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Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 15

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NARCISA

Ella era bella più che sia possibile immaginare. Vedendola si aveva alfine dinnanzi agli occhi il compendio di tutti i sogni, di tutte le aspirazioni; l’ideale più alto e più perfetto. Riuniva tutte le visioni: un poeta nordico, amante delle pallide figure ossianesche, l’avrebbe trovata più completa di ogni sua creazione, e un pagano adoratore della forma l’avrebbe allo stesso tempo dichiarata la più magnifica espressione della donna. A un discepolo di Fidia sarebbe apparsa una bellezza greca; avrebbe innamorato Orazio quanto Byron, Rubens e Raffaello insieme, Gautier al pari di Hugo. Incontrandola, era impossibile non volgersi stupefatti ad ammirarla.

Sarebbe stato assai difficile il volere spiegare fisiologicamente il mistero di tanta bellezza; il tipo de’ suoi genitori era regolare, ma comune, e certo un tal fiore non potevasi aspettare dal granello ch’era stato posto in terra. Fin dai suoi primi giorni aveva qualcosa d’insolito. Quando la madre si era visto davanti quel bianco visino – tutto circondato di trine, con quei due braccini d’alabastro che uscivano dalle fasce – insieme a quel primo scoppio di gioia dell’amore materno alla vista della propria creatura, si era unito un senso d’ammirazione per la perfettissima regolarità, per quanto fosse possibile, di quei piccoli lineamenti, per la miriade di cose che già quegli occhietti dicevano. – Crescendo in età crebbe costantemente in grazia naturale ed irresistibile. Non si può immaginare una bambina più incantevole di quello ch’ella era a cinque o sei anni. In quell’età in cui il desiderio di piacere non è ancor sorto, ella portava già istintivamente ciò che indossava con una fanciullesca eleganza da cui le altre bambine erano ben lontane. Ella correva e saltava quanto le altre; ma ogni suo movimento, ogni suo gesto era armonico. – Fin d’allora avea qualcosa di concentrato. Non era nè pensosa nè taciturna, come lo sono spesso i fanciulli quando l’intelligenza si sviluppa innanzi tempo; ma aveva un non so che di diverso dagli altri, difficile a definirsi. È strana la influenza che avevano su di lei gli specchi. Ogni volta che si trovava davanti a uno specchio, vi si fermava e vi stava lungamente, immobile e come estatica della propria bellezza.

Naturalmente tutto ciò aumentò, e la bellezza e il suo modo bizzarro. Passò per tutti gli stadi dell’infanzia, facendosi di giorno in giorno più indifferente a ciò che forma la vita a quell’età; e giunse ai sedici anni senza che i suoi parenti avessero potuto scorgere in lei una tendenza, una predilezione per uno studio o per un divertimento qualunque. I suoi occhi erano pieni di espressione e certo non poteva mancare di attitudine per tutto; ma nulla la interessava, tranne le cose aventi relazione con la forma, con la bellezza materiale ed esterna, con l’estetica delle linee e dei colori. Nella storia non si riusciva ad appassionare che per le epoche pagane, o per le favole mitologiche in cui s’esalta il culto del bello. In tutto ella cercava il lato sensibile; preferiva una bella statua a un bel quadro, un quadro alla musica la più incantevole. Non aveva alcun desiderio d’irreligione, ma capiva poco la divina poesia del cristianesimo, e certo preferiva il Cristo giovane, bello di bellezza dolcissima e celeste, col fronte coronato dell’aureola e circondato da un nimbo di luce, al Cristo smunto, livido, scarno, inchiodato sulla croce della redenzione, bello solamente della sua fede e del suo sacrificio. Capiva l’arte per istinto; sarebbe rimasta delle ore assorta, in muta contemplazione, dinanzi a una Venere, sogno realizzato nel marmo. Quando leggeva il racconto di quei tempi impareggiabili in cui fiorivano Fidia e Pigmalione, si sentiva delle irresistibili aspirazioni verso i portici d’Atene, con la loro serena architettura irradiata dal sole purissimo della Grecia; avrebbe voluto correre sui gradini dei tempii frammezzo alle bianche colonne, o errare nei boschi penetrati, malgrado la foltezza delle piante verdeggianti, da quella luce splendida e illuminati dal riflesso di quel cielo azzurro.

La prima volta che fu condotta in società, la sua apparizione ad un ballo impressionò così vivamente che per un mese non si parlò più che di lei. Ella era vestita di bianco, senza ornamenti, senza nulla, nulla, tranne il fulgore de’ suoi occhi il cui sguardo era una magìa, la pura bellezza de’ suoi lineamenti, il poema delle sue forme. Era modesta, ma non timida; non mancava di spirito e sapeva parlare, ma com’era possibile sostenere con lei una conversazione? L’ammirazione irreprimibile che in voi destava ogni suo gesto, ogni più fuggevole espressione del suo viso, ogni moto del suo corpo, vi distraeva al punto di non saper quasi nè ascoltare nè rispondere. Se parlando alzava una mano per rimettere al posto un nastro disubbidiente, la vista di quelle bianche dita, dalla forma allungata e perfetta, vi faceva perdere il filo di ciò che stavate dicendo.

Ella intanto non manifestava alcuna predilezione ma la precocità fisica e intellettuale della sua infanzia non si era smentita, e a quell’età ella era già una donna. I suoi sedici anni le splendevano in fronte ed ogni volta che parlava, la sua voce arcanamente armoniosa sembrava cantasse l’inno della gioventù. Ella era dunque, la straordinaria fanciulla, giunta come le altre all’istante quando il primo palpito commove il cuore, e, senza far sparire il sorriso del mattino della vita, la prima lagrima spunta nel ciglio. Ell’era giunta all’istante quando il vento che passa tra i rami, l’aura che increspa la cima delle acque, il susurro della sera, il canto degli uccelli, tutto il leggero e potente soffio della natura diventa una sola voce e dice una sola parola; quando l’azzurro del cielo, il lucido contorno delle nubi, il verde delle foglie, le mille tinte calde ed armoniose della terra, sembrano confondersi in un sol colore e si traducono in un sol sentimento. – Eppure nulla si moveva, nulla palpitava in lei.

Non si vide mai una più perfetta espressione della vergine; la sua bellezza incontestabile e quasi insolente era però ancor tutta vaga, le sue forme avvenenti ancora indistinte, sebbene complete; quasi il pensiero divino non si fosse tutto estrinsecato e una parte di lei fosse ancora altrove. Pure sembrava impossibile ch’ella potesse diventar più bella. – Pensava quasi continuamente alla propria bellezza e quasi di null’altro si occupava, ma lo faceva in modo che è assai difficile far comprendere. Non era mossa da civetteria femminile nè dall’ambizione; lo faceva con una serietà concentrata e distratta, quasi fosse necessario per lei il farlo; sembrava ubbidire ad una missione. L’ammirazione di sè stessa ed il sentimento della propria bellezza erano in lei come un divino istinto: pareva, occupandosene, compiere un ministero.

Passava sempre lunghe ore dinanzi allo specchio e non aveva mai finito di mirarsi e di acconciarsi; ma non se ne nascondeva come le altre, lo faceva publicamente, quasi quel culto della propria persona fosse solamente artistico, e, per così dire, impersonale.

L’amore di sè sembrava escludesse in lei la possibilità di un altro amore. I parenti osservavano, se in quella età pericolosa in cui si trovava, qualcuno avesse fatto palpitare per la prima volta il suo cuore o colpito la sua immaginazione; ma non sorpresero nulla, e davvero non c’era nulla da sorprendere. Vedeva i giovani i più seducenti, sia per un motivo, sia per l’altro, ma di nessuno si curava. Se ne accorgevano quasi con piacere, giacchè non essendovi simpatie preconcette da vincere, credevano che sarebbe stato facile lo scegliere per lei. Essi erano ricchissimi, ricchi tanto da poter aspirare molto in alto. Una tale occasione non tardò molto a presentarsi; un giovane, ultimo discendente di una illustre famiglia, che lui morto si sarebbe estinta, s’invaghì più di tutti della straordinaria bellezza della fanciulla e ne chiese la mano. Egli era ricco, simpatico a tutti; di un carattere buono e leale e certo non brutto, benchè d’una figura assai comune. Ella rifiutò.

Suo padre non la volle forzare, ma fu dolentissimo di tale rifiuto ch’egli diceva mosso da un imperdonabile capriccio.

Fu lo stesso di venti altri.

Passarono così alcuni anni ed ella faceva veramente soffrire le persone che le volevano bene con tanta ostinazione. Ma l’idea del matrimonio le ripugnava. Dovette subire una forte lotta interna prima di giungere a comprendere che non è possibile a questo mondo voler esser tanto stravagante e che non poteva andar così direttamente contro alla volontà di tutti. Ma finalmente capì che bisognava far delle concessioni e disse a suo padre, rendendolo lietissimo, che accetterebbe la mano del primo giovane che si sarebbe presentato, purchè accontentasse quelli che da tanto tempo le consigliavano di cedere e non le dispiacesse troppo.

Il primo che osò chiedere la sua mano fu il conte R.., abbastanza ricco e assai ricercato da tutti e che da molto tempo era stato colpito dalla superba bellezza di lei.

Ella fu fedele alla sua promessa ed accettò. Aveva allora vent’anni.

La sua bellezza, che diventava ogni giorno più intensa, era tale che chi non ebbe la fortuna di vederla non se ne può nemmeno fare un’idea. Aveva acquistata una fama universale; si parlava di lei dal palazzo di corte alla soffitta del miserabile. I poeti d’ogni calibro la cantavano su tutti i metri, e i pittori, vedendola, gittavano pennelli e tavolozza.

Il conte era un bel tipo meridionale, alto e ben fatto; aveva occhi e capelli nerissimi, i lineamenti fini. Quanto al morale, era quieto, con intelligenza sufficiente ai suoi bisogni, piuttosto insipido e assai indolente.

Il matrimonio ebbe luogo e fu come tutti i matrimoni, e seguito da un breve viaggio come tutti i viaggi di nozze e da una luna di miele delle più abituali.

Al ritorno la nostra eroina, che ora potremo chiamare contessa, era molto cambiata. Sembrava impossibile, ma erasi ancora abbellita. La sua bellezza non aveva mutato carattere, ma si era fatta più splendida. Il poeta l’avrebbe forse preferita prima, non lo scultore.

Sebbene nessuno, qualunque fosse il suo gusto, potesse rimanere insensibile dinanzi a lei, essendo ella, come già fu detto, il risultamento di tutti i sogni, pure molti – tutti coloro che ricercano le profonde delicatezze dell’anima – avrebbero trovato in lei una mancanza indefinibile, ma vera. Noi amiamo le cose umane; la nostra fragilità, i nostri errori, le nostre debolezze, perfino qualcuna delle nostre miserie, ci attirano e le vogliamo, le amiamo quasi fossero qualità e non difetti; siamo fatti d’una parte sopranaturale e d’una parte terrena, di qualcosa di superbo e di qualcosa di basso, ma la nostra argilla l’amiamo qual è. In lei mancava l’imperfezione, mancava la fragilità. Cosa dolorosa e disperante, in lei non v’era possibilità d’amore – la fralezza sublime. Ella era troppo perfetta e talvolta quella perfezione opprimeva e quella suprema serenità ne faceva male. Non si vedeva dove un sentimento veramente nostro avrebbe potuto prender posto tra quella calma desolante, e la sua bellezza appariva intangibile, inaccessibile.

Maritata, fu costretta a prendere una parte più attiva nella vita comune, e parve quasi che si distraesse alquanto dalla sua preoccupazione abituale. Viveva presso a poco la vita di tutti, andava in società, riceveva; ma lo studio, l’amore di sè erano sempre il suo pensiero principale. Le donne non erano tanto gelose di lei quanto si sarebbe supposto. Prima di tutto era inutile il voler criticare la sua bellezza, in secondo luogo non avevano molto a temere da lei, perchè non scendeva in campo a combattere e le sue armi non si curava di adoperarle.

Ferivano però e di ferite gravissime. Rinunciamo a raccontare tutte le passioni che suscitò, tutto il male ch’ella fece, davvero con la massima innocenza, poichè si empirebbero volumi. Quante amanti la maledirono, quante madri, vedendola, si sentivano gli occhi gonfiarsi di lagrime, quanti le chiesero pietà! Come si tentò in ogni modo di far vibrare la corda segreta del suo cuore, di turbare la limpidità serena del suo sguardo! – Ma ella possedeva la calma imperturbabile del marmo.

A coloro che le rimproveravano la sua insensibilità, e parlando di chi la riputava una donna spietata, ella diceva:

– Guardatemi. Come volete che io sia cattiva? Che colpa ne ho io se non posso vivere come le altre, se ho la fortuna di non soffrire?…

E tutti rimanevano colpiti dalla pace raggiante del suo viso, mentr’ella pronunciava tali parole piene di una tranquillità sovrumana – abbagliati da quell’avvenenza invincibile.

Accadevano spesso delle scene abbastanza strane. La contessa riceveva venti lettere al giorno, lettere d’amore, di preghiera, di gelosia, d’ira, di disperazione..... ch’ella gettava sul fuoco senza finirle.

Gli artisti, i poeti, gli osservatori si occupavano di lei come d’un enigma vivente. La maggior parte la vollero conoscere, e siccome aveva intelligenza e spirito, le sue sale furono aperte all’aristocrazia dell’ingegno, come lo erano naturalmente alle altre aristocrazie.

Il suo gusto era squisito nelle cose d’arte. L’appartamento n’era una prova visibile. Tutto, dalle vôlte, dalle cornici, dai mobili fino al più piccolo oggetto, aveva un valore artistico. Vi erano quadri scelti con sottile discernimento tra i capolavori delle migliori scuole, statue che rammentavano le greche, vasi della China e del Giappone, lavori di smalto e d’intaglio, velluti e damaschi cadenti in pieghe maestose, tappeti di Gobelins dai colori vivacissimi e armonizzantisi, e sopratutto specchi d’ogni sorta, dagli enormi dovuti alle fabbriche moderne che coprivano intere pareti fino ai piccoli, elegantissimi specchi di Venezia, con le cornici un po’ annerite dal tempo, coperte d’ornati baroccamente contorti e ingemmate di specchini microscopici. Tutte codeste cose erano disposte con quell’ordine di sobria eleganza che indica il gusto di artista spinto fino alle ultime conseguenze; l’armonia dei colori e delle forme, l’unione tanto difficile degli stili, era ottenuta con la sicurezza infallibile che dà la mano maestra. Ed era essa infatti che aveva presieduto a tutto, poichè dopo di aver pensato a sè, che cosa le rimaneva da fare se non pensare a ciò che la circondava? Ella amava le cose belle per istinto, per cui era giunta ad una conoscenza esattissima in arte alla quale non si arriva d’ordinario che dopo lungo studio e minute osservazioni; aveva la potenza divinatrice del bello negli oggetti antichi, come si fosse occupata sempre di archeologia, e in una bottega d’antiquario scorgeva a prima vista ciò che valeva d’essere comperato.

Pittori e scultori le chiedevano il suo parere; questi le portava due o tre abbozzi perchè decidesse quale fosse meglio imprendere, quello la pregava d’andare al suo studio per dargli un consiglio sul modo di atteggiare una statua. E sempre rispondeva con sorprendente giustezza e spesso il suo occhio vedeva più in là dell’occhio dell’artista. Molte volte diceva: «Fate così» e l’artista non era persuaso, ma ubbidiva ciecamente, e terminato il lavoro comprendeva ciò che non aveva compreso prima e si felicitava di aver ubbidito.

Vorremmo poter raccontare le mille impressioni differenti che faceva su tutti la bellezza della contessa, a seconda dei diversi modi in cui si manifestava. In casa, capricciosamente vestita, al passeggio, indolentemente posata nella sua carrozza o cavalcando con un’eleganza inimitabile; al teatro, con la mano divina posata sul velluto del parapetto, attenta piuttosto agli sguardi d’ammirazione che da ogni parte convergevano verso il suo palco, che alla musica di Verdi o di Meyerbeer.... Vorremmo, colla facilità concessa ai novellieri di penetrare dovunque muniti dell’anello dell’Ariosto, condurre il lettore nelle più intime stanze, farlo assistere alla toletta della contessa, che era un quadro improntato d’epicureismo antico, e svelare i tesori segreti di quella bellezza sovrumana, tanto avida d’ammirazione.

La camera da letto ed i gabinetti erano divisi dal resto dell’appartamento. Là appariva ancor più che altrove il gusto squisito della bellissima, l’impronta sovrana ch’ella non poteva a meno di porre su tutto ciò che le stava vicino. Quelle stanze erano un santuario. Tutto ciò che si può immaginare riunendo la molle comodità delle nostre abitudini moderne con la maestà delle decorazioni antiche ritrovavasi colà. La camera, nello stile pompeiano, era piena di finissime estravaganti pitture, di fregi largamente e bizzarramente segnati che correvano intorno alla vôlta, coperta ella stessa d’ornati delicatissimi e di figure chimeriche; i mobili, le tende, le drapperie, tutto era perfettamente d’accordo con lo stile delle pareti. La stanza era divisa in due parti da un grande arco, ricco d’intagli, di decorazioni e di vaghissimi bassorilievi, dal quale pendevano tre lampade d’argento, antiche, del più puro e leggiadro disegno. Un’alcova chiusa da tende di seta molle e ondata conteneva il letto coperto d’uno strato di vera porpora a frange d’oro.

Adiacente a quella stanza aprivasi una vasta sala, pure divisa in due parti, la prima delle quali serviva da gabinetto, la seconda da bagno. In questa era scavato un vasto bacino di marmo verde da cui usciva incessantemente lo zampillo d’una fontana che spingeva allegramente il suo getto fino alla vôlta; ai lati vi erano due vasche di porfido e due grandi tavole preziosamente scolpite, sostenenti i mille oggetti necessari ad una signora.

Da un’altra porta della stanza da letto si entrava in due piccoli gabinetti affatto differenti e più piccoli. Il primo era elegantissimo. Da un rosone in mezzo alla volta scendevano delle tende di velluto, di quel rosa delicato e pallido che tinge l’interno d’alcune conchiglie, e coprivano tutta la stanza, vôlta e pareti, cadenti lunghissime su di un tappeto folto come l’erba d’un prato, pure rosa a fiori bianchi. I sofà e gli sgabelli erano pure dello stesso velluto. Il secondo gabinetto era più curioso ancora, poichè da qualunque parte vi volgeste non era possibile scorgere altro che specchi. Quattro candelabri erano posti negli angoli.

Era davvero una scena che sembrava attendere il pennello d’un artista pagano quella che frequentemente aveva luogo in quelle stanze. Talora la contessa, circondata dalle sue donne, si vestiva ed acconciava lungamente, con una serietà che rammentava le dame romane, talchè un indiscreto nascosto dietro qualche tenda avrebbe potuto credersi trasportato d’improvviso ai tempi di Giovenale – tal altra invece, sola, si compiaceva voluttuosamente nello spettacolo incantevole della propria bellezza. Gettava intorno a sè le stoffe ed i veli che la coprivano ed appariva, abbagliando i suoi proprii occhi con tanta perfezione, bella come la Venere sorgente dai flutti. – -Sembrava quasi allora che un tremito misterioso agitasse le tende, che le figure dipinte sorridessero, che gli specchi sentissero l’immagine che riflettevano, quasi quelle forme scultorie dessero involontariamente la vita alle cose inanimate.

Fossimo nati ai tempi d’Aspasia o di Frine! Chè allora ne sarebbe concesso descrivere minutamente quel corpo creato di getto in un momento supremo di celeste ispirazione – mentre invece la nostra qualità di scrittore moderno ci ingiunge di rinunziare a dire quelle eleganti curve, quelle linee perfette, quelle forme armoniose come una musica scesa dal cielo; e quasi nemmeno ne sarebbe concesso di cantare ad una ad una le strofe del poema del suo corpo. Non possiamo dunque parlare nè della superba linea del torso, nè delle braccia che si sarebbero date alla Venere di Milo, nè del piede simile a quello d’una dea che ha solo toccato la cima delle nubi, nè della gamba d’una rara purezza di contorno… e ci è forza lasciare che il lettore supplisca a tutto ciò con la sua immaginazione, e al posto della nostra eroina ponga il suo proprio ideale.

A poco a poco le sue antiche abitudini presero di nuovo il di sopra, e la idea fissa dei primi anni l’afferrò ancora e forse con maggior forza di prima. Maritandosi, ella era stata costretta (come si è visto) a vivere un poco la vita di tutti, e ciò l’aveva un po’ distratta. Ora vi ritornava; nè vi è certo da stupirsi di questo, poichè non era possibile che le occupazioni della società le fossero sufficienti, e di cosa poteva occuparsi se non di sè, ella che non conosceva l’amore? – Suo marito che sulle prime aveva fortemente subìto il fascino ch’ella esercitava su tutti, si era presso a poco guarito della sua passione davanti alla passiva freddezza di lei.

Tutto l’annoiava, e dopo il primo anno di matrimonio restò a lungo prima di ricomparire in società. Ben inteso che da ogni parte sorgevano lamenti per tale scomparsa, e che tutti se ne stupivano. Ma in lei la idea fissa si era quasi fatta malore. Avvicinandosi ai venticinque anni, la sua bellezza si avvicinava al punto culminante e prendeva un carattere di completa maturezza. Ella era ora la più perfetta espressione della donna in tutto ciò ch’ella ha di più maestoso. La numerosa schiera di quelli che l’ammiravano, o l’adoravano in segreto – avendo ben compreso ch’era inutile parlare – soffrivano di esser privati perfino della gioia di vederla. I pochissimi ammessi in una relativa intimità cercavano in ogni modo di persuaderla a distrarsi. Gli artisti, che la studiavano, capivano che ora la sua passione per sè stessa aumentava prodigiosamente.

Suo marito, che non riusciva ad indovinarla, ma che vedeva con uno stupore pauroso la luce stranissima che sfavillava negli occhi suoi ogni giorno più vivamente, univa le sue preghiere alle loro, ma tutto fu vano per qualche tempo.

Finalmente un giorno, con una decisione che sembrava un misto di volontà sua e di cessione alle ripetute preghiere, consentì ad aprire le sue sale ad una gran festa da ballo. La sera fu fissata e le carte d’invito cadendo in mezzo ai mille discorsi che si tenevano a proposito del suo desiderio di solitudine, tutti aggradevolmente stupirono.

La sera tanto attesa giunse. Le carrozze arrivarono in lunga fila e versavano il loro contingente di signore e fanciulle, che ascendevano lentamente lo scalone coperto di fiori, avvolte nei candidi mantelli nascondenti tante bellezze che tra un momento dovevano essere accarezzate dalla luce splendente delle sale. Il magnifico appartamento, chiarissimo, tutto adorno di fiori, si riempiva a poco a poco. Il conte, in piedi nella prima sala, riceveva tutti con un sorriso stereotipato.

Si era già ballato, quando apparve la contessa che in nulla seguiva l’uso comune. L’effetto ch’ella produsse fu indescrivibile. Nelle sale vi fu un silenzio come al giungere d’una regina.

Il suo vestito – semplicissimo di fattura – era di velluto rosso e cadeva, fasciando i fianchi e allungandosi di dietro in un interminabile strascico. Sul suo petto posava una ricchissima collana di smeraldi. I suoi capelli, d’una tinta variante tra il biondo ed il castagno, avevano dei riflessi luminosi e fulvi che chiedevano il pennello del Tiziano e si frangevano in masse ondate e ricciute, si contorcevano in piccole spirali fantastiche, parevano talvolta accendersi di fiammelle dorate. La tinta bianchissima della sua pelle era però d’un pallore vivace e rosato. I suoi occhi, d’un taglio purissimo e d’uno splendore calmo, erano micidiali senza volerlo. Nel suo incedere vi era qualcosa di divino; il ritmo della sua voce si confondeva col ritmo dei suoi movimenti.

Non aveva mai prodotto tanta impressione. La sua bellezza aveva aquistato qualche cosa di luminoso e di fatale. Irradiava e turbava ad un tempo. Tutti si estasiavano dinanzi a lei; alcuni sentirono una fitta al cuore.

Un vecchio scienziato tedesco disse, parlando ad un amico che aveva vicino, mentre la contessa passava:

– È strano il pensare che fra poco tutta questa bellezza sparirà e che le forme superbe e l’occhio fulgente non faranno più vittime!…»

Benchè pronunciate sottovoce, queste parole giunsero all’orecchio della contessa. – -Si volse e rispose con un sorriso e una espressione inesplicabili:

– No, dottore, vi sbagliate. Finchè sarò, sarò come mi vedete adesso.

In quella notte ella sembrava molto distratta. Vi era talvolta qualche incoerenza nelle sue parole, e di tanto in tanto le passavano sulla bocca dei sorrisi pieni d’una poesia misteriosa.

Il ballo era magnifico. Fu una di quelle feste che fanno epoca e che rimangono come pietra di paragone di tutte le altre e spesso per molto tempo come l’apice inaccessibile della ricchezza e della eleganza.

Dal principio della sera la contessa non si era ancora guardata. Pareva temesse. Godeva dell’ammirazione altrui e voleva aspettare ad assicurarsi della propria. Assaporava intanto il trionfo, e l’orgoglio che la riempiva era tanto dolce che le pareva quasi difficile da sopportare. – Verso le due, al momento della cena e quando le sale si erano un poco sfollate, prese una improvvisa decisione e si diresse verso una specie di serra ch’era a lato della sala da ballo, in fondo alla quale stava un enorme specchio. Lo avvicinò lentamente, ad occhi bassi. Sembrava non osasse; finalmente alzò gli occhi.

Parve che una luce si spargesse sul suo volto e che tutta la sua figura s’irradiasse. Stette immobile per qualche minuto, assorta, incantata, con un sorriso d’estatica compiacenza.

Poi, d’improvviso, si voltò e attraversando con passo deciso i gruppi di persone che guardavano un poco attoniti, si diresse verso le sue stanze.

Giunse al gabinetto degli specchi.

Là, con un movimento rapido, sprigionò la massa dei capelli che si sciolsero in onde luminose sulle spalle bianchissime, strappò gli uncini della veste che cadde a terra, scosse ogni velo e si guardò intorno. Riunì le braccia sopra la testa, stando dritta, coi piedi vicini e il fianco un po’ sporgente, rammentando la postura della Frine dinanzi all’areopago, e sorrise, contemplandosi.

D’improvviso un fremito l’agitò – impallidì tanto da sembrare il marmo di Pigmalione che appena fatto donna ridivenisse statua, poi lentamente accosciandosi come chi si sente mancare le forze a poco a poco, cadde sulle ginocchia, frammezzo alle sue vesti, poi piegò adagio all’indietro, incrocicchiando le braccia sul seno e tirandosi addosso tutto quello che potè con un gesto d’estremo pudore.

Quel ballo, da cui la contessa si ritirò prima della fine, fu per molto tempo il principale argomento di discorso nella società elegante. Fu inoltre l’ultima volta ch’ella si mostrò in publico. – Non molto dopo ella si spense. – Nessuno ha certo dimenticato la sua morte, come nessuno ha dimenticato la sua bellezza. Morì dopo una breve e violenta malattia che i medici confessarono di non aver troppo capito. Il suo corpo venne imbalsamato. La sua fine fu misteriosa quanto la sua vita.

Ella rimase un enigma per tutti. Certo la figura di una donna così bella, così seducente e insensibile, ma tutta invasa da una passione arcana, passata come un apparizione – oggetto di stupore e di desiderio – e poi subitamente sparita, resterà lungamente impressa nella memoria di chi la conobbe.

Un giorno, in un crocchio d’amici, si parlava di lei. Chi si estasiava sulla sua bellezza, che rimarrà come un tipo inimitabile, chi tentava spiegare il problema della sua vita. Poi si venne a discutere sulla sua morte quasi più inesplicabile ancora.

– Io ne so la causa, disse un poeta. È morta di bellezza.