Kitabı oku: «Quattro Destini», sayfa 2
“No, è solo che non sono mai stato toccato lì prima – è strano.”
Dopo che lo ebbe esaminato completamente disse “Non credo che ci sia nulla di rotto, a parte le costole. Ora la metto a letto e andrò a prendere del linimento per quei tagli.”
Lo accompagnò con attenzione verso il letto, prese il suo pigiama da sotto il cuscino e, dopo avergli levato il resto dei suoi vestiti, lo aiutò a indossarlo e poi lo fece distendere. “Ha una chiave per poter entrare da sola?”
“Si sta già trasferendo qui?”
Lei arrossì. “No, certo che no, non intendevo… solo che non voglio che lei si alzi per farmi entrare, tutto qui.” Arrossì di nuovo e si affrettò a rimettersi il cappotto e a prendere la borsa che aveva lasciato sul tavolo. Prese la chiave dalla tasca rovinata dei pantaloni di Giuseppe e se ne andò.
Lui si riaddormentò di nuovo ma si svegliò quando sentì aprirsi la porta. Era piuttosto buio ma lei entrò nell'appartamento in punta di piedi senza accendere la luce. Aveva portato una borsa della spesa che mise sul tavolo e cominciò a rovistarci dentro. Lui fece rumore. “Mi dispiace di averla svegliata, ho portato alcune cose per lei.”
“Va tutto bene, non ero veramente addormentato.” Cercò di alzarsi e la staffilata di dolore proveniente dalla sua costola incrinata gli ricordò prontamente le sue ferite. Si lamentò e lasciò che lei mettesse il suo braccio attorno alle sue spalle e lo rimettesse in una posizione comoda.
Lei divenne molto professionale, aprendogli il pigiama, pulendo e applicando un linimento giallo sulle sue ferite e le sue ammaccature. Poi si assicurò che stesse bene dandogli un'aspirina per calmare il dolore. “Ho della pasta, ce la fa ad alzarsi?”
Sembrò essersi presa automaticamente la responsabilità di lui. Cucinò la pasta e gliela servì a letto, poi, dopo essersi assicurata che Giuseppe stesse bene si alzò per andarsene.
“Se ne sta già andando?” chiese.
“Sì, certo” disse lei.
“Non può restare? Potrei aver bisogno di lei di notte. Posso dormire sul divano se vuole.”
“Non so. Non è proprio corretto. Ci conosciamo a malapena.”
“Io so che lei sale in autobus ogni mattina e scende ogni sera. L'ho osservata per settimane.”
Lei sembrò leggermente scioccata. “Cosa? Mi ha osservata? Perché?”
“Oh, non lo so. Lei è diversa, ecco tutto. Si nota.”
“Straniera, intende” si stava trattenendo e cominciò ad alzarsi per andarsene.
“No, per favore, non se ne vada. Sinceramente l'ho notata perché pensavo fosse bella. Differente. E lei lo è, no? Non intendo straniera – intendo solo, lo sa, attraente.” Ora era lui che stava arrossendo.
Lei però lo stava guardando con affetto. “Lei è un po' strano, vero? Quello che ha detto è stato molto dolce. Ne sono commossa. E fare quello che ha fatto per me è stato veramente eroico.” Si abbassò e gli diede un bacio gentile sulle labbra. Lui cercò di evitare di saltare quando il suo labbro ferito gli fece male al contatto. “Mi dispiace, mi dispiace. Non avrei dovuto farlo. Non stavo pensando. Ora vado ma passerò domani mattina a controllare che lei stia bene.”
Nel corso dei giorni successivi lei venne ogni giorno nel suo piccolo appartamento prima di andare a lezione e ritornò ogni sera per preparare la cena. Si occupò delle sue ferite mentre guarivano e, mentre preparava la cena, tenne l'appartamento pulito.
Quando la sua salute migliorò, Giuseppe fu in grado di fare più cose da solo. Durante il giorno zoppicava, andava nei negozi lì vicino a comprare il cibo e ritornava a casa a prepararlo in modo che quando lei arrivava di sera poteva sedersi e mangiare il pasto che aveva preparato per lei.
“Sembra che tu non abbia più bisogno di me,” gli disse una sera.
“Cosa? Certo che ho bisogno di te” disse lui. “Come posso farcela senza di te?”
“Ce la facevi prima, no? Stai molto meglio e credo sia tempo che tu torni ai tuoi corsi.”
“Sì, sto meglio ed è così. credo. Ma possiamo incontrarci più tardi?”
“Perché no? So dove abiti e tu sai dove prendo l'autobus.”
Quella sera andarono in un bar insieme e poi tornarono nel suo appartamento per mangiare insieme la cena che lei insistette di cucinare. “Domani tocca a me” disse lui.
Nel corso delle settimane che seguirono si incontrarono quasi ogni giorno. Lui andava alla fermata dell'autobus per salutarla quando arrivava o, se le sue lezioni finivano tardi, lei lo aspettava in un bar vicino al suo appartamento. Lui le presentò alcuni dei suoi amici del suo corso ma continuarono a mantenere le loro vite separate.
Quando il suo corso stava per arrivare al termine, con l'avvicinarsi degli esami finali, gli ultimi ripassi e la preparazione impedì loro di incontrarsi così spesso. Tuttavia, colsero tutte le opportunità possibili per incontrarsi. Condividevano una passione per l’opera e comprarono i biglietti in piedi più economici a teatro per vedere una delle vecchie opere da loro preferite di Verdi, Bellini o Rossini, o una delle opere più moderne del maestro Puccini.
Il giorno del suo esame finale la portò fuori, mangiarono insieme per festeggiare bevendo champagne.
“C'è qualcosa che volevo chiederti” disse. Lei lo guardò in attesa. “Siamo buoni amici?”
“Certo che lo siamo! Che cosa te lo fa chiedere?”
“Beh, è che, sai, vorrei molto essere più di un semplice amico” arrossì violentemente. “Vedi, sono molto legato a te – sai? E spero che tu possa essere, sai, anche tu molto legata a me?”
“Sì, Giuseppe, ti sono molto affezionata. Mi hai salvato la vita, ricordi?”
“No, non in quel senso” fece una pausa, “voglio dire, credo che…”
“Cosa?” Lei lo guardò intensamente. “Cosa stai dicendo?”
Uscì tutto di getto: “Ora ho finito il mio corso di studi e può essere che debba andare lontano per trovare un lavoro – o chissà per quali altri motivi. Non riesco a sopportare il pensiero di non vederti più.” La guardò tristemente, in attesa di una risposta, ma lei restituì lo sguardo pensierosa.
“Cioè?” chiese. “Cosa vuoi che ti dica?”
“Solo, beh, ecco, credi che se io dovessi andare da qualche altra parte, saresti in grado, magari, sai – di venire con me?”
Lei sorrise gentilmente. “Perché lo vorresti? Non hai più bisogno di un'infermiera, giusto?”
“No, certo che no. Lo stai rendendo molto difficile. Quello che sto dicendo è” fece una pausa, “quello che sto chiedendo è; credi, sai, credi che potresti. Oh, maledizione, sto facendo un sacco di confusione. Quello che intendo è, io credo – no, io so – di amarti e voglio che tu stia con me, in futuro. Se capisci cosa voglio dire.”
“Beh, credo di sì. Non so come possa essere accaduto, ma neppure io riesco realmente a immaginare di stare senza di te. Perciò sì, voglio stare con te. Ma la mia famiglia…”
“La tua famiglia, cosa vuoi dire?”
“Sono piuttosto severi. I miei genitori sono morti. Sono stata allevata da mio zio. É molto rigido. Suo figlio, mio cugino Kurt, è appena tornato dalla guerra. Lo zio dice che devo tornare per prendermene cura.”
“Oh, è ferito, vero?”
“No, non credo. É molto depresso. Crede che lui e i suoi compagni siano stati traditi – che avrebbero potuto vincere.”
“Vuoi andare?”
“No, certo che no. Dovrebbe accettare quello che è successo e dimenticare la guerra. Abbiamo perso ed è tutto. Francamente è stato fortunato a tornare indietro vivo e senza ferite. Dovrebbe accettarlo e proseguire con la sua vita – è uno dei fortunati. Ma mio zio…”
“Bene, dipende da te. Tutto quello che posso dire è che sarò infelice se tu te ne andrai – e credo che anche tu lo sarai. Ti sto chiedendo” fece una pausa, “sì. in realtà ti sto chiedendo,” fece un'altra pausa “se tu saresti d'accordo nello sposarmi?”
Per Maria fu abbastanza. Si sporse sopra il tavolo e lo baciò. “Certo che lo sarei. Dovrò solo dire allo zio che dopo tutto non potrò venire.”
Poche settimane dopo, nel settembre del 1919, si sposarono con una cerimonia civile a cui parteciparono pochi vecchi amici della marina di Giuseppe oltre a sua madre e suo padre. Il suo testimone fu il tenente Gramatika. Non venne nessuno della famiglia di Maria, suo zio disse che erano troppo occupati. Le scrisse una lettera piuttosto dura augurandole il meglio ma criticandola per aver deluso la famiglia. Kurt, invece, fu più gentile. Nella sua lettera si congratulò con lei e le augurò il meglio. “Non preoccuparti di mio padre. Io starò bene. Devo solo abituarmi. Spero che riusciremo a restare in contatto e ti auguro ogni bene.”
Gramatika era stato di recente nominato governatore di Lero dopo l'acquisizione italiana. Alla festa dopo il matrimonio, parlò del suo nuovo lavoro, dicendo a Giuseppe degli interessanti sviluppi previsti per l'isola. “Lì stiamo costruendo una nuova base aeronautica e navale – non riusciresti a credere quanto sono cambiate le cose da quando siamo arrivati nel 1912. Vieni a trovarci – c'è un mucchio di lavoro da fare.”
“Ma non abbiamo raggiunto l'accordo di riconsegnare le isole ai Turchi – o ai Greci o a qualcuno?”
“Sono ai ferri corti. Sembra che i Greci vogliano cercare di ‘riprendere’ la Turchia ai turchi. I Turchi ci dicono che hanno vinto la loro parte di guerra – cacciando gli Alleati fuori dai Dardanelli. Sono addolorati perché la Germania ha perso,” qui fece una pausa e guardò Maria come per scusarsi, “e hanno un nuovo tizio, Mustafa Kemal – stanno cominciando a chiamarlo ‘Ataturk’ – che sta veramente cominciando a sembrare pericoloso. Se i Greci invaderanno rischieranno una sconfitta o anche di peggio. Insomma, questo significa che per ora resteremo nelle isole – forse anche per sempre. Dobbiamo ricavare qualcosa dal nostro investimento.”
Guardò Giuseppe. “Perché non vieni a lavorare per me? Ci servono bravi ingegneri. Ricordo come facevi andare quelle turbine sulla San Marco – potevano anche essere moderne, ma di sicuro si rompevano spesso!”
Maria intervenne, “e ora parla greco, lo sapeva?”
“No. Veramente? Sarebbe realmente utile. Stiamo usando i locali per i lavori di costruzione. Sono diligenti ma non abbiamo molti interpreti greci.”
“Beh, è un'esagerazione dire che parlo greco – sono molto arrugginito e la maggior parte delle cose che ho imparato erano di greco classico e non moderno. Alcune parole sono le stesse, ma la pronuncia e la grammatica sono cambiate e mi servirebbero molto esercizi e altre lezioni…”
A Gramatika era piaciuta subito Maria. Aveva sentito come si erano incontrati ed era rimasto impressionato da come si fosse presa cura del suo amico. Aveva già parlato con lei del fatto che fosse originaria della Germania sconfitta – i tedeschi non erano popolari nelle nazioni Alleate. “Una cosa posso garantire è che nel mio piccolo regno non c'è spazio o tempo per nessuno di questi pregiudizi. Stiamo costruendo una nazione nuova e non ho pazienza per guardarmi indietro. Sarete i benvenuti a Lero, ve lo assicuro.”
Giuseppe e Maria arrivarono a Lero nel 1920. Furono salutati con affetto dal vecchio amico di Giuseppe quando scesero dall'idrovolante atterrato a Porto Lago. Furono poi portati verso un nuovo complesso sviluppato dalla parte opposta alla nuova città costruita sulla baia. Tre enormi gru dipinte di bianco e rosso erano state erette per sollevare gli idrovolanti e portarli sulla riva e il molo era stato allargato per farli accomodare negli enormi hangar nuovi costruiti poco più in là.
Maria era già incinta e il loro figlio, Marco, nacque più tardi quell'anno nel piccolo ospedale che gli italiani avevano costruito sull'isola.
Capitolo 2
Jutland, Inghilterra e Francia 1916-1920
"Che modo veramente stupido di gestire una linea ferroviaria", disse Arnold.
La maggior parte delle corazzate e degli incrociatori da battaglia della flotta britannica erano state all'ancora a Scapa Flow per gran parte della guerra. Le navi della flotta si erano raramente avventurate in mare tranne quando la flotta tedesca aveva attaccato Scarborough, Hartlepool e Whitby nel 1914. Quella volta avevano acceso i motori e si erano dirette a sud troppo tardi per intercettare gli attaccanti tedeschi.
La sua nave, l'incrociatore da battaglia HMS Indefatigable, a quel tempo era ritornata dal Mediterraneo, dopo le operazioni nei Dardanelli e una riparazione a Malta. Ora stavano viaggiando velocemente per affrontare la minaccia della flotta tedesca che proveniva da sud. Avevano visto alcune delle navi nemiche, ma il loro comandante, l'ammiraglio Beatty, all'inizio non le aveva attaccate e neppure aveva fatto ridisporre la sua flotta in uno schieramento più aggressivo quando i tedeschi avevano aperto il fuoco
"In realtà non siamo su una linea ferroviaria", replicò piuttosto pedantemente Ernest, il suo luogotenente, "come sto continuando a dirti!"
"Già, ma perché non attacchiamo quei bastardi invece di girare intorno come anatre al tiro a segno? Mostriamo loro che non devono sfidare la marina britannica e schiacciamoli una volta per tutte!"
Questa era la lamentela costante di Arnold e anche se in gran parte erano d'accordo con lui, i suoi compagni non potevano spingersi ad ammetterlo. Giù nella loro zona degli ufficiali non si erano neppure resi conto che la battaglia era già iniziata.
Ernest si era unito alla nave solo recentemente, su distaccamento da un lavoro di ufficio nell'Ammiragliato, e non compariva ancora nell'organigramma dell'equipaggio. Era un esperto di tedesco, parlava fluentemente la lingua ed aveva avuto dei contatti con i marinai della loro flotta durante la visita dell'imperatore Guglielmo a Cowes nel 1913. Quando era scoppiata la guerra, era stato assegnato a un lavoro di intelligence, aiutare a decifrare i messaggi navali tedeschi, e gli era stato chiesto di unirsi a una delle navi da guerra della flotta per vedere come le informazioni di decodifica fossero usate nella pratica.
Suonò l'allarme. "Un'altra maledetta esercitazione" disse, mentre aspettavano che un segnalatore venisse a dare loro gli ordini. Si mise la giacca e si alzò quando un giovane marinaio entrò di corsa. "Ordini del capitano: sul ponte e alla svelta – questa non è un'esercitazione!"
"Cosa? Torna qui Higgins! Cosa vuoi dire? Che sta succedendo lassù?"
"Siamo sotto attacco. Navi da guerra tedesche, un sacco, che stanno venendo contro di noi" urlò, mentre si affrettava verso l'alloggio ufficiali successivo.
Arnold e i suoi compagni si affrettarono verso il ponte, indossando le giacche, sistemandosi le cravatte e mettendosi il cappello mentre correvano. Il ponte, sei piani sopra di loro, era pieno di ufficiali eccitati quando il comandante, all'apparenza calmo come sempre, diede un'occhiata dalla finestra.
Davanti a loro riuscivano solo a vedere il mare. Si vedevano degli occasionali sbuffi di fumo, ma il mare era calmo e immobile fino a quando udirono un ruggito sopra le loro teste. "Il tuo treno?" sussurrò Ernest. "Non è in orario, vero?" La granata atterrò con un grosso schizzo dall'altro lato seguita dal rumore dell'arma che l'aveva lanciata.
"Calmi, ragazzi, per cortesia" disse il capitano. "Signor Talbot, alla sua postazione, Signor Jenkins, per cortesia riferisca al Sottoufficiale capo per quanto riguarda le incombenze per lo spegnimento degli incendi. Signori, fatelo il più velocemente possibile."
Fu l'ultima volta che Ernest vide il suo amico. Quando lasciarono il ponte andarono in direzioni diverse, Arnold verso poppa, Ernest a prua.
Ernest scese i gradini di corsa e andò lungo coperta verso la prua. Dietro e davanti a lui poteva sentire le enormi torrette mitragliatrici della Indefatigable girarsi pesantemente verso le navi nemiche, a malapena visibili all'orizzonte, al sopra delle quali sbuffi di fumo bianco indicavano che le armi stavano sparando. Vide il sottoufficiale capo sul ponte davanti a lui. “Signor Jenkins, indossi il giubbotto di salvataggio per cortesia. Non serve a nulla tenerlo sul braccio, no?”
Infilò le braccia nello scomodo aggeggio, tirando le cinghie attorno a lui mentre raggiungeva il ponte dove c'era il sottufficiale capo. “Bene, signore. Ora, se non le dispiace.” Il sottufficiale smise improvvisamente di parlare, guardando con orrore alle spalle di Ernest.
Ci fu un improvviso rumore fastidioso, come un treno che uscisse da un tunnel a tutta velocità, un forte colpo e un bagliore di fuoco quando i proiettili colpirono la poppa della nave. L' ‘Indefatigable’ sbandò e perse il controllo. Ernest sentì un'ondata di aria calda che lo spinse indietro e lo fece girare. Rimase sconvolto nel vedere l'intera poppa coperta di fumo nero oleoso e di scure fiamme che non presagivano nulla di buono. “Mio Dio – Arnold.”
“Non si preoccupi di questo, ragazzo mio, estragga quella manica antincendio, subito.” Ordinò il sottufficiale al suo gruppo di vigili del fuoco mentre Ernest, scioccato dall'intensità delle fiamme provenienti dal retro cercava di decidere cosa fare. “Bene ragazzi, calmiamoci e usiamo quel manicotto antincendio, va bene?” suggerì il sottufficiale.
“Giusto,” disse Ernest. “Più veloci che potete, srotolate il manicotto.” Un marinaio tirò fuori il manicotto, srotolandolo dalla ruota attorno alla quale era arrotolato, mentre un altro armeggiava con il tappo pesante. “Aspetta – non accenderla fino a quando è pronto il manicotto” disse Ernest. Un altro rumore di proiettili e altri tonfi risuonarono mentre i marinai tiravano il manicotto lungo il ponte verso il fuoco nella parte posteriore. Presto l'intensità del fuoco divenne così forte che non poterono avvicinarsi di più ed Ernest diede l'ordine di aprire il pesante tappo. L'acqua proruppe nel manicotto che divenne rigido per la pressione interna. Ernest aiutò il marinaio che reggeva la parte finale a tenerla ferma e a indirizzare il getto verso le fiamme. Sembrò che non facesse alcuna differenza. L'intensità delle fiamme, alimentata dal carburante e dal legno dei ponti stava crescendo. I proiettili nelle torrette al centro delle fiamme iniziarono a esplodere con colpi sordi e inquietanti, costringendo gli uomini con gli abiti in fiamme e la carne che friggeva per l'intenso calore a correre urlanti verso i vigili del fuoco.
Il fuoco, consumato tutto il combustibile, cominciò ad essere sotto controllo e sembrò che la nave potesse reggere, anche se malridotta. Ma poi un altro proiettile a lungo raggio sparato dall'aggressore tedesco, colpì casualmente la nave nel posto peggiore possibile – la torretta leggermente corazzata nella parte anteriore – e ci fu una forte esplosione che travolse il ponte. Una palla rotolante di fiamme incandescenti andò verso i vigili del fuoco travolgendo il sottufficiale e gli uomini con lui al manicotto. Ernest sentì il manicotto afflosciarsi quando lo scoppio lo colpì e si sentì trasportato in aria, poi colpì il parapetto e finì in mare. Terrorizzato ebbe il pensiero folle "che schifo di modo per morire".
Colpì l'acqua come un sasso, rimbalzò, facendo uscire tutta l'aria dai polmoni, e ricadde di nuovo sotto la superficie. Lottando con i suoi vestiti e l'ingombrante giubbotto di salvataggio, nuotò verso la superficie, scacciando il panico. Uscì dall'acqua e disperatamente prese una boccata d'aria a pieni polmoni. Il giubbotto di salvataggio era attorno al suo mento, ma lo aveva portato a galla e le istruzioni del sottufficiale lo avevano salvato. In qualche modo era riuscito a liberarsi delle scarpe e stava fluttuando libero.
Ernest si rese conto di essere finito parecchio distante dalla nave che ora era completamente avvolta da una infernale palla di fumo e fiamme. Disperatamente cominciò a nuotare per allontanarsi, rendendosi conto che la nave poteva esplodere di nuovo in qualsiasi istante. Ma la nave colpita non esplose. Lentamente, quasi con cautela si mosse in avanti e, come una enorme anatra, mostrò la parte posteriore al cielo e quindi scivolò, con i motori ancora accesi, verso il basso con un orribile suono lacerante di risucchio, lasciando dietro di sé un turbine di acqua fumante che provò a portarlo con sé nel gorgo lasciato dalla nave che affondava. Per due, tre volte fu tirato al di sotto della superficie e, in preda al panico, fu costretto a spingersi fuori e a respirare prima di essere di nuovo tirato sotto. Alla fine – sembravano fossero passate delle ore –la pressione verso il basso si calmò e fu in grado di galleggiare, sentendo ora il dolore intenso dell'acqua salata contro la sua schiena che, senza che se ne fosse reso conto, protetta solo dalla giacca e dalla camicia che stava indossando quando era uscito di corsa dall'alloggio degli ufficiali, era stata bruciata dalla forte palla di fuoco che l'aveva gettato in mare.
Si guardò attorno alla ricerca di segni di vita – qualcuno – qualcosa. Tutto quello che fu in grado vedere, però, furono dei detriti galleggianti e qualche cappello da marinaio. Un'enorme bolla esplose con un orribile suono nel punto in cui la nave era affondata, spruzzandolo d'acqua piena di petrolio, seguita da un'ondata che quasi lo fece andare a fondo di nuovo. Se non avesse notato una grossa tavola di legno galleggiante nelle vicinanze, non avrebbe mai avuto la forza di restare a galla nell'acqua che, come si rese conto solo in quel momento, era completamente gelida.
Notò un piccolo cacciatorpediniere che si dirigeva velocemente verso il luogo dove era affondata la grande nave. L’imbarcazione rallentò quando si avvicinò e i marinai si affollarono sul ponte alla ricerca di sopravvissuti. Riuscì a sollevare un braccio e ad agitarlo debolmente verso di loro. L'imbarcazione passò oltre, facendo quasi rovesciare la sua fragile zattera. I marinai stavano guardando verso di lui, ma si rese conto che sui loro volti non c'era alcuna traccia che lo avessero notato quando cercò di urlare per sovrastare il rumore del passaggio della nave. Riuscì a sollevarsi un po' e ad agitare di nuovo il braccio, le sue grida sempre più flebili per lo sforzo, ma, questa volta fu ricompensato da uno dei marinai che all'improvviso indicò verso di lui e urlò verso i suoi compagni. Il marinaio tenne la sua mano puntata nella direzione di Ernest secondo quanto insegnatogli dagli istruttori della Marina nel classico caso di “uomo in mare”, fino a quando la nave rallentò e si girò. L'ufficiale preposto si allontanò velocemente per dare le indicazioni a un altro gruppo affinché preparassero una delle scialuppe di salvataggio del cacciatorpediniere. La barca fu calata in mare e i marinai ai remi diedero il massimo, dirigendo la piccola barca verso Ernest. Quando cominciò a perdere la presa del pezzo di legno si sentì tirato a bordo dai marinai. Mani gentili e generose lo coprirono con delle coperte e lui perse conoscenza quando lo portarono sulla nave.
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"Vorrebbe lasciare la coperta ora, tenente? Gliene daremo una pulita e asciutta."
Ernest, ancora semi incosciente si ritrovò aggrappato alla coperta che gli avevano dato quando lo avevano salvato, come se la sua vita dipendesse da essa.
"Cosa? Oh, sì, grazie, grazie mille" disse, ma non la lasciò ancora.
Il paziente infermiere gentilmente gli aprì le dita e tolse la coperta, "ora dobbiamo svestirla e pulirla, OK."
Ernest sentì l'infermiere tagliargli gentilmente i vestiti ed emettere un suono quando vide cosa c'era sotto. "Tanto brutto?" disse gemendo Ernest, all'aumentare del dolore quando l'infermiere tirò i pezzi di vestiti a brandelli attaccati alla sua carne massacrata.
"Un bel disastro, amico. Non si preoccupi, ho visto di peggio" – non gli era mai capitato – "lo sistemeremo, non si agiti."
Continuò gentilmente a tagliare via i vestiti di Ernest, emettendo dei versi di disapprovazione mentre lo faceva. Usando dell'ovatta imbevuta d'acqua fredda, bagnò e pulì con attenzione quanto poteva, cercando di ignorare i gemiti di dolore di Ernest. “Tenga duro, non manca molto. Ecco, fatto per ora” disse, distendendo finalmente un lenzuolo sopra Ernest.
Il medico di bordo entrò. "Come è messo?" chiese all'infermiere.
“Piuttosto male: ha gran parte del corpo bruciata, ha delle ferite aperte piene di petrolio. Ho fatto del mio meglio per pulirlo ma avrà bisogno di molto più aiuto di quello che possiamo fornirgli qui."
Il dottore andò verso Ernest e sollevò il lenzuolo. "Ho veramente freddo. Può accendere il fuoco?" disse Ernest.
"Sì, lo farò fare all'infermiere". Guardò le ferite e il volto di Ernest, ora diventato grigio e privo di colore a causa di tutte le ferite aperte sul suo corpo. Sussurrò all'infermiere "Temo che questo povero tizio probabilmente sia arrivato alla fine. Lo faccia stare solo il meglio che può – morfina ogni volta che ne ha bisogno e continui a lavare e pulire quelle ferite. É tutto quello che possiamo fare – farlo stare a suo agio. Dubito che supererà la notte."
Invece ce la fece. Quella notte e molte altre. Il mattino successivo il medico rimase sorpreso nello scoprire che Ernest respirava ancora e che anche un po' di colore gli era tornato sulle guance. L'infermiere, al contrario, sembrava pallido ed esausto. "Ha fatto un gran lavoro" disse il dottore. "Come è riuscito a pulirlo così bene?"
"Dottore, non posso lasciarlo morire, sembra essere l'unico sopravvissuto- poveraccio! Ho lavorato sulle ferite e pulito quanto più petrolio e fuliggine potevo. É ancora un disastro, ma credo che le ferite principali siano pulite e che nessuna di loro sia così profonda. Le bruciature sono brutte, ma le ho pulite e l'ho fatto stare il più a suo agio possibile. Fortunatamente è rimasto privo di sensi per la maggior parte del tempo a causa di tutta la morfina che gli ho iniettato."
"Bene, si prenda un po' di riposo, ora lo controllerò."
Ernest perse e riprese conoscenza più volte mentre il dottore lo esaminava ed esplorava attentamente, fischiettando un motivetto e borbottando tra sé "sì, brutta ustione, taglio netto, non rotto. Fortunato." Aiutato da un nuovo infermiere, mise della tintura di iodio sulle ferite peggiori, mettendo dei punti qui e là, e spalmando dell'unguento sulle ustioni.
Alla fine, ebbe terminato. “Riesce a sentirmi?" chiese. Ernest annuì. "Credo – spero – che lei sia un tipo molto fortunato. Ha dei tagli e delle ammaccature molto brutti, e qualche forte bruciatura, ma non sono così brutte come sembravano prima che la pulissimo. Dovrebbe ringraziare il nostro infermiere, ha fatto un gran lavoro di pulizia su di lei. Ora le copriremo. Stiamo tornando a Scapa Flow. Dovrebbe essere in ospedale prima di domani."
La nave attraccò più tardi quella notte. L'infermiere che si era preso cura di lui all'inizio era di nuovo di turno e lo svegliò. “Come si sente, amico? Abbiamo attraccato ora, fra poco la porteremo giù.”
“Sto bene,” disse Ernest – non sentendosi bene per nulla.
“Bravo. Tenga duro.”
Gli assistenti che arrivarono per trasportarlo portarono una barella. Fecero scivolare una coperta sotto di lui, sollevando con attenzione prima le sue gambe e poi il busto. Si trattenne dall’urlare quando toccarono le sue bruciature. Quando la coperta fu a posto, quattro uomini lo alzarono con attenzione e lo portarono sulla barella che sollevarono e portarono fuori dal reparto verso il ponte all'esterno. Dovettero piegare la barella per scendere lungo la passerella per arrivare al molo e salire sull'ambulanza in attesa e lui non poté fare a meno di strillare quando le bende sfregarono contro la sua pelle rovinata.
Dopo una corsa fortunatamente breve, Ernest fu tirato fuori, trasportato in ospedale e portato in un reparto con i sopravvissuti delle altre navi britanniche – troppo pochi se paragonati al numero di marinai che erano morti in azione. Le loro sofferenze trasparivano dai loro volti grigi e dalle loro smorfie di dolore. Fu trasportato su un letto. Di nuovo il movimento della coperta fu molto doloroso ma Ernest, guardando il pover’uomo nel letto vicino al suo, si rese conto che il suo dolore non era peggiore di quello di chiunque altro. Il marinaio aveva un telo che impediva di vederne le gambe ed entrambe le mani vistosamente bendate, come pure la testa. Era disteso lì, in silenzio, privo di conoscenza, bianco come le lenzuola sopra di lui, respirando a malapena. Più tardi quella notte, quando Ernest lo guardò, i suoi respiri si fecero ancora più superficiali e meno frequenti fino a quando Ernest si rese conto che aveva semplicemente smesso di respirare. Al mattino un'infermiera arrivò. Diede un'occhiata al poveretto, uscì e chiamò gli assistenti che arrivarono e senza tante cerimonie sollevarono il corpo su una barella e lo portarono via. Solo quando il telo fu rimosso Ernest si rese conto che non c’erano entrambe le gambe.
Per molto giorni Ernest rimase nel letto d'ospedale, le sue ferite periodicamente pulite e disinfettate. In alcuni giorni il dolore era così forte che ebbe il desiderio di mollare – ma i ricordi dell'equipaggio che era morto lo fecero andare avanti. “Non morirò, non morirò – non avranno anche me” fu il suo mantra.
Più tardi fu trasferito in un ospedale a Londra specializzato nel trattare le ustioni come le sue. Il suo corpo era sfregiato ma stava guarendo. Il dolore stava diventando un ricordo sbiadito, anche se la rigidità delle cicatrici sulla sua pelle bruciata, che tiravano le ferite che stavano guarendo, continuava a fargli compagnia.
All'inizio del 1918 fu in grado di tornare dalla sua famiglia a Deal nel Kent, per completare la convalescenza. Anche se provava ancora dolore per le ustioni, che dovevano essere medicate ogni giorno, i tagli erano guariti e le sue ammaccature era tutte scomparse.
Come gli avevano detto i medici prima di dimetterlo, ogni giorno, per stare in forma e recuperare, camminava per un paio di chilometri da casa sua lungo il Church Path – un bel sentiero tranquillo che attraversava solo un paio di strade prima di arrivare al mare. All'inizio questa camminata gli richiese più di due ore faticose e dolorose. In ospedale gli erano stati dati dei bastoni da passeggio e vi si appoggiò con forza. Era completamente preso dallo sforzarsi nel fare un passo doloroso dopo l'altro. A poco a poco, però, la forza ritornò e fu in grado di godersi il tepore quando arrivò l’estate.
Aveva un controllo settimanale presso un medico, il dottor Field, di stazza presso la caserma della Marina a Walmer. All'inizio Field aveva dovuto controllare le bende e assicurarsi che le ferite stessero guarendo bene. In seguito, tolse i punti e disse a Ernest che non c'era più bisogno di vederlo ogni settimana. “Sta facendo buoni progressi, Tenente. Lei come si sente?”