Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 16
LA VILLA D’OSTELLIO
I
Le abitazioni d’ogni specie, palazzi, case, castelli, tutte hanno le loro vicende, la loro storia, come gl’individui ed i popoli. Attraversano fasi di prosperità, di splendore, di decadenza e di rovina. Talora sembrano felici, talora invece portano impresso dovunque il segno della desolazione. La fortuna delle dimore segue la fortuna degli abitanti. E, dall’inevitabile azione del tempo, dall’abbandono derivano le più disparate conseguenze. Talvolta il decadimento conduce alla miseria la più squallida, tal altra mirabilmente abbellisce, e agli stupendi edifici rôsi dagli anni aggiunge una novella e diversa poesia; mentre ad alcune costruzioni, scevre d’intendimento artistico, dona un incanto che non ebbero mai. Se in qualche via deserta, mal selciata d’una città di provincia, vedete ad un tratto sorgere al vostro fianco uno di que’ magnifici palazzi di stile barocco, che conservano ancora un pallido riflesso della sontuosità passata, con i suoi pesanti ornamenti spezzati qua e là, con le ricche inferriate arrugginite, con le malerbe ch’escono d’in tra le pietre e l’umido muschio che oblitera lo stemma del portone, avete di certo pensato, che nei lieti giorni della dovizia e della maestà non aveva quella bellezza vetusta che ora più d’ogni altra vi attrae e vi fa sostare. Ma se invece vi si presenta allo sguardo la elegante ed odiosa «casa di campagna» del negoziante di candele arricchito, tutta nuova e luccicante, dipinta a ghirigori giallognoli e rosa, con le persiane turchine, preceduta dal giardino «ben tenuto,» con la piccola barca ch’entra nella piccola grotta a lato del piccolo lago artificiale, non vi passerà mai per la mente che fra un secolo un poeta potrà forse fermarsi dinanzi a quel cancello e restare assorto davanti allo stupendo disordine che la natura, ritornata padrona di quell’angolo, vi avrà fatto, sostituendo alla cattiva prosa architettonica del droghiere defunto, la sua instancabile e feconda improvvisazione.
La villa di cui raccontiamo la storia, ch’è quasi una leggenda, era situata in un punto che non vogliamo troppo determinare, non lontano da Tivoli; e mentre era stata altre volte sontuosissima e splendidamente abitata, lasciata ora quasi nell’abbandono e dimora soltanto d’un vecchio domestico, aveva precisamente subìto una di codeste trasformazioni. Anticamente i principi d’Ostellio che n’erano padroni, vi conducevano la splendida vita delle villeggiature romane e vi tenevano, come suol dirsi, casa aperta; ma ora da due generazioni avevano smesso d’andarvi. Il penultimo proprietario aveva sempre vissuto fuori d’Italia, scorrendo l’Europa per missioni diplomatiche ed era morto lontano e dimentico affatto della sua villa, che già aveva molto perduto dell’antico splendore. L’ultimo poi e presente padrone, era un giovane elegante che preferiva assai le vie delle capitali e si curava della villa ancora meno del padre.
Pietro, il vecchio servitore lasciatovi alla custodia, vi abitava solo, e col lungo starvi aveva finito a far quasi parte della villa egli stesso. In quella solitudine era divenuto taciturno, scambiando solo qualche parola con i guardaboschi ed i contadini. Adorava i suoi padroni e tutti quelli che avevano con essi relazione, e forse più ancora adorava quella casa, cui gli doleva di vedere così abbandonata, quella casa dove aveva passata quasi tutta la sua lunga e monotona esistenza e dove avrebbe certo finito i suoi giorni. Ogni mattina, appena alzato spolverava le vaste sale, come se da un momento all’altro aspettasse l’arrivo di qualcuno, poi girava pel giardino e per il parco, – cercando in tutti i modi di riparare alla incuria dei signori, e circondando quel palazzo tutto suo di cure quasi paterne. Vedendolo aggirarsi per i vastissimi appartamenti, a passo un po’ incerto ma svelto ancora, con la testa china, incuteva il rispetto dovuto al vecchio ed al solitario; sulla fronte, nello sguardo, nell’atteggiamento, in tutta la sua persona, si scorgeva l’impronta lasciata sull’uomo da una sola idea, e la purezza di coscienza che deriva dalla tranquillità e dalla rassegnazione; e insieme si vedeva che fuori di quella villa e dei suoi padroni nulla esisteva per lui; la sua dimora e le sue affezioni erano parimente ristrette e vaste.
Non tutti immaginano i curiosi effetti che talvolta derivano da una vita come quella del vecchio Pietro. La solitudine, le poche e semplici idee, che possono diventare idee fisse, hanno senza dubbio una influenza sul cervello. A forza di star solo, con i soliti pensieri in testa e gli antichi affetti rinchiusi in cuore, quel vecchio s’era fatto strano. Era diventato sordo, ed aveva preso l’abitudine di soliloquizzare ad alta voce. Quando discorreva con alcuno, parlava brevemente ed a sentenze. Ripeteva spesso le medesime cose, mostrando una grande tenacità di pensiero. Parlava abitualmente del giovane padrone che doveva arrivare, dello splendore che doveva nuovamente rifulgere sulla villa; scordandosi degli anni trascorsi senza che cotesta sua speranza si fosse avverata. Il principe era venuto soltanto qualche rara volta, con lieta e numerosa brigata; e benchè Pietro fosse allora stato scandalizzato da ciò che aveva visto e udito, pure era stato ben contento di quella breve visita; ne aveva lungamente parlato e aveva in cuor suo sperato che si ripetesse. Altra volta erano venuti gli amici senza di lui, il che, sebbene non gli avesse dato un gran piacere, tuttavia era stato per lui un avvenimento. Ma, da molto tempo, non s’erano più ripetute nemmeno queste brevi apparizioni; e quantunque sapesse il principe lontano lontano, pure non cessava mai dallo sperare. Ogni mattina, seriamente, tranquillamente, parlando con sè, scuotendo il capo, metteva ogni cosa in bell’ordine. Stava talvolta assorto in pensieri, guardando la sua imagine riflessa nei grandi specchi. Era nello stato d’animo di chi aspetta sempre. Se il principe fosse entrato d’improvviso, egli ne sarebbe stato lietissimo, ma non certo stupito. Desinava in un’ampia stanza, attigua alla cucina, a lato d’un alto camino in marmo bigio, dove d’inverno ardevano dei tronchi d’albero quasi interi, in compagnia d’una vecchia donna di casa, più sorda di lui, e d’un grosso cane nero, fedele e intelligente, che da lunghi anni divideva con loro il pasto e prendeva quasi una parte eguale nella conversazione.
Nell’inverno, la villa era triste e oscura, il giardino desolato; e nel vasto parco non si scorgevano che gli scheletri degli alberi sul suolo indurito. Passeggiando per quei viali affatto spogli, con a lato i cespugli regolarmente tagliati in forme ornamentali, scorgendo qua e là tra i rami secchi le statue condannate alla nudità, quali bizzarramente mutilate, quali mal sostenute dai piedestalli infraciditi, vi sentivate un freddo penetrare nell’anima, derivante sopratutto dall’effetto del malinconico spettacolo. Il palazzo, superbo edificio nello stile del Rinascimento, con due grandi ali sporgenti, tutto a ornati e ricche lesene pittoricamente guaste, con davanti un vasto terrazzo che dava adito alle sale, a cui si saliva per cinque gradini larghissimi, vi rattristava esso pure; e più ancora se penetravate nelle vaste sale deserte, in cui nulla s’udiva tranne l’eco de’ vostri passi e non si vedeva alcuno se non i personaggi silenziosi degli affreschi impalliditi e dei logori arazzi.
Ma di primavera, allo spuntare del primo fiorellino, tutto cambiava. Più che altrove era incantevole in quella villa abbandonata il risvegliarsi delle cose. Uno dopo l’altro tutti gli uccelli del bosco cominciavano il loro canto, e tutto un concento di trilli riempiva i lunghi viali. V’era qualcosa di tumultuoso nella rapidità con cui le piante verdeggiavano e i prati si smaltavano di fiori. Nessun giardiniere era pronto a correggere la intemperanza della natura. I folti cespugli erano pieni di rose, e le nuove frondi uscivano in disordine attraverso alle forme architettoniche a dispetto d’ogni simmetria. I ramoscelli sboccianti s’attortigliavano pazzamente intorno alle statue, e le dee di marmo sembravano sorridere nel vedersi abbracciate da quelle piante parassite; delle frondi novelle uscivano quasi d’improvviso dai tempii di verdura e in uno slancio inconsapevole prendevano d’assalto le Veneri di granito. Dovunque spiccavano le viole.
Dalla prima giornata di primavera quel parco si sarebbe potuto paragonare ad una sinfonia, che cominciando lieta e leggera andasse a poco a poco allargandosi in un magnifico crescendo – per giungere finalmente alla pace profonda, fresca, indescrivibile dell’estate.
Allora, alla garrula contentezza del principio, allo scoppio di allegria, succedeva una gioia intensa, rattenuta. Gli augelletti si nascondevano nei folti inaccessibili e cantavano sommessi. I verdi si facevano più oscuri, ed erano tanto fronzuti gli alberi, che internandosi per i sentieri tranquilli, in alcuni punti sembravano neri. Le cascate trasparenti e bianche scendevano con monotona armonia le scalinate di pietra annerita e verdeggiante. Una frescura di cui è impossibile farsi un’idea, regnava in quei siti. I raggi del sole non potevano farsi strada. V’era un’ombra impenetrabile deliziosa, non scevra di mistero. In alcuni punti non si sapeva più dove s’era, tanto apparivano profondamente freschi, umidi, solitari, lontanissimi dal resto del mondo. Uno di questi punti era a fianco dell’ala sinistra del palazzo. V’era un circolo irregolare di alte piante le cui cime frondose intercettavano i raggi, e non lasciavano scorgere che ad angustissimi spicchi l’azzurro del cielo. Alcuni rami si spingevano sul palazzo, coprivano gli stipiti a ghirlande, e pareva volessero entrare per l’ampie finestre del primo piano. Più sotto, foltissimi boschetti col loro cupo verde formavano un asilo quasi inaccessibile. In mezzo v’era un piccolo lago naturale, di forma elittica, irregolare; l’acqua n’era nettissima, ma non limpida. Specchiandosi pareva di guardarsi in un vetro opaco. Alcune piante acquatiche dalle larghissime foglie pallide galleggiavano qua e là. Proprio sull’orlo v’erano delle macchie di fiori candidissimi a pistilli colorati d’una specie assai curiosa. Gli alberi si riunivano al disopra formando una vôlta d’un verde tanto oscuro che in alcuni punti l’acqua era bruna. Qua e là i contorni delle foglie vi si riflettevano distintamente. Il suolo era quasi tutto coperto d’un’erbetta d’un verde smorto, morbidissima. Ivi regnava l’ombra e il silenzio. L’aria era profumata. Ma quel sito non era allegro; sembrava invece pieno d’un gaudio misterioso. Pareva che dovesse uscire da quei cespugli qualche apparizione mitologica; poteva credersi un recesso creato per celare agli occhi mortali gli amori delle dee. V’era una pace ineffabile, completa, amorosa.
II
Correva il mese di giugno. La villa e il giardino erano nel più bel momento. La indicibile calma del meriggio pesava sulla campagna. Il sole batteva a piombo – ma in quelle ombre tranquille, al fresco zampillare delle fontane, sull’erba umida regnava un’atmosfera paradisiaca. Le cascate sembravano aspettare che le ninfe del bosco nella loro olimpica nudità andassero a bagnarsi. Le statue parevano lamentarsi della loro solitudine. Il parco era uno splendore. Tutte le tinte di verde, dal più tenero al più severo, vi si univano. Persino il vecchio Pietro si sentiva ringiovanito da tutta quella festa estiva. Sorrideva da sè guardando dalle finestre aperte quel trionfo della natura. Ciò lo rendeva quasi allegro; più che mai scuoteva la polvere dalle tende di velluto, e toglieva le ragnatele dalle dorature degli spigoli.
Un giorno – bellissimo tra que’ bei giorni – in quell’ora incantevole, in cui il calore comincia a scemare e una lievissima brezza spirando commove l’erba ed i fiori, il vecchio domestico se ne stava tranquillamente seduto sulla terrazza dell’ala destra, quando a un tratto si scosse, spalancò gli occhi e guardò fissamente verso un punto del viale, che con una vasta curva conduceva fino alla porta d’ingresso.
Era una vista insolita. Su quel viale, a una ventina di passi di distanza, s’avanzava lentamente una fulgida coppia, un giovanetto e una fanciulla, stretti l’uno all’altro – come evocati dalla immaginazione d’un poeta. Egli era alto snello, simile a un paggio; ella era bionda, sontuosamente vestita da sposa, tutta in bianco, idealmente bella.
Sembravano un’apparizione.
Pietro, benchè non dovesse essere facilmente stupito da nessun arrivo, pure non osava credere ai propri occhi e temeva d’esser in preda a un’allucinazione: pure s’alzò e mosse incontro ai due che venivano; e più s’avvicinava, più s’accorgeva della realtà della loro presenza. Ma, allo stesso tempo, osservò su quei due visi giovanili l’espressione d’un mal celato turbamento che lottava con la balda contentezza dei loro sguardi amorosi. Procedevano lenti ed incerti, e quando videro il vecchio che veniva loro incontro, si soffermarono; ma poi, fattosi animo, ripresero il loro cammino.
Egli era tanto elegante della persona, che perfino il brutto costume allora di moda (era sul principio del secolo) non gli stava male. Sul suo corpo di sculturale bellezza qualunque vestito sarebbe sembrato un anacronismo. Era alto, e la svelta ma virile prestanza della sua figura contrastava col viso delicato e troppo bello, da cui non era ancor sparita la rosea freschezza dell’infanzia. Aveva l’occhio grande, pieno di vita e di languore insieme, i capelli bruni e ricciuti che gli lambivano il collo bianchissimo, il suo costume era scuro, stretto al corpo; portava stivali e un piccolo mantello che gli s’attortigliava intorno e gli cadeva sul braccio sinistro. Al destro s’appoggiava con un indicibile abbandono la bellissima compagna; i cui capelli che parevano oro in fusione, e gli occhi color di cielo, contrastavano con quelli di lui, mentre s’accordava l’espressione, identica su quei due visi diversi.
Ella pure era in quella età quando appena sboccia dalla fanciulla la donna. V’era nel suo incedere e nella ricchezza del suo abito da fidanzata qualche cosa di principesco. Eppure nulla potevasi immaginare di più blando del suo sorriso, nè di più dolce del suo sguardo; ma quando quella pupilla volgevasi a lui, facevasi ardente.
Pietro potè solo accorgersi della suprema ed adolescente bellezza di quei due, nel primo momento; dopo, rimasto abbagliato e confuso, abbassò gli occhi e stette rispettoso come aspettasse i loro comandi.
Ma essi del pari, come già s’è detto, sembravano imbarazzati. – In quell’istante s’udì un rumore di ruote, e poi si vide una carrozza passare tra gli alberi, allontanarsi; era certo quella che li aveva condotti. Allora il vecchio domestico, timidamente offrì loro i suoi servigi. Parve che a tali detti riprendessero coraggio; si consultarono prima con lo sguardo, poi si dissero qualche parola all’orecchio, e finalmente la fanciulla rivolse a Pietro il suo indescrivibile sorriso; ambedue accennarono di sì col capo e lo seguirono in casa.
III
Qualche tempo dopo, l’aspetto della villa era affatto mutato, quasi scomparsa la tristezza delle vaste sale. – Pietro s’affaccendava sempre più, tutto ringalluzzito; un misterioso sorriso di contentezza illuminavagli il volto, divenuto gioviale. L’atmosfera stessa pareva diversa. Le finestre dell’ala sinistra che guardavano su quel piccolo, freschissimo lago, di cui già s’è parlato, stavano aperte.
Quello era l’appartamento abitato dai due ospiti sconosciuti; situato nella parte più antica della casa, si componeva di una vasta sala, riccamente addobbata, ma con le tappezzerie sdruscite assai; di due altre stanze, una amplissima, l’altra meno, tanto alte che sembrava d’essere in una torre; e di un gabinetto dipinto a fresco, dove il tempo aveva corretto la fantasia molto procace del pittore. Per giungere a questo appartamento bisognava attraversare la fila di salotti che riempivano il corpo di mezzo del palazzo.
La camera, le cui finestre si aprivano sopra quell’oasi deliziosa, di cui s’è detto, non era stata abitata da tempo immemorabile. La vôlta, arrotondata quasi come la cupola d’un tempio, dipinta a colori delicatissimi e coperta di dorature, a fogliami e rabeschi, sarebbe stata abbagliante, se gli anni non avessero tolto il luccichìo degli ornamenti e sbiadite le tinte. Un magnifico drappo di seta celeste ed argento a fiorami, di tinta cangievole ed a riflessi più chiari, copriva le pareti. I mobili bizzarramente scolpiti. Il letto, altissimo, a colonne intagliate, tra le quali cadevano le cortine in pieghe sontuose, occupava quasi tutta una parete. In faccia le due finestre, per le quali la luce penetrava smorzata dalle frondose cime degli alberi. In questa stanza il silenzio pareva maggiore che nelle altre.
Dal momento dell’arrivo dei due fanciulli, tutto era cambiato. Pietro, rimasto sbalordito, sedotto sulle prime, s’era poi come innamorato dei due innamorati. Li serviva come avessero appartenuto alla famiglia dei suoi padroni. Le sue giornate ora erano riempite; la sua vita aveva uno scopo. S’occupava di loro più che poteva; nelle ore di solitudine, o a mensa con la vecchia donna, stava forse più pensieroso che per lo passato, ma si sentiva meno triste. Quali fossero i vari pensieri che passavano in quella sua testa curva, non è certo facile l’indovinare. Senza dubbio, egli doveva, malgrado la contentezza che provava per quel poema vivente venuto ad illuminare la sua monotona esistenza, essere molto imbarazzato se tentava di spiegarsi l’arrivo straordinario di quei due. Ma, lo ripetiamo, non sapremmo proprio dire a che cosa riflettesse, quando se ne stava con la fronte in mano seduto vicino al focolare spento della vasta cucina. Supponeva forse che fossero amici del principe? Una o due volte aveva rispettosamente rivolto al giovine qualche domanda in proposito; ma ottenendo solo risposte assai incerte. Ma non poteva dubitare che quei due sposi (li credeva tali) fossero altissimi personaggi, e che il suo padrone sarebbe stato onorato di ospitare nella sua villa; benchè nel modo ch’erano giunti, nella loro taciturnità e in varie altre cose, vi fosse certo un non so che di strano e molto dell’inesplicabile.
Ma sopratutto egli capiva che li amava. Subito aveva sentito per loro una irresistibile simpatia; il suo vecchio cuore da tanto tempo muto s’era come risvegliato dinanzi a loro, e provava per essi un affetto che di giorno in giorno cresceva.
Agli altri abitanti della villa aveva detto che li conosceva, che dovessero servirli come fossero i padroni. Sulle prime s’era lambiccato il cervello per indovinare chi fossero e donde venissero; ma più voleva loro bene, meno s’occupava di ciò; con l’aumentare dell’affetto scemava in lui la curiosità. Dopo pochi giorni gli sembrò naturalissimo di vederli; e in fine comprese che non avrebbe più potuto vivere senza di loro; non gli passava per la mente che forse un giorno sarebbe giunto in cui avrebbero dovuto partire; li amava intensamente. E allo stesso tempo diminuiva a poco a poco in lui il suo consueto desiderio di rivedere il principe; poichè la fulgente presenza di quei due felici lo distraeva dal suo antico pensiero.
Essi rappresentavano inconsci l’amore nella sua espressione più pura, più divina. Vivevano, ma sembravano al di fuori della vita; si vedeva che ne ignoravano tutto, le lotte, i dolori, le colpe. Più ancora che un sogno fatto reale, erano la incarnazione d’un poema. Dei cento colori ond’è dipinta l’esistenza, essi non ne conoscevano che uno – l’azzurro; dei sentimenti, ignoravano tutto fuorchè l’amore, e di questo non sentivano nè il fuoco che incendia, ne il veleno che rode, ma soltanto l’ambrosia celeste e la immensa luce che rischiara. Essi erano un purissimo romanzo in azione, una poesia; nessun dramma era stato tra di loro. Nel tumultuoso viavai d’una gran città, in quel vortice affaccendato d’interessi, di passioni, di cupidigie, dove il tragico passa rasente al comico, dove s’intralciano il male ed il bene, dove si vive in modo affrettato e febbrile, essi sarebbero stati uno straordinario contrasto, una nota isolata e dolcissima in fragoroso concerto. Nella solitudine invece della villa abbandonata e sontuosa, essi armonizzavano mirabilmente con la natura che li circondava. Quel parco verdeggiante e misterioso era lo scenario richiesto per quel roseo poema.
Si vedevano la mattina, in quell’ora freschissima quando la notturna rugiada tremola ancora sull’erbe e sulle foglie, comparire sul terrazzo; e ogni volta sembravano al Pietro un’apparizione nuova, poichè non sapeva abituarsi a non ammirarli. Di là, passando pei larghi viali dalle curve eleganti, dove, allontanandosi, formavano una stupenda macchietta, s’internavano nel folto del parco, e andavano a perdersi negli ombrosi recessi, dove vedevano l’azzurro del cielo attraverso agli interstizi dei rami, senza altri testimoni che gli abitatori dei nidi, nascosti tra le frondi. E nelle calde ore del meriggio obliavano nella frescura di quei siti segreti, i raggi cocenti del sole che percotevano la casa ed i prati. E quelle ore passavano ineffabili; tutte d’una sola tinta, ma non monotone: rapidissime e lente.
Appena che il vecchio domestico li scorgeva in distanza, il suo sguardo si fissava su di loro, nè più lo distaccava. Più li guardava, più rimaneva estatico; più cresceva in quel suo cuore, da tanto tempo vuoto, l’affetto che subito aveva loro portato, e che diventava ora quasi paterno. Con quanta gioia imbandiva loro la mensa frugale, ma ricca d’apparato, nell’ampio salotto a stucco ed a freschi, dove una volta i suoi padroni tanto allegramente banchettavano! Com’era lieto, quanta serena contentezza gli riempieva l’anima, quando nella luce dorata del crepuscolo, da una finestra, li vedeva in mezzo al prato, illuminati dai raggi purpurei del sole calante! Per la prima volta egli comprendeva tutta la indicibile bellezza di quei tramonti.
Rimanevano là lungamente. Il verde degli alberi passava per tutte le tinte, poi l’ultimo raggio si spegneva, spariva e non rimaneva che la chiara e smorta luce del crepuscolo ad illuminare la scena. In quel fuggevole istante tutto prendeva in quel luogo un aspetto fantastico. Si sarebbe potuto dimenticare d’essere in questo mondo, e quei due, d’una bellezza soprannaturale, aiutavano a far obliare. Ma erano brevi assai quei crepuscoli; ben tosto la luna, già vagamente disegnata nel cielo, spandeva sul parco la sua bianca luce; e la tenebra calava d’improvviso. La forma dei cespugli e i profili delle statue si perdevano nella notte, i contorni si smarrivano, tutto facevasi indistinto, e a gruppi lucenti le stelle s’accendevano nel firmamento.
Allora regnava una pace indescrivibile. V’era qualcosa in quella scena di solenne e di sacro. La vôlta celeste, oscura e sublime, si stendeva immensa, tutta tempestata di stelle, eterna traduzione dell’infinito per le menti umane. Nel parco e dovunque, silenzio profondo. Tutto riposava; solo dei soffi misteriosi correvano qua e là. La natura stessa dormiva; il vasto palazzo quasi non sembrava abitato.
Ma, in un angolo dell’ala sinistra, alle finestre di quella camera che abbiamo descritta, e che guardavano su quel lago (di notte tanto opaco e quasi pauroso), dietro le pesanti cortine pareva che si sarebbe potuto scorgere una luce diffusa, indistinta. Quella luce appariva misteriosa e dolce. Pareva che su quel punto l’azzurro del firmamento fosse più profondo e le stelle fulgenti d’una luce più arcana, e che da quelle boscaglie e da quel lago sorgessero spiriti invisibili ed emanassero ignoti profumi. E quella parte di casa sembrava circondata da un nimbo, quasi fosse un tempio.