la Pompadour questo non era insolito. La sua figura triste che lo aveva sul principio quasi reso antipatico e che aveva impedito alla naturale bellezza di fare il suo effetto, dopo la specie d’intrigo con la marchesa era diventata un vezzo, e il suo pallore malaticcio che non poteva piacere senza motivo a’ tempi di Richelieu, ora che se ne sapeva il perchè e che dava luogo ai pettegolezzi, lo rendeva interessante, come se fosse vissuto a’ tempi di Goethe e di Byron.
Larose, il ben noto cameriere della signora di Saint-Aubin, era stato veduto mentre saliva le scale del pittore con una lettera in mano. Dunque egli era l’amante della marchesa.
Povero ragazzo! Era ben lungi dall’esserlo; ma ciò era bastato per metterlo di moda.
Com’era venuto a quel ballo? – Il cavaliere credendo che un po’ di distrazione gli farebbe bene, l’aveva quasi costretto a venire. Verny gli voleva bene; ma dacchè non aveva più la febbre lo credeva in via di guarigione e supponeva che i divertimenti lo guarirebbero anche dai mali morali, tanto più ora che sembrava avviato sulla strada della fortuna. Ma quanto si sbagliava! Armando era veramente ammalato e al ballo di Versailles stava peggio del solito. Benchè semplicemente vestito egli era però talmente bello nel suo pallore, che pochi nelle sale potevano venirgli paragonati.
Venne presentato alla contessa di Grives, la quale lo accolse con una così marcata preferenza da far girare un tantino la testa all’uomo il meno vano della terra. Ella stette con lui assai lungamente, quasi compromettendosi, e furono tante le occhiate, le parole a doppio senso, che Armando ne rimase un po’ sbalordito. Ma ormai ogni forza di volontà, ogni scintilla era spenta in lui, e con la sua solita timidità per di più, non poteva pensare a vendicarsi della scena del ballo.
La festa sontuosa, splendida, durò fino al mattino e le mille fiamme dei candelabri lottarono coi raggi del sole ch’entravano dalle finestre e che subito valsero a far fuggire le signore.
Ma Armando non potè restare. Fu preso da una febbre ardente e dovette andarsene.
La cura del cavaliere era sbagliata completamente; le distrazioni, le emozioni specialmente non potevano che peggiorare il suo stato. – Il medico disse che il caso si faceva gravissimo; la tosse aumentava.
Il cavaliere portò nella dimora dell’artista tutti i conforti che la ricchezza può dare, e fu curato il meglio possibile. Ma l’etisia progrediva.
Intanto, di giorno in giorno, Armando continuava ad essere più in voga. Ricevette venti lettere dalla Champrosé, che non ebbe la pazienza di leggere tutte. Un’altra delle più alla moda lo mandò a invitare ad una delle sue cene intime. La contessa di Grives andava tutti i giorni, nel suo cocchio dorato, a prenderne le notizie. Perfino la marchesa fece lo stesso; anzi chiese di vederlo.
Ma oramai era troppo tardi. Tutto era finito, e dei trionfi che avrebbe potuto avere, dell’amore e perfino della gloria non si curava più. Ora la stessa società che lo aveva disprezzato, lo portava alle stelle, ma che gliene importava? E intanto, essa che lo aveva respinta si occupava ora di quel morente, lassù in quella soffitta, come certo non se ne sarebbe mai occupato se non fossero state le circostanze che influivano sulla moda del momento.
Contro i comandi del medico, egli stava alzato e dipingeva. Il cavaliere lo lasciava fare, pensando ch’era inutile contrariarlo. Il quadro a cui lavorava era quello, coperto misteriosamente di seta verde, che Verny aveva veduto la prima volta che lo aveva trovato.
Era la testa della marchesa di Saint-Aubin ch’egli disegnava di memoria. Nei giorni di vita e di passione l’aveva abbozzata; ed ora, sull’orlo della tomba, quasi staccato dalle cose terrene, gli venne il desiderio di finirla, – unico resto del morto amore, ultimo addio al mondo, che pur lasciava senza rimpianto. Egli si sentiva il bisogno di lavorare indefessamente, ansiosamente, e di finirla.
Si mise al lavoro e terminò prima il disegno che aveva schizzato sulla tela.
Allora avvenne una cosa straordinaria.....
La sua mano non rispondeva più alla mente. Egli era come spinto da una forza superiore, e ciò che la matita segnava non era più quello che suggeriva l’immaginazione. Egli voleva tradurre sulla tela quel profilo fino, aristocratico, capriccioso; quel modello di donna forte, voluttuosa… e invece il suo pennello tracciava una figura aerea, purissima, vergine, più d’angelo che di donna. Voleva segnare quell’ammasso di capelli coperti di cipria, in cui si frammischiavano fiori e gemme, e involontariamente invece sulla tela ondeggiavano delle chiome bionde sciolte, naturali, che cadevano su d’una veste candida e baciavano una guancia bianca, diafana. – La figura che appariva sul quadro era ideale, angelica, bella come un sogno di poeta, con due occhi celesti che ignoravano la terra.
Egli continuava senza quasi accorgersi di ciò che faceva. Era spinto da qualcosa di fatale e una luce serena usciva dal suo sguardo. Una forza invincibile lo costringeva.
Egli dipingeva....
Il cavaliere taceva, guardandolo attonito e addolorato.
E sulla tela la mistica figura, lavoro quasi involontario, rivelazione dall’alto, si staccava a poco a poco dall’ombra del fondo.....
Finalmente l’ultima ora scoccò. Il pennello gli cadde dalla mano. – Fu portato sul letto. Vedendolo, non lo si sarebbe detto un morente, poichè un sorriso passava sulle sue labbra.
Oh quanto era lontano dagli appartamenti della marchesa e dalle sale di Versailles! – Nel suo occhio ingrandito mille visioni passavano. Eran figure di donna, ma figure celesti che non rassomigliavano agli angeli della terra; non erano più i sontuosi abiti di broccato e di raso, nè le alte pettinature incipriate, nè i visini aristocratici e imbellettati, ornati di qualche neo, nè le scarpette a talloni rossi, nè i ventagli miniati; – erano vesti bianche e cadenti, eran pupille azzurre e pure, eran chiome lunghe e finissime, erano sguardi pieni di bontà e d’amore!…
All’estremo istante, la marchesa di Saint-Aubin entrò nella stanza.
– Silenzio! disse il cavaliere. Fermatevi; egli non vi vede più, marchesa.
Infatti, Armando non la vedeva; era ben lontano da lei. Nel suo occhio vi era il raggio supremo.
Egli era assopito. La sua testa stanca posava sui cuscini; la bocca gli si agitava. D’improvviso una luce sembrò passargli sul viso. Si rianimò debolmente e allungò la mano bianca e magra verso il quadro.
– Oh guardate! guardate!.... Si distacca dalla tela e viene verso di me.... disse con un filo di voce arcana. Oh, non vedete? Viene, viene, s’avanza…, mi stende le braccia!.... Oh come è bella!.... E non è una donna, è un angelo!....
Furono le sue ultime parole. La testa ricadde sui cuscini per non sollevarsi più.
In quel momento un prete ch’era stato chiamato in fretta, entrò – troppo tardi.
Il cavaliere uscì con la marchesa. Sulla scala trovarono la Champrosé che voleva per forza vedere Armando. Ma vide Verny che piangeva e non chiese più nulla. La marchesa le passò davanti sdegnosamente ed ella la guardò in traverso.
La marchesa non si potè consolare della morte d’Armando che arrivando a prendere il posto della Grives nel cuore del Re. – Questa volle portare il lutto per il pittore, a grande scandalo di molti.
La storia d’Armando fece una tale impressione che se ne parlò per quindici giorni. Ora non può accadere che si arrivi a parlare sì lungamente d’un avvenimento qualunque; ma in quei tempi rococó anche questo era possibile. UNA SCOMMESSA
Ecco cosa seppe dirmi il mio amico a proposito del conte Sotowski, la cui insolita tristezza eccitava tanto la mia curiosità:
Io lo conosco da molti anni ed avendolo sempre trovato divertente, allegro, brillante, fui stupito quanto te e gli altri del mutamento ch’ebbe luogo in lui. La cosa era infatti incomprensibile. Come sai, egli è favolosamente ricco, affatto indipendente, di figura aggradevole, di carattere lieto, ed in ogni cosa fortunatissimo; non fu mai conosciuto come una di quelle teste balzane che sanno crearsi dei fantasmi con la loro propria immaginazione; è continuamente accarezzato da tutti, ha una quantità di amici che farebbero qualunque cosa per lui. Come spiegare dunque che prima fosse vivace, sereno, scintillante, per così dire, e che d’improvviso, senza alcun motivo palese o presumibile siasi dato in preda a una cupa mestizia?
Era qualche mese che io non lo vedevo, quando, incontrandolo a Nizza, mi accorsi della sua insolita malinconia. Non gliene chiesi il motivo, sapendo ciò affatto inutile, essendo egli uno di quelli che parlano solo quando vogliono parlare. Ma non potevo a meno di pensarvi sovente e mi torturava il cervello per giungere a scoprire qualcosa. Tu che conosci quanto m’interessino gli studi psicologici potrai facilmente fartene una idea. Naturalmente il primo pensiero che mi venne fu ch’egli soffrisse per qualche segreta passione. Quale altro motivo poteva infatti far cadere nella malinconia un uomo di così allegro carattere e sì fattamente ricolmo di tutti i beni della fortuna, se non l’eterna sorgente delle lagrime di quaggiù – l’amore? – L’idea di un delitto, di un rimorso, non si poteva ammettere per cento ragioni. E però la mia fantasia volava nei campi del possibile ed ogni giorno mi sorgeva dinanzi agli occhi una nuova imagine di eroina pel mio romanzo. Talvolta supponeva ch’egli avesse amato una fanciulla che, uccisa da lento malore, fosse morta nelle sue braccia; tal altra che fosse stato tradito da una donna seducente, fatale.
Quanto mi sbagliava! – Una sera ch’eravamo insieme, lontano dal passeggio elegante, dalla parte del ponte del Varo, e ch’egli pareva ancor più preoccupato del solito, mi raccontò d’improvviso il motivo della sua tristezza, senza che io glielo chiedessi e quando meno me l’aspettava. Non vi era anima vivente per un lungo tratto di strada; il sole si apparecchiava a discendere nel mare, coprendo d’oro e di porpora la limpidezza del cielo, l’aria cominciava ad essere un po’ meno soffocante di quel ch’era stata durante il giorno, e le parole del conte risonavano stranamente in mezzo a quella solitudine e nel silenzio della natura che stava per assopirsi:
– Bisogna che lo confessi, egli disse, e d’altronde ho subito veduto che ve ne siete accorto, una tristezza insormontabile mi penetra spesso da qualche tempo e non posso scacciarla. Capisco che quelli che lo vedono, conoscendomi da un pezzo, devono rimanerne molto stupiti; la fortuna mi ha colmato de’ suoi doni, e sono per di più dotato d’un carattere facile ed allegro. Fui sempre spensierato, vivace, non ebbi mai dispiaceri e non me ne procurai. Le sfortune d’amore mi sono sconosciute.
– Davvero! risposi, io invece, pensando alla vostra malinconia subito ne accusai una passione infelice, non sapendo quale sventura vi avesse potuto colpire.
– Infatti, io non conobbi mio padre e l’unico dolore di cui mi ricordo è quello della perdita di mia madre, ma avevo solo dieci anni e a quell’età non si sente molto e si dimentica facilmente. Dopo d’allora non ebbi mai una sola nube nera sull’orizzonte della mia vita. Tutto mi sorrise sempre; gli uomini e le cose. – Ma un male terribile procurato ad un altro e di cui io fui causa, sorto senza mia precisa colpa, e per un motivo stravagante e futile mi depose un’amarezza nell’anima che, temo assai, lascierà lunga traccia di sè. La è una storia abbastanza strana.
– Raccontatela; non potete immaginare quanto m’interessate.
Egli serbò il silenzio per un momento; come assorto nei suoi pensieri, poi mi domandò:
– Non avete mai udito nominare Arnoldo D.?
– Mi par di sì, risposi. È uno scrittore, se non mi sbaglio.
– Era, dovreste dire.
– È morto? chiesi io.
– No; ma ha finito di scrivere. Egli era un giovane di straordinario ingegno, e che certo non sarà dimenticato da chi ha letto la poche sue cose. Ma per la sua vita poco regolare era antipatico a molti; povero, non fortunato, di una natura vivace e variabile, cercava spesso di affogare le noie nella ubbriachezza o di cercarvi una più pazza inspirazione. Egli era nato per essere ricco e spesso la miseria, spettro nefasto, si avvicinava a lui! Amava le cose belle, le ricche stanze, la luce dei doppieri e delle gemme, i morbidi tappeti, il lusso dell’oriente; avrebbe voluto tutte codeste cose, e invece non le possedeva che nei sogni, procurati dalla fantasia o dal vino. Il suo ingegno non era di quelli che fioriscono dovunque; abbisognava per espandersi di essere circondato dal benessere, dall’opulenza. Perciò quando guadagnava qualcosa, viveva per un mese da principe, poi si chiudeva a lavorare e certo con successo; ma ritrovandosi al verde, cadeva nell’abbattimento, l’ispirazione fuggiva e non era più capace d’altro che di bere per stordirsi. Soleva dire che se avesse avuto cento mila lire di rendita, sarebbe stato il più gran poeta del mondo.
Tutti questi particolari mi vennero narrati in seguito; non ne sapeva nulla quando lo vidi per la prima volta. Parlo di varj anni fa. Dall’Italia io aveva fatta una corsa a Parigi e me ne tornava in Italia. Eravamo sul Cenisio; era notte, ed io dormiva tranquillamente nel mio posto d’angolo del coupé della diligenza. Degli altri due posti uno solo era occupato, quello dell’altro angolo naturalmente, da un uomo che vi stava incantucciato e tutto chiuso in un mantello che lasciava solo vedere gli occhi. Svegliandomi di tratto in tratto, avevo osservato ch’egli non dormiva, ma non mi era stato possibile vedere la sua fisonomia. Al comparire del giorno egli lasciò cadere il mantello, e il primo albore illuminando la sua faccia pallida riconobbi Arnoldo D., al quale non ero mai stato presentato, ma che aveva molte volte incontrato qua e là e dei cui scritti aveva letto qualche cosa. Gli rivolsi la parola pel primo, gli dissi che lo conosceva, e gli declinai il mio nome, ed egli, sebbene fosse un po’ ritroso da principio, presto cominciò a conversare con molta scioltezza e di tratto in tratto con spirito. La sua conversazione era divertente al sommo grado; aveva una maniera di esporre affatto originale e sentii presto per lui una simpatia fortissima, mentre al tempo stesso m’accorgeva di non dispiacergli, poichè ad ogni momento sempre più si animava, si espandeva con maggior famigliarità. Dopo qualche ora eravamo quasi amici. Mi disse i suoi progetti, le sue aspirazioni, le sue noie; mi confessò che non sapeva sopportare la povertà, che per lui era il più grande incaglio allo sviluppo del suo ingegno, mentre per altri era stata talvolta uno sprone a lavorare. Il mio nome non gli era sconosciuto ed egli sapeva quale colossale fortuna io posseggo. Mi disse che se egli ne avesse solo una ventesima parte, scriverebbe un libro che non verrebbe tanto presto dimenticato, e che lo arricchirebbe a sua volta.
Parlammo d’arte lungamente. La stima del suo ingegno che io avevo acquistata leggendo le opere sue, si aumentò ancora e mi persuasi ch’era un giovane che avrebbe potuto arrivare alla gloria, purchè non si abbrutisse nei vizi. Ma questa era pur troppo la strada sulla quale egli s’inoltrava cinicamente. Il suo viso ne portava già le impronte, sebbene i lineamenti fossero assai belli e l’occhio pieno di luce e di pensiero; – e perfino i suoi discorsi se ne risentivano un poco, poichè di tanto in tanto divagava in ogni sorta di puerilità o usciva inutilmente in bestemmie ed imprecazioni. Malgrado ciò, quella giornata fu per me piacevolissima, e quelle ore in diligenza, d’ordinario tanto noiose, passarono invece veloci.