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Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 4

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VII

Ma qui occorre un'altra osservazione. Se questi concetti sono giusti, se veramente il Comune fiorentino è nato in tal modo, dovrebbe avverarsi quello che noi accennavamo sin dal principio, cioè che qualche luce essi dovrebbero gettare sugli avvenimenti posteriori, e ciò varrebbe anche a confermare la verità di quanto abbiam detto fin qui. Vediamo dunque se gli avvenimenti posteriori confermano le considerazioni finora esposte.

Se noi apriamo il Villani, troviamo che il primo periodo della storia fiorentina è una serie di guerre continue contro i castelli. Il territorio era tutto incastellato, esso dice, ed i Fiorentini uscivano ogni primavera a combattere. Quale fu la conseguenza di queste guerre? I castelli vennero demoliti; ma i conti che li abitavano non si potevano uccidere; venivano quindi costretti a vivere in Città almeno una parte dell'anno, il che li sottoponeva alle leggi del Comune. Tutto ciò in sul principio non ebbe grande importanza; ma a poco a poco alterò la cittadinanza fiorentina, introducendovi un elemento feudale, che era nuovo, estraneo al Comune, ed aveva un'origine germanica, rappresentava una società nemica. Così dentro le mura si troveranno ben presto due società avverse, che non potranno vivere insieme: l'una dovrà distruggere l'altra; la guerra civile sarà inevitabile. Questi nobili hanno usi e costumi, tradizioni, educazione diversa assai da quella del popolo. Essi vengono, si asserragliano, si fortificano nei loro palazzi, che sono come castelli dal contado portati dentro la Città. Le stesse ragioni che costrinsero i Fiorentini a combattere i castelli nel contado, li costringeranno a combattere i nuovi palazzi fortificati, che sorgono dentro le mura. La guerra civile non ha origine dal fatto del Buondelmonti; non è conseguenza di odii e vendette personali; è una guerra fatale fra due razze, fra due civiltà, una delle quali non può vivere insieme con l'altra: bisogna che l'una o l'altra scomparisca dalla terra. Questa guerra non è una prova che le passioni individuali dominassero tanto in Firenze da prevalere su tutto; ma è invece una prova che i sentimenti di quegli artigiani erano talmente uniti, concordi e tenaci e che essi avevano una fede così profonda nei loro destini, che si apparecchiavano a combattere dentro la Città, quel nemico, che avevano combattuto fuori di essa.

Giovanni Villani, il quale affermava che il fatto del Buondelmonti, nel 1215, aveva la prima volta diviso la cittadinanza di Firenze, dimenticava di averci precedentemente detto, che nel 1177 la guerra civile era già cominciata per opera dei grandi, cioè degli Uberti, che combatterono sin d'allora il governo consolare. Ciò prova che il fatto del Buondelmonti fu uno di quei tanti episodii, che seguirono spesso in tutti i Comuni del Medio Evo, ma non ebbe una vera importanza politica, perchè non fu causa, ma conseguenza della guerra assai prima incominciata.

Noi abbiamo dunque un secondo periodo nella storia di Firenze, il quale è una lunga serie di guerre e rivoluzioni interne, che portano una serie di trasformazioni sociali e politiche del Comune. Vediamo da una parte i nobili col Podestà alla loro testa, dall'altra il popolo comandato dal suo Capitano. Scopo e fine di questa lotta è la totale distruzione del partito aristocratico, il che seguì nel 1293 con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, i quali esclusero affatto i Grandi da ogni partecipazione al governo. Tutte queste rivoluzioni hanno di mira uno scopo costante, hanno un'origine comune, si seguono con un ordine determinato. Non è il caso che domina la storia di Firenze, è una legge storica, che risulta dai varii elementi, che costituirono la società fiorentina nel Medio Evo.

Ma, finita che fu la prima serie di rivoluzioni, con gli Ordinamenti di Giano della Bella, non finiva perciò la guerra civile. Come i nobili del contado, demoliti che furono i loro castelli, non scomparvero affatto, ma entrarono dentro la Città; così, esclusi ora dal governo, non per questo scomparvero affatto, ma s'unirono ad una parte del popolo, cioè ai capi delle principali Arti, e si formò il partito delle Arti maggiori contro le minori, del popolo grasso contro il popolo minuto. Questo rappresentava ora la democrazia già avanzata, quello che oggi diremmo il partito radicale: era l'infima plebe, la quale non capiva, perchè essa, che aveva preso parte alle guerre civili contro i nobili, alle battaglie contro i castelli, dovesse rimanere esclusa dal governo. E quindi, se la prima guerra civile era cominciata per escludere i nobili dal governo, la seconda non fu fatta per escluderne il popolo grasso, ma perchè il popolo minuto voleva insieme con esso avervi la sua parte. E come nel 1293 vedemmo l'ultima conseguenza logica del primo periodo, così nel 1378, col tumulto dei Ciompi, abbiamo l'ultima conseguenza logica del secondo, ed il popolo minuto sale finalmente anch'esso al governo, rimanendo in continuo contrasto coi ricchi. La plebe sin dal principio eccedette nei suoi trionfi, ed allora comparvero sulla scena i Medici, i quali, appoggiandosi ad essa, con accortezza impareggiabile, s'impadronirono del governo. E così la Repubblica, dopo quasi un altro secolo di lotte, finalmente cadde.

Questa storia fiorentina, adunque, non è un mistero, non è una serie di rivoluzioni sottoposte al caso; essa è invece chiara come una proposizione geometrica. Le sue rivoluzioni hanno una causa costante; il suo scopo politico è sempre lo stesso. Dal giorno in cui il Comune ha messo la prima pietra, noi possiamo, se studiamo quali sono gli elementi che lo compongono, determinare logicamente, prevedere sicuramente quali saranno le rivoluzioni, cui esso anderà soggetto. Sotto i Medici noi troviamo che sono scomparse le Consorterie, la cui distruzione era in fatti cominciata sin dal 1293. Troviamo che le Arti ancora esistono, ma hanno perduto ogni importanza politica; vediamo un governo forte, accentrato; una società che par quasi una società moderna. Una grande uguaglianza civile apparisce per tutto; non più classi, nè gruppi separati ed ostili; non titoli di nobiltà; non privilegi di alcuna sorte; dagli ultimi si può salire, a forza d'ingegno, ai supremi gradi sociali. Sotto un tale aspetto può dirsi che il Comune abbia raggiunto il fine cui aveva sempre mirato, abbia ottenuto un vero trionfo.

VIII

Ma questa, pur troppo, è un'ora funesta per lo spirito italiano; è l'ora in cui incominciano la nostra corruzione e la nostra decadenza. La società del Medio Evo più non esiste. Quelle associazioni a cui gli uomini erano stati così affezionati, fra le quali avevano vissuto, per le quali avevano combattuto ed erano morti, si sono disciolte; ma la nazione non si è ancora formata. La piccola patria più non esiste, la nuova ancora non si è formata. L'uomo del Medio Evo è scomparso, e l'uomo moderno è nato, l'uomo, cioè, che deve fidare nelle sole sue forze, nel solo suo ingegno, nella sola sua operosità; ma esso è nato prima che si sia costituita la nazione. La conseguenza è che l'Italiano di questo nuovo periodo, che si chiama il Rinascimento, si trova come ad un tratto isolato nel mondo. Egli non può fidare in altri che in sè stesso, egli non ha nessuno per cui vivere, nè c'è alcuno che viva per lui. Egli si abbandona quindi al suo egoismo personale, nel momento stesso in cui si aumentano, si acuiscono le forze della sua attività e del suo ingegno. La decadenza morale incomincia quando il progresso intellettuale continua più rapido che mai. E noi abbiamo un popolo, in cui la cultura progredisce, in cui la scienza s'innalza, ma nel quale il livello morale continuamente, rapidamente si abbassa. La nostra splendida letteratura rivela anch'essa questa morale decadenza. Noi vediamo apparire sulle labbra dell'Italiano quel cinico sorriso, che ci è così spesso descritto nelle nostre commedie, nelle nostre novelle, in cui si beffeggiano le cose più sante, e l'amore è privo d'ogni sentimento davvero umano, e tutti gli affetti più nobili sono scomparsi, quando non sono derisi. Lo scrittore somiglia allora a quei romanzieri moderni, i quali, descrivendo il demi-monde, credono di descrivere il mondo. E noi vediamo quegli accorti politici italiani, che sono i maestri di tutti in Europa, che rappresentano la sapienza diplomatica, che dovunque vanno sono ammirati, non riescire in casa loro ad altro, che a costruire un mondo, il quale cade sotto il peso della sua stessa corruzione. Vediamo questi uomini, che sono i primi calcolatori del mondo, calcolar sempre e sbagliare tutti i loro calcoli, perchè essi hanno dimenticato che nella vita umana v'è qualche cosa che non si pesa e non si misura, che non si ragiona e non si calcola, ma si sente, ed essi non la sentivano più. I tiranni italiani di quel tempo ci presentano anch'essi un singolare spettacolo. Noi li vediamo apparecchiare i loro veleni, affilare i loro pugnali, ridere di Dio, e tremare dinanzi all'astrologo, da cui aspettano di conoscere l'ora propizia ai loro delitti.

La storia, o Signori, non è una filosofia, non è una predica morale, non fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa vi ripeterà di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, è l'abnegazione; che ciò che solo può rendere l'uomo felice sulla terra, è il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della nostra esistenza, e dal quale solamente la vita può ricevere il suo valore e la sua dignità, quello è il momento in cui il carattere morale s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la decadenza diventa allora inevitabile.

Ma vi è ancora un'ultima osservazione. Gli stranieri, i quali si sono mossi a studiare il Rinascimento, hanno detto: Ecco una nazione, la quale, nel momento in cui più le sue arti e le sue lettere fioriscono, nel momento in cui le più nobili qualità del suo ingegno si manifestano, si corrompe sempre più rapidamente; ecco una nazione che cinicamente ride sempre di tutto, una nazione che, allora quando più fiorisce intellettualmente, è priva di ogni fede. Quelle idee stesse, che saran sempre sua gloria, che essa mise nel mondo con la sua arte, la sua letteratura, la sua scienza, percorrono l'Europa, e ne fecondano la civiltà, perchè vi trovano un'atmosfera morale; ma in Italia non riescono ad impedire la sua decadenza, perchè in essa il senso morale è pervertito. E ne hanno concluso, che, quasi per legge di natura, nel nostro carattere nazionale risplendono l'ingegno e tutte le qualità intellettuali, ma sono invece offuscate le morali. Manca la vera intimità, come essi dicono, del cuore, dell'animo. E però anche nella loro arte gl'Italiani vedono più la forma che la sostanza, più il sensibile che l'intelligibile e l'ideale. Quando si vogliono davvero penetrare i misteri dell'anima, rappresentare la profondità, la santità degli umani sentimenti, occorre rivolgersi alle nazioni germaniche, che vi riescono assai meglio, perchè questo è il loro proprio regno, nel quale agl'Italiani non è dato entrare. Uno storico tedesco di grandissimo valore, che meglio d'ogni altro conosce il nostro Rinascimento, il Burckhardt, a questo proposito, osservava: Ma se fosse proprio vero che il carattere degl'Italiani fu quale voi lo descrivete; se non fossero allora vissuti altri che i Borgia, gli Sforza, i Malatesta, e i più corrotti novellieri avessero davvero rappresentato tutto l'essere morale della nazione, questa sarebbe caduta in un tale abisso da non poterne mai più risorgere in eterno. Il vostro giudizio deve certamente avere qualche cosa di unilaterale, di erroneo. È meglio lasciare in pace i popoli, quando non si è in grado di giudicarli serenamente, sicuramente.

Ed invero queste condanne nazionali, che pretendono essere giudizii imparziali, dimenticano prima di tutto, che la storia del pensiero italiano cominciò allora con Dante e si chiuse con Michelangelo, le due intelligenze, cioè, che hanno in supremo grado quelle qualità appunto che si vorrebbero a noi negare; hanno tutta quella così detta intimità, tutto quel carattere epico, tragico, che nello spirito italiano dovrebbe assolutamente mancare, perchè manca nel Rinascimento. Dante e Michelangelo, si disse, furono due eccezioni. Certo i sommi ingegni sono eccezioni; ma sono pur quelli che meglio rappresentano il paese che li produce. E dimenticano ancora, che la storia da noi conosciuta, da noi studiata si occupa quasi sempre di quei soli ordini sociali che, nel Rinascimento italiano, furono primi a sentire l'azione corruttrice dell'atmosfera politica mutata, e che perciò più rapidamente si erano corrotti, avendo subito preso parte al nuovo vivere sociale. Che se quegli scrittori avessero voluto studiare davvero quali erano allora le condizioni dello spirito italiano, avrebbero dovuto esaminare anche gli ordini inferiori della società, nei quali, in tutti i tempi, le vecchie tradizioni si mantengono più lungamente, e vedere quali sentimenti, quali caratteri erano in essi. Avrebbero allora modificato i proprii giudizii. Una prova sicura di quanto diciamo si ebbe recentemente in due libri, che furono pubblicati dal compianto Cesare Guasti, e sono gli epistolarii d'un oscuro notaio fiorentino e di una gentildonna, che non aveva molta coltura. Ebbene, leggendo tali lettere (quelle del notaio Mazzei sono della fine del XIV secolo e dei primi del XV; quelle della Macinghi Strozzi, sono della fine del secolo XV), leggendole, ci par di tornare quasi due secoli indietro. Noi ritroviamo in esse ancora vivi tutti quei più puri sentimenti morali, che ricordano i tempi in cui la Repubblica veniva fondata, quando Firenze viveva sobria e pudica, e possiamo non solo scoprire un altro lato della società di quel tempo, ma vedere anche quali furono veramente gli uomini che fondarono la libertà, quali i loro animi quando essi crearono quelle grandi istituzioni, che i politici e letterati del Rinascimento cominciavano a disfare. Chi vuole accuratamente conoscere il Rinascimento e l'opera sua, per cavarne giudizii generali sull'indole del popolo italiano, dovrebbe pur distinguere ciò che in esso sopravvive del passato, e dà ancora frutti di cui il solo Rinascimento sarebbe stato incapace. Nel popolo, negli ordini inferiori della società, questo passato sopravvive sempre più tenacemente, e si può meglio studiarlo. Anche ai nostri giorni si ritrovano qualche volta gli avanzi di un passato assai lontano, che non dobbiamo trascurare nelle società moderne, se vogliamo conoscere bene il tempo in cui viviamo. A giudicarla tutta, la società bisogna esaminarla da tutti i lati.

Certo quando noi guardiamo in Firenze il Duomo, il Palazzo Vecchio e gli altri monumenti che gli stranieri tanto ammirano e tanto studiano, dobbiamo ammirarli anche noi. Ma, sebbene assai pochi vi pensino, non meno ammirabile è la condizione in cui la Repubblica fiorentina lasciò le campagne della Toscana, non per le amene colline, non per le ricche messi, ma per l'armonia sociale che vi regna, per le condizioni economiche in cui l'antica Repubblica pose il contadino. Nel 1289 i Fiorentini fecero una legge, la quale, con un linguaggio che sembra quello stesso dell'Assemblea Costituente in Francia, dichiarava che la libertà è sacra, inalienabile, che è voluta da Dio, è necessaria alla prosperità di tutto il popolo, e liberava perciò i contadini da ogni servitù. E sono questi i tempi medesimi, in cui s'iniziava quel contratto agrario che fino ai nostri giorni fu tanto ammirato, che il nobile animo del Sismondi chiamava uno dei grandi monumenti della sapienza civile degl'Italiani, che gli economisti moderni dichiarano uno dei mezzi più efficaci a liberare la società moderna dal pericolo sociale d'un conflitto di classi, da cui essa sembra minacciata. E questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della società spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Così si chiamarono allora, e così si chiamano oggi. E allora come ora, o Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che è tanta parte della prosperità nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come noi, e crescere con la sua la nostra felicità. E questo fu fatto dai Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto sentimento morale.

Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze, soleva dire che i Fiorentini non avevano mai così bene impiegato il loro denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiamò nella Città tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono mai così profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperità economica, ma io credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperità intellettuale e morale. Forse anzi in ciò sta una non ultima ragione del perchè tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia inutile il non avere lo sguardo turbato dalle ingiuste sofferenze di coloro che onestamente lavorano. Credo invece, che giovi assai agli artisti ed ai poeti, i quali si sollevano nel regno dell'arte; giovi, affinchè le creazioni della loro fantasia serbino tutta la sacra purità dell'ideale, il serbare, con la mente serena, una coscienza non tormentata da rimorsi. – Ma allora quelle immagini divine dei poeti, dei pittori del Trecento e del Quattrocento, di cui parlammo, non ci appariranno più come l'Angelo di Dante nella bolgia infernale, che traversa sdegnoso, frettoloso la palude Stige. Esse non vengono di fuori, sono nate nella coscienza stessa di questo popolo, nei giorni in cui difendeva la libertà e rispettava la giustizia, sono come la sostanza stessa della sua anima. E così, o Signori, voi vedete, io spero, come lo studio delle origini possa gettare una qualche luce o rischiarare anche i fatti della storia posteriore del Comune e della società italiana.

VENEZIA E LE REPUBBLICHE MARINARE

DI
P. G. MOLMENTI

Signore e Signori,

E dove a chi potrei oggi meglio parlare di Venezia, se non a voi qui in Firenze, in Firenze così legata alla città delle lagune anche da recenti prove d'affetto? Voi la conoscete, ma è sempre curioso il ricordarla la storia di codeste genti veneziane, che non aspettano la loro fortuna, come limosina dal caso, ma la conquistano colla prodezza e l'accorgimento: si fanno innanzi tra la larva d'impero dei Cesari bizantini e i rinnovantisi invasori stranieri, divengono signori di grandi traffichi e conquistatori di vaste provincie, fiaccano l'orgoglio dei maggiorenti e abbassano l'insolenza del popolo, piantano il vessillo repubblicano sulle torri del palazzo imperiale di Bisanzio, divengono i guardiani d'Italia contro gl'infedeli della religione e gli infedeli della libertà; non s'abbassano mai nè anche quando li stringe da presso il nemico: passano, a traverso la storia, eroi talvolta, talvolta uomini pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichità alla romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accennerò, o signori, alle umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare d'Italia se non per ciò che con Venezia ha rapporto.

Quella regione, da una parte racchiusa dall'Adige e dal Timavo, dall'altra lambita dalla curva settentrionale del golfo Adriatico e difesa dalle Alpi tirolesi e carintie, era conosciuta dai Romani col nome di Veneto. Le origini degli abitanti si collegavano ad Ilio, secondo una tradizione non del tutto creata dalla boria nazionale, ma ravvalorata dai versi dell'Eneide (I, 246). Eneti viene dal greco e vuol dire laudabiles, ma ai veneti cronachisti la nobiltà del cuore non basta e trovano che la voce enetici viene da Enea.

La regione era lieta di città popolose e fiorenti: Padova, Aquilea, Altino, Verona; di paesi ferventi di vita: Ateste, Monselice, Concordia, Treviso, Vicenza, Oderzo, Belluno, Ceneda, Acelo (Asolo). Collocati alle porte orientali d'Italia, caddero primi, nel V secolo, sotto l'impeto delle turbe barbariche, che diruparono dalle Alpi. Gli abitanti, dinanzi a quelle disperate catastrofi, cercarono rifugio là dove le acque dei fiumi dell'Italia superiore, giungendo al mare si fermano, stagnano, si dilatano in lagune. Nulla però in esse d'insalubre. Il Lido, stretta lingua di terra, che separa dal mare la laguna, è rotto in varie aperture, in vari porti, che lasciano libero il corso delle acque. Il flusso marino, che ora copre or lascia a secco quei fondi melmosi, porta via ogni germe mefitico. Nulla di triste. Il cielo, che non splende del troppo vivo fulgore meridionale e non ha la fredda vaporosità del settentrione, si rispecchia nelle acque con quei magici riflessi, con quella smorzatura di toni, con quelle armonie di tinte, che educarono l'occhio dei pittori veneziani. Erano isole, se non deliziose e frequenti, come alcuni sognarono, non abbandonate e squallide, come credettero altri, e abitate e conosciute dai naviganti del tempo romano. Si può arguir ciò da alcuni passi che a quelle isole si riferiscono in Mela, in Tacito, in Plinio, nell'Itinerario di Antonino, in Erodiano. I due limiti estremi della regione insulare, non esposta all'ira degli invasori, cui mancava il navilio, erano, da una parte Grado, dall'altra, Capo d'Argine.

Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perchè uno degli aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si riferisce ad Altino, città prospera per commercio, magnifica per edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenità delle ville, degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale:

Æmula Bajanis Altini litora villis.

I primi cronachisti veneti illuminano di luce poetica e religiosa le antiche dimore dei loro padri. Tutti i grandi popoli, dalla Grecia e da Roma a Venezia, hanno carezzata la loro origine leggendaria, e più da essa si sono allontanati, grandeggiando, più si compiacquero non a collegarsi con umili e rozze origini storiche, sinceramente esplorate, ma con quel vago e indefinito della leggenda, che ritrova anche nei primi albori della vita la grandezza. Così le città greche rannodarono le antiche origini con gl'Iddii. Narra la cronaca d'Altino come agli Altinati e agli Aquileiesi Iddio abbia manifestata l'imminente venuta degli Unni. Ciò avveniva nel 452, e si sa come siano intimamente collegate l'origine di Venezia e la leggenda di Attila, intorno alla quale si raccolse ogni ricordanza di distruzione, di sangue, di stragi. Gli uccelli nidificanti nelle mura e sulle torri di Altino fuggirono portando nei becchi i loro nati. Non sapendo una parte di cittadini dove trovare uno scampo, dopo un digiuno di tre giorni pregarono Iddio di manifestar loro se dovessero affidarsi alla terra o alle navi. Si udì una voce: Ascendete sulla torre e guardate verso la parte australe. Molti montarono sulla torre e videro in vicinanza alcune isole, e per tali figure s'intese che doveasi andar là ad abitare. Un terzo circa di cittadini, preceduti dai tribuni e dal clero, si diresse con barche alle lagune e fondò la celebre Torcello. Due sacerdoti, Geminiano e Mauro, incuoravano i fuggitivi e gli spiriti atterriti si commovevano, si sublimavano nelle visioni dell'infinito. Appariva allora a Mauro una bianca nube, dalla quale, insieme con due raggi di sole, scendea la voce di Dio, che imponeva di innalzare in quel luogo una chiesa. Alla voce di Maria, che dava, in altro sito, lo stesso comando, seguiva un prodigioso miraggio: le bianche nubi si squarciarono e lasciarono vedere lidi fiorenti, pieni di popolo e di gregge.

Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.

Una cronaca, di poco posteriore all'Altinate, quella di Grado, narra che il patriarca Paolo, ritornando coi profughi all'antica patria, Aquileia, ebbe una visione, dalla quale apprese come la sævissima longobardorum rabies avesse distrutto quella città. Egli allora si ritirò a Grado, divenuta poi la più ricca fra le isole veneziane e la sede principale della potestà ecclesiastica.

Eraclea, popolata essa pure da Aquileiesi e dal fiore degli Opitergini, fu sede del governo.

I profughi di Asolo e di Feltre ripararono a Jesolo, più tardi chiamata Equilio, per le razze dei cavalli, che vi si allevavano.

Gli scampati dalla distruzione di Padova si ridussero a Matemauco, l'odierno Malamocco.

Il popolo di Concordia cercò riparo nell'isola, dalle capre che vi condussero i pastori, chiamata Oaprule ed oggi Caorle.

Vissero tutte la fulgida vita della giocondità e della ricchezza. Ora, dove esse sorgevano, si è fatto un triste deserto. Qua e là qualche rudero; eco romita dei vecchi secoli. Vi regnano lo squallore e la malaria.

Esiste ancora in tutta la suprema bellezza dell'arte e delle memorie, Rivoalto, la più modesta di tutte le isole, che a poco a poco unita ad Olivolo, indi a Luprio e finalmente alle Gemine e a Dorsoduro, formò l'odierna Venezia.

L'operosità rinvigorita della sventura e la forza raddoppiata dagli ostacoli animano quella moltitudine di persone, varie di condizioni, di costumi, di sesso, di età, e cento anni circa dopo la distruzione di Attila, i nuovi abitatori delle isole sono descritti con vivi colori da Cassiodoro, in una lettera magniloquente ai tribuni marittimi delle lagune, probabilmente ufficiali inferiori goti, ai quali il ministro, a nome regio, ordina di preparare le navi per trasportare dall'Istria a Ravenna il vino e l'olio.

Provveduti di navilio, arditi sfidano le tempeste del mare e le correnti dei fiumi: erigono case, come nidi d'uccelli marini; collegano la terra con fascine e dighe: ammucchiano sabbia per rompere le onde infuriate: convivono in eguaglianza poveri e ricchi; non invidia, non vizî li macchiano; ogni loro emulazione sta nel lavoro delle saline, da cui nasce il frutto al quale ogni produzione è soggetta e che dell'oro è assai più prezioso.

Nessuna descrizione più attraente, quantunque il ministro di Teodorico fosse disposto ad abbellire il quadro, oltre che dall'indole sua, anche dal bisogno che aveva il suo sovrano di trasportar vettovaglie coi navigli di quei Veneti, i quali del resto riconoscevano nei conquistatori goti l'alto dominio sulle isole.

Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo squallore dei bassi tempi alla luce di un'êra novella, si rianima. Noi la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare negli esuli il rimpianto e le memorie delle città disparite, gli splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; là, il furiar delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e in esso cercarono la gloria. – Lotta e gloria – ecco il grido anche dei secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura delle difficoltà e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa passione li agita, li comanda, li possiede.

Alla vita frugale e laboriosa seguono più prospere condizioni. S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni più breve isoletta è abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni e di lotte. Nella Venezia continentale, da prima si agitano guerre fra Ostrogoti e Bizantini, fra Bizantini e Franchi e Longobardi: poi lotte dei patriarchi di Aquileia e Grado e dei vescovi veneti ora coi Longobardi, or coi Bizantini, e controversie fra il papa e i patriarchi e i vescovi. In breve la pace incominciò a turbarsi anche nella Venezia marittima.

La prima costituzione politica, il reggimento dei tribuni marittimi, fu imitato dai Bizantini, sotto la sudditanza dei quali, sciolti ormai dalla gotica, passarono i Veneti. Confermano ciò, tra le fonti più antiche, la Storia gotica di Procopio, le inscrizioni di Grado del secolo VI, edite dal Filiasi e dal Mommsen, la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono e gli Annali del franco Eginardo. Allorchè i Bizantini perdettero le città più importanti della Venezia terrestre e ritirarono anche dalle isole i loro eserciti, gli abitanti, non più soggetti a un dominio immediato, elessero un libero reggimento militare di tribuni.

Cessati i pericoli e la pietà e i ricordi delle comuni sventure, incominciarono le rivalità fra le isole, più o meno importanti, fra i tribuni maggiori e minori; poi sorsero contese sui confini o sulla proprietà delle terre coi Longobardi vicini, si sentì necessario creare nelle isole un capo unico, un duce, che il popolo, col suo liquido eloquio, chiamò doxe, titolo ritenuto poi sempre e con lievi mutamenti anche nella lingua e nelle relazioni internazionali. Al nuovo capo, eletto a vita, podestà quasi da sovrano, ricchezza di redditi e di insegne, pari alla dignità, spada, scettro e corona; ei giudice di liti e datore di ecclesiastici benefici: a lui il popolo richiedeva perfino la benedizione nelle adunanze solenni. Tuttavia le cause importanti dovevano essere trattate nell'assemblea generale e non già dal doge come sovrano assoluto.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain