Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 11
Quella triste melodia d’amore aveva echeggiato lungamente tra le vecchie pareti. E quand’ebbe finito, tutta la sala pareva impregnata di quegli accenti....
Al vedere quella musica sul leggìo e quel cembalo ancora aperto, il conte si sentì rabbrividire.
D’un tratto, le sue guancie si coprirono d’un pallore mortale, le gambe gli tremarono, un freddo sepolcrale gli passò per le vene, e dovette appoggiarsi al cembalo – aggrappandosi con le due mani per non cadere.
Una musica lieve lieve si faceva udire. Il cembalo senza che alcuna mano visibile lo toccasse, mandava degli accenti. Era un motivo triste triste; una dolce melodia che pareva il lamento di un cuore gonfio d’amore....
Era la canzone di Weber.
E le note, quelle meste note abituate ad echeggiare in quella stanza, sorgevano, sorgevano con una espressione straziante che non pareva più appartenere a questa vita.
Sul principio la voce fu lieve, un filo di voce, come venisse da lontano, come partisse da sotto terra.
Al padre pareva sorgesse dalla tomba.... e preso da indicibile terrore si tenne con tutta forza al cembalo.
Il suo presentimento si avverava: egli non temeva più le apparizioni, ma sapeva che qualcosa lo attendeva. Ora sentiva un’orribile paura, e non vedeva fantasmi.
La voce sorgeva, sorgeva, e si faceva più forte. Sembrava il fragore della tempesta, sembrava l’irrompere del pianto, sembrava una battaglia del cuore. E le note succedevano una all’altra, chiare, distinte, spiccate, con un accento arcano, come se una mano maestra e divina avesse toccato i tasti.
Le mani del conte si agitavano convulsivamente.
Il suono proseguiva. Il canto prendeva degli accenti inimitabili di musica celeste. Artisticamente, era la più splendida esecuzione che si potesse imaginare.
Era infatti una esecuzione come nessuna mano mortale o voce umana possa mai sperare di rendere. V’era in quelle note una sonorità così strana, in quegli accenti una espressione così divinamente straziante, che certo se avesse dovuto uscire da un petto umano, l’avrebbe infranto. Era di quei canti che fanno morire.
Qualunque creazione d’arte è un tentativo; l’artista non esterna mai tutto quello che lo agita internamente, non esprime mai tutto quello che vorrebbe. Qui invece tutto il pensiero di Weber era forse espresso. Era una nuova edizione del suo canto, riveduta e corretta in cielo. Si sarebbe detto che gli angeli vi avevano messo mano. Pareva in quelle note sentire il fruscio delle loro ali azzurre.....
La canzone continuava forte, intricata come il lottare degli elementi; ma il triste motivo del principio s’udiva sempre – pareva filtrare per entro. Quella voce angelica, che somigliava alla voce d’Ida, s’udiva fra quella divina tempesta di note.
Il conte balbettava parole incoerenti.
Finalmente quella burrasca, ch’era giunta al colmo e pareva il tuono d’una collera celeste, cominciò insensibilmente a scemare.
Si acchetava lentamente, a poco a poco. E il primo motivo, quella dolce melodia d’amore, che si era sempre udita attraverso tutto, ma fiocamente, ora tornava a dominare.
Il conte tremava. Un gelo mortale gli serpeggiava pel corpo. Le sue labbra tentavano di pronunziare una preghiera. Finalmente il motivo fu nuovamente solo, ma questa volta lieve lieve come l’eco di un’altra vita.
Poi, d’improvviso, gli accenti divennero talmente sonori, arcani, che pareva il cembalo dovesse spezzarsi.
Le ultime note erano tremende di dolore. – Erano gli ultimi gridi di un’anima che un male troppo intenso strappa violentemente dalla spoglia mortale.
Il vecchio si sentiva mancare la vita. Il canto continuava – un’agonia di note.
Poi l’ultima vibrò lunga, tetra, triste, sopranaturale, con un accento che una mente umana non può imaginare. Pareva partire dalle viscere della terra e come una freccia volare in cielo. Era il grido supremo, era il grido di chi muore d’amore.
Al conte sembrò riconoscere in quell’accento l’accento d’Ida.
Le sue mani persero a un tratto ogni vitalità e abbandonarono la sbarra del cembalo, a cui si era per tutto il tempo di quella strana agonia tenuto abbrancato; di pallido ch’era si fece subitamente bianco e con un rantolo soffocato, stramazzò per terra.
Quell’ultima nota echeggiava ancora.
CAPRICCIO
I
In quei tempi dorati quando la Pompadour era regina di Francia per grazia degli amori, quando le dame della corte non si mostravano troppo sovente crudeli e s’abbandonavano spensieratamente ai dolci capricci, la bellezza era ancora quasi altrettanto stimata nell’uomo che nella donna. Nei nostri tempi invece, se un giovane ha ricevuto dal cielo una di quelle figure che gli artisti vagheggiano assiduamente, ma ben di rado trovano, molto spesso la sua bellezza non gli serve a nulla. Era ben diverso ai bei tempi della cipria e del velluto, quando Richelieu finì col innalzare vicino al trono la piccola Vaubernier, che divenne la ben nota contessa Dubarry...... Allora non era impossibile che un bel giovane, pel solo fatto di esserlo, divenisse maresciallo di Francia e cugino del re.
Chiunque giungeva ad essere presentato in società (non era facile però), era sicuro di fare una certa impressione al primo apparire, anche se figlio di un ciabattino, purchè avesse una figura elegante ed un portamento svelto e distinto. È ciò che accadde ad Armando M., giovane pittore recatosi a Parigi a studiare, quando venne presentato in società dal cavaliere di Verny, famoso mecenate, protettore di tutti gli artisti che sembravano promettere qualche cosa. Ai nostri giorni… non avrebbe forse fatto impressione, e tutt’al più alcuni si sarebbero occupati di lui in ragione del suo merito; allora invece, nessuno domandò che avesse mostrato nè se dava speranze, ma non vi fu una sola dama che non osservasse quel giovane senza nome e senza fortuna, ma idealmente bello. – Nessuno vedendolo l’avrebbe creduto figlio di un falegname, e nato in un villaggio; vi era tanta finezza nei suoi lineamenti, tanta distinzione nella sua fisonomia e nei suoi modi, che per essere gentiluomo non gli sarebbe mancato che d’esserlo, mentre è così sovente il contrario. Di statura media, superbamente fatto, bello nella freschezza dei suoi vent’anni, con due occhi pieni di fuoco, esprimenti una strana potenza d’affetto, come avrebbe potuto passare inosservato? La prima volta che venne condotto ad un ballo fu guardato assai, e molti fra i giovani cavalieri l’avrebbero volentieri mandato a tutti i diavoli. Egli si aggirava tra quella folla dorata, inebriato dal frastuono della musica, dalla luce, dalla ricchezza degli abiti e delle sale, dalla bellezza delle donne. I raggi delle gemme e degli sguardi lo accecavano ad un tempo, i profumi delle signore gli montavano alla testa. La festa era brillantissima, ma a lui tutta quella gioia, cui, per la sua posizione inferiore, non era dato prender parte, non infondeva che un senso insolito di tristezza. Se ne stava in un angolo della sala, confuso da tutto quel rumore, abbagliato da ciò che vedeva, rattristato dall’allegria.
La prima signora cui lo si presentò fu la marchesa di Saint-Aubin, una delle più alla moda, e che il cavaliere di Verny conosceva molto. Tutti ammettevano, anche i più difficili, che la sua riputazione di bellezza non era usurpata.
Il giorno in cui la vide, Armando ne fu colpito. Egli che poco sapeva del mondo, trovandosi d’improvviso davanti a una di quelle donne più che regine, armate dello scettro magico della bellezza, sentì un’ondata di pensieri nuovi che gli empivano la mente e fu come sbalordito da un senso di stupore e di ammirazione. Era turbato alla vista di quella donna così bella, circondata da tanta eleganza e da tanta opulenza. È indubitabile che l’appartamento ricchissimo della marchesa aveva un po’ di parte nella sua ebrezza, e che con l’occhio suo d’artista e d’adolescente sognava a un tempo davanti ai belli occhi della signora, e alle graziose e ricche cesellature dorate delle cornici e della vôlta.
E aveva ben ragione. Erano pur splendide ambedue, la donna e la sala! Questa era addobbata in damasco rosso e argento, la vôlta dipinta nello stile di Boucher, tutta a puttini e festoni e fiori e nuvolette d’azzurro e di rosa e dorature ed arabeschi; i mobili coperti di oggetti d’arte e di lusso, oppure fulgenti d’oro e lucenti di seta. Le poltrone larghe di forma farebbero ora arrestare l’occhio di un conoscitore sulle loro linee graziose, curvate nel buon stile, massiccie e insieme leggiere; allora, coperte di raso, invitavano ad adagiarvisi. Le tende della stessa stoffa della tappezzeria cadevano riccamente in magnifiche pieghe e frammischiavano per terra le loro frangie d’argento alle morbide lane del tappeto. Ah! quel tappeto! – Tutto a fiori e ghirlande di vivacissimi colori, con le tinte così perfette da far bene a un occhio avido d’armonia, e poi così dolce al tatto, così soffice sotto i piedi! Come era possibile non inginocchiarsi sopra un tal tappeto, davanti una donna come la marchesa?
Ella era bella d’incontestabile bellezza. Figuratevi una donna in tutta la maturità dei suoi vezzi, in tutta la pienezza della sua avvenenza, con l’occhio penetrante che dice dei volumi ad ogni sguardo; col corpo che avrebbe potuto servire da modello ad uno scultore, se non fosse stato un po’ troppo maestoso, coi lineamenti ben disegnati, sebbene capricciosi; con delle mani bianche, eminentemente patrizie, che non sembravano esser state create che per essere baciate.
La prima volta che Armando la vide ella era seduta vicino al fuoco vivissimo che fiammeggiava nell’ampio camino in marmo venato, di cui ogni ornamento, ogni amorino era un piccolo capolavoro. Guardava molto fissamente, pensando certo a tutt’altro, un fiore del tappeto, mentre una mano giocava con un gioiello, che le pendeva dal collo, e l’altra faceva girare macchinalmente tra le dita di neve un piccolo parafuoco chinese. Davanti a lei, in piedi, appoggiato alla seta del camino, stava un gentiluomo ben incipriato ed elegante, di bella figura, che poteva avere un quarantacinque anni, benchè fosse assai ben conservato.
Non sapeva il perchè, ma al primo vederlo, Armando lo trovò poco simpatico. La loro conversazione fu subito troncata; e poco dopo il signore partì, lasciando Armando solo con la marchesa.
Solo con lei!… Mille pensieri si aggiravano in quell’istante nella sua mente. Egli pensava, guardando le pareti di quella sala così sontuosa, quanto avrebbero potuto raccontare se avessero avuto la favella. Quante protestazioni d’amore avranno udito, quante bugie dorate, quanta eloquenza sprecata, quanti baci derubati o permessi! – E poi innalzava alla marchesa uno sguardo timido e fuggevole e un’immensa amarezza gli riempiva il cuore. Oh! quanto avrebbe bramato allora essere un giovane ricolmo di tutti i beni della fortuna, coperto di tutti gli orgogli, come tanti ve n’erano che lo meritavano meno di lui, per poter con la testa alta, il sorriso sulle labbra, l’occhio illuminato dalla speranza, tentare la sua sorte ai piedi della dea! E così?..... S’egli, il giovane tollerato solamente in quella superba società, il povero pittore, volesse ora arrischiare una di quelle parole di cui mille gli salivano dal cuore, come verrebbe accolta? – Gli pareva, pensandovi, di udire già quello scoppio di risa femminile, che insultante, sottile, chiaro e vibrato come lo zampillare d’una fontana, avrebbe tagliato a mezzo la sua timida dichiarazione.
La marchesa fu la prima a rompere il silenzio un po’ imbarazzato ch’aveva seguito la partenza dell’elegante visitatore; e il colloquio cominciò e finì, essendo durato una mezz’ora nella quale fu detto nulla.
Armando viveva una vita abitualmente ritirata, coi suoi compagni, tutto assorto nei lavori cui si dedicava con passione; – pure di tanto in tanto rivide la marchesa, e il pensiero di quella donna così seducente s’impadronì di giorno in giorno maggiormente di lui.
Il cavaliere l’introdusse ancor più in società, e presto molte altre sale dorate socchiusero un battente delle loro porte per lasciarlo passare. – Oltre i palazzi, anche le petites maisons gli furono aperte. Ma nessuna di tante distrazioni valse a scemare di molto l’impressione che aveva fatto su di lui la bellezza della signora di Saint-Aubin.
Ciò ch’egli sentiva egualmente dovunque e che lo rattristava di più era la posizione subalterna in cui si trovava in faccia ai gentiluomini che lo circondavano. Anche nella più facile società delle belle impure (come dicevasi allora) egli sentiva sempre l’inferiorità di chi si trova in una società che non è la sua e dov’è accettato per grazia. Infatti nei gabinetti delle ballerine e delle donne galanti si ritrovavano gli stessi profumati ed orgogliosi signori che si vedevano a corte.
Nè sì grande era la differenza tra gli appartamenti. Boucher e Watteau avevano con eguale cura coperte dei loro elegantissimi dipinti tanto le sale della marchesa di Saint-Aubin, quanto il gabinetto della Champrosé, una delle più belle di quel reggimento di belle fanciulle ch’era il corpo di ballo ai tempi della Camargo. Le dorature della vôlta erano altrettanto finamente scolpite in un luogo che nell’altro, e non mancavano nemmeno gli stemmi, poichè dalla Champrosé vedevasi quello del conte di Pois, il suo amante del momento. Qui si radunava tutto il demi-monde d’allora, e sebbene anche in questo genere di società, Armando fosse assai bene accolto, ciò non impediva che quando rientrava nel silenzio della sua stanzuccia sentisse molte volte una profonda malinconia scendergli nell’anima, e tanto la cagionavano le belle ragazze dal cuore facile che aveva veduto dalla Champrosé, quanto le dame della corte.
L’inferiorità della sua condizione e un po’ la sua timidezza gli ponevano sulla fronte l’impronta di una serietà precoce. Se la fortuna gli avesse rivolto francamente il suo sorriso da sirena, e presolo per mano lo avesse condotto nella strada della vita per sentieri cosparsi di fiori, quella nube che gli oscurava il viso si sarebbe dissipata e la sua naturale bellezza avrebbe fatto il suo effetto. Ma il secolo della Chateauroux e della Pompadour non era certo adatto ai Werther, e Armando avrebbe abbisognato di uno sguardo più animato, di un sorriso più vivace per far breccia nei cuori.
E intanto egli aveva la mente piena d’imagini e di pensieri che la mano fremeva di porre in esecuzione; e ciò che più è, il cuore giovane e bramoso di passione. – Orfano, raccolto dal cavaliere a cui lo legavano solo i vincoli della riconoscenza, non aveva un affetto sulla terra. – E non amato da alcuna, poco considerato da tutti, fiero malgrado la sua povertà, orgoglioso del suo ingegno, vivendo tra le più belle donne che sia possibile ideare, era inevitabilmente infelice.... Lo sapevano esse che facevano battere il cuore, turbavano la mente, accendevano l’imaginazione tanto all’oscuro pittore quanto al più dorato e ricamato dei gentiluomini? Lo sapevano esse che si può voler amare senza chiamarsi nè Rohan nè Montmorency? Quando si trovava solo e che si sentiva la mente assediata da idee e da sogni, pensava con forzata umiltà quanto fosse inutile per lui il suo ingegno. Guardandosi nello specchio fantasticava, e poi pensava quanto gli fosse vana la sua bellezza.
– Che diavolo avete, mio caro? gli chiese un giorno il cavaliere, andiamo, scuotete codesta malinconia. Eh! per Bacco, chi direbbe che alla vostra età si possa avere un aspetto così triste! Cosa avete? – Siete innamorato? – Male, amico. Gli artisti non dovrebbero mai essere innamorati, altrimenti, addio! non fanno più nulla. Intanto per distrarvi, questa sera verrete con me dalla marchesa, dove siete invitato. È un mese che non vi si vede più in nessun posto. Se fate così sarete ben presto dimenticato, e allora i vostri quadri?.....
Armando andò al ballo. La marchesa era bella più del solito. Magnificamente vestita, se ne stava accogliendo i suoi invitati con le ampie riverenze all’indietro le più aristocratiche, e con un sorriso stereotipato che lasciava vedere una fila di dentini fatti apposta per mordere il pomo d’Eva. Portava un abito di broccato rosa laminato d’argento, aperto davanti, che lasciava vedere un sott’abito di broccato bianco; le sue spalle nude folgoreggiavano di diamanti e di smeraldi. Aveva un’altissima acconciatura di testa sapientemente architettata, dove al bianco della cipria si frammischiavano rose e brillanti, che torreggiava insolentemente sulla sua piccola fronte di alabastro; e si faceva vento con un tenue ventaglio, vero gioiello d’oro e di madreperla, pazientemente miniato e guarnito di finissime e lunghe piume di cigno. Un neo vicino alla fossetta del mento dava al suo visino un nuovo brio.
Vi era nel suo sguardo qualcosa d’ancor più trionfante del solito: ogni suo più piccolo moto aveva un segno di conquista. Rispose quel che doveva al profondo saluto d’Armando, dopo di che, essendo egli penetrato tra la folla nella sala dove si ballava, non la vide più per qualche tempo.
Anche questa volta egli era mesto per la gioia sontuosa che gli si aggirava d’intorno, e non avendo, nelle piccole commedie che si recitavano davanti a lui, che un posto di spettatore, e di spettatore che non poteva sempre intendere, non si divertiva troppo e sentiva il bisogno di starsene in qualche angolo appartato dove potesse meditare e sognare senza che il suo aspetto pensieroso avesse a dar troppo nell’occhio.
In fondo alla lunga serie di sale, una più risplendente dell’altra, che formava l’appartamento della marchesa, di cui la sala da ballo era il centro, si trovava un gabinetto quasi sempre deserto. Era un piccolo ma elegantissimo ritiro. Tutto coperto di lampas celeste, con la vôlta carica di dorature, era lievemente illuminato da una lampada d’argento di vezzosissimo disegno, chiusa da vetri smerigliati e appesa ad un cordone di seta, che spandeva una luce misteriosa e leggiera, invogliante alla calma; e rischiarando blandamente i muri celesti del gabinetto, invitava al riposo e insieme alla voluttà.
Se ne stava lì già da quasi mezz’ora, immerso nei suoi soliti pensieri. Egli fuggiva l’incanto di quegli sguardi eloquenti, di quei diamanti e di quelle perle, di quegli òmeri nudi e di quelle chiome fantastiche. Un enorme specchio, con una massiccia cornice di stile barocco, in cui le foglie e i fiori degli ornati racchiudevano alla lor volta mille specchietti faccettati che luccicavano come gemme, era davanti a lui ed egli vi si poteva ammirare da capo a piedi. Non poteva esser malcontento dall’esame della sua persona. Al tempo stesso sentivasi una potenza d’amore che abbisognava di espandersi, e nella sua mente tanti pensieri si affollavano da non dubitare che se avesse potuto parlare francamente a una di quelle donne che vedeva a pochi passi da sè, sarebbe stato di una facondia ben persuasiva e trascinante. Dall’uscio aperto egli ne scorgeva una, la contessa di Grives, che in quel momento si diceva avesse avuto l’onore di essere osservata dal re, e che se ne stava conversando con un signore vestito del color dell’ambra. Quanto era bella!… Di un’avvenenza affatto diversa da quella della Saint-Aubin, non era per questo meno seducente. Alta di statura, sottile d’asta, il suo busto si allargava come il calice di un fiore dallo stelo, mostrando le più bianche spalle, che siano mai state create; il profilo del suo viso era purissimo e i suoi grandi occhi celesti avevano un’espressione calma ed ingenua che contrastava con la sensualità della sua bocca purpurea. Armando la guardava fissamente, ma che poteva egli pretendere? D’improvviso la bella visione scomparve. – Porgendo la mano al suo cavaliere, la contessa se n’era ritornata nella sala da ballo, ed egli si trovò di nuovo completamente solo ed avvolto nelle sue fantasticherie; quando inaspettatamente un lieve fruscìo di gonna dietro a lui gli fece voltare rapidamente il capo. Nella penombra formata da una portiera di seta che, chiusa, non si vedeva, stava la padrona di casa, bellissima e sorridente al solito di quel sorriso dolce ed ironico a un tempo che tanto turbava il nostro eroe. Ell’era stata nelle sue stanze ed ora passava a caso per quel gabinetto solitario, dove non si aspettava di trovare Armando. Questi, commosso, arrossì fino agli occhi, si alzò in fretta e balbettò qualche parola incoerente.
– Ah, ah, tutto solo, signor pittore! esclamò la marchesa. Ma che fate mai qui?
Proseguì fingendo di non accorgersi del suo imbarazzo:
– State studiando ciò che Watteau ha dipinto qui così capricciosamente (accennando col suo ditino di fata), o vi staccate dalla folla solo poeticamente per sognare ai belli occhi della fanciulla del vostro cuore?....
Era la prima volta che la marchesa gli parlava su questo tono. I discorsi che avevano tenuti fino allora, anche nelle rarissime volte che si erano trovati soli, erano sempre stati dei più frivoli e cerimoniosi. Perchè ora gli parlava così, certo ella non se non lo sarebbe saputo spiegare nemmeno a sè stessa. Armando si sentì stranamente turbato, benchè vi fosse nella sua maniera una punta d’ironia maligna che non sapeva capire. Non se l’era mai detto, ma oramai il suo cuore palpitava per la marchesa come non aveva mai palpitato. Il turbamento che qualunque delle belle donne ch’egli vedeva cagionavagli, non era da confrontarsi con l’estasi in cui la contemplazione della marchesa lo immergeva. Le altre gl’infiammavano l’immaginazione, questa il cuore; era invidioso dei giovani che avvicinavano la contessa di Grives o la Champrosé, di chi corteggiava la marchesa era geloso. Inoltre, quella sera ell’era diversa dal solito. Le sue guancie erano tinte di un roseo più vivace, i suoi occhi scintillavano più micidiali del solito; vi era in ogni sua parola, in ogni suo movimento una straordinaria animazione; e nella lentezza regale dell’incedere qualcosa di più trionfante che mai.
Armando in quel punto era fuori di sè, e con voce tremante rispose:
– No, signora marchesa, non mi è permesso sognare. Non mi è lecito nemmeno di pensare a quella a cui darei la vita.
Appena pronunciate queste parole, che gli sgorgarono quasi involontariamente, il rossore della confusione gli montò al viso.
La marchesa, con quell’istinto di donna che non sbaglia mai in simili casi, comprese tutto e un sorriso satirico passò sulle sue labbra rosee. – Volle spingerlo fino in fondo, e rispose con una intonazione dolcissima:
– Davvero? Ve ne compiango. Ma perchè siete tanto persuaso della crudeltà femminile? Con la vostra figura...... col vostro ingegno.... potete aspirare a molto.... e uno sguardo inebriante seguì queste parole.
Armando sentì tutto il sangue che gli rifluiva al cuore.
– Fatemi le vostre confidenze, proseguì la marchesa con un’espressione indescrivibile e uno sguardo da sirena. Chi è la bella?
Armando volle rispondere qualcosa, ma le parole non gli venivano. Aveva la testa sconvolta. Afferrò febbrilmente la mano della marchesa e la coperse di baci ardenti.
Ella, cui non si osava che baciare rispettosamente la cima delle dita, non se ne offese, ma continuò pacata e sempre con una strana espressione:
– Questa non è una risposta. Ditemi chi è questa bella che v’innamora tanto, invece di baciar le mani a me, soggiunse ridendo affatto. E non osate nemmeno pensare a lei? Ma chi è mai dunque? forse la contessa di Grives?
Al povero pittore pareva che il gabinetto girasse innanzi agli occhi. Fu preso da una specie di vertigine e dimenticò tutto. Dimenticò di esser povero, di essere un oscuro artista, non si ricordò più la distanza che lo separava dalla donna che gli stava davanti; svanirono tutti i suoi proponimenti di morire piuttosto che svelare il suo segreto, tutte le sue paure del ridicolo non le comprese più, tutte le sue fierezze scomparvero.
Egli cadde ai piedi della marchesa.
– Siete voi!..... gridò con esaltazione, siete voi che amo, voi per cui darei tutto, voi che mi avete turbato il cuore, la mente; voi cui appartengo dal primo giorno che vi vidi, voi che siete bella, che siete splendida, voi che d’un uomo potete fare un dio! oh abbiate pietà poichè vi amo!...... Non mi respingete, siate buona quanto siete bella. Vedete, non sono pazzo, ma se tacevo ancora, lo diventavo. E avrei taciuto sempre se nei vostri occhi divini, sfavillanti, non mi fosse sembrato scorgere un po’ di perdono. Ma voi m’avete parlato, m’avete perdonato, m’avete.....
Uno scoppio di risa il più franco, il più schietto, fu la risposta. – Intanto molte signore e gentiluomini, attirati dal rumore, si erano avvicinati. Tra questi vi era il signore color d’ambra che prima parlava con la contessa di Grives. Era Richelieu.
– Venite, signori, venite, disse la marchesa, alzando la voce allegramente, qui c’è la commedia a buon mercato. Il signor..... come si chiama?.... sapete, il pittore..... che mi fa una dichiarazione. Ma non faccio per celia; una vera dichiarazione in tutta forma!
Tutti si avanzarono guardando Armando. I più vicini si misero a ridere con quell’insolenza che allora era di moda.
Egli cadde su una sedia, coprendosi la faccia con le mani.....
La marchesa, data la mano a Richelieu, rientrò nelle sale sorridente come prima.
– Oh, oh? è innamorato di voi il protetto di Verny, disse il duca, e glielo permettete?
– No, duca, ella rispose, è stata un’idea pazza che mi è passata per il capo. Mi sono divertita un poco a sue spese. Sapete, noi altre donne ci divertiamo talvolta a far delle vittime.
– Eh, lo so pur troppo!..... replicò Richelieu con un sospiro.
– Voi non avete poi diritto a lamentarvi. Avete preso la nostra parte, soggiunse la marchesa, lanciando un’occhiata che diceva molto.
– Non mi lamento, disse il duca, baciandole la mano!.... E a proposito di vittime, cosa avete fatto di Breteuil? Temo che ve ne ricordiate ancora.
– Avevo dimenticato la sua esistenza. Oh, ma eccolo là su quell’uscio. Guardate come ha l’aspetto triste.
Se Armando fosse stato lì, avrebbe riconosciuto in Breteuil il signore che aveva veduto dalla marchesa nella sua prima visita.
– Non ho dunque più rivali… continuò Richelieu.
– Nessuno, duca. Uno forse. Quel pittore che porta, credo, il vostro nome.
– Ma se l’avete maltrattato?
– Non importa!
– Dunque, marchesa, vi piace?
– Oh, alla follia! replicò la Saint-Aubin, ridendo come una pazza.
Lo diceva ironicamente, ma chi sa? – forse non del tutto.