Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte II», sayfa 4
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In tutta questa intima storia è una temperanza meravigliosa; nessun segno mai d'ira, o di risentimento, giammai! Felice nella scelta delle cose da dire fra tante che ne ha omesse; felicissimo per avere con magistero d'arte, tanto più solenne quanto più nelle apparenze dimessa e spontanea, saputo presentare alla fantasia del lettore un gran personaggio, benchè nominato due o tre volte appena, e con tutta semplicità… L'ombra imperiale nella lettura del libro si proietta sempre in certo modo dinanzi a voi, fino al momento nel quale l'artista, con un tocco alla Shakespeare, la suscita e la fa giganteggiare sinistramente nel giardino di Vienna, quand'egli, il Pellico, con altri reduci dallo Spielberg e sotto custodia, là ritrovandosi, viene quivi a passare l'imperatore; e il commissario li fa sollecito ritirare, perchè la vista delle loro sparute persone non attristi il cuore di lui!
Quanto alla politica, l'autore, simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, protesta di volerla lasciare in disparte, e la lascia; ma, ciò nondimeno, la politica, nulla curandosi di questo broncio, sembra voglia governare a sua posta, non solo nello spettro dell'innominato protagonista, ma in tutto quanto il soggetto; onde il Pellico, col suo mitissimo libro, duraturo finchè gli uomini avran bisogno di piangere, necessità di sperare, e, leggendo, di farsi migliori, diede all'Austria la più fiera delle sconfitte, e all'Italia acquistò una vittoria non più mai disputabile nella coscienza civile delle nazioni.
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E questo libro così forte nella sua mansuetudine, ond'ebbe ed avrà sempre sugli animi una efficacia infinitamente maggiore di ogni altro libro siffatto, ei lo dettava, o Signori, con altre opere degne, dopo lo Spielberg; argomento questo a far cauto chi fosse per avventura tentato di credere, che il Pellico, uscito di carcere, recasse, con le fisiche infermità, anche una specie di anemia letteraria, prodotta soprattutto dalla sua fede, e che questa e lo Spielberg avessero in lui, se non spenta, ammorzata ogni fiamma di affetto, inaridita ogni sorgente di nobile ispirazione, essiccata quella limpida vena (che pareva sì ricca ed inesauribile) del suo amore di patria. No, miei Signori; Silvio Pellico fu imprigionato nel pieno fervore della sua giovinezza, con tutto il confidente suo ingegno, le rosee illusioni, le fiere baldanze dell'età sua; ne uscì uomo, col senno maturato dalla più dura delle esperienze, coll'animo ritemprato dalla sventura; ma sempre lui, Silvio Pellico, in tutto. E se altri voglia chiamar debolezza il suo abbandonarsi alla fede, ma io benedico a questa debolezza, o Signori, perchè ad essa principalmente dobbiamo se il Pellico fu più forte dei suoi dolori, e «se lo Spielberg (ripeterò col Gioberti), non è più oggi un inferno di vivi, nè un'infamia del secolo, ma è reliquia di martiri, e monumento di patria virtù.»
E questa sua debolezza non gl'impedì di dettare, uscito dal carcere, e pur colà meditati, anche i Doveri degli uomini, libriccino più sapiente di un codice; e non scarsa parte di quelle Tragedie, che, pur coi loro difetti, dovevano, nella riforma del teatro italiano, accostare il suo nome all'Alfieri.
Il Pellico, infatti, ammiratore dell'Astigiano, si attenne, finchè potè, alla forma di lui, ma fu originale nel resto; indi il divario dei caratteri nelle tragedie di entrambi: il primo, fiero ed in guerra, mal può indugiarsi a dipingere i teneri sentimenti; il secondo, mite ed in pace, spazia volentieri nelle regioni dei dolcissimi affetti: l'Alfieri è sempre l'irato vate che muove guerra implacata ai tiranni; il Pellico è anch'egli costantemente poeta di libertà, ma è insieme poeta di amore. Egli pure, il Pellico, non ignora gli abusi del cuore umano; ma somiglia, si disse, e quell'angelo, che mentre scrive il peccato, lo cancella pietoso col pianto.
Il nostro Silvio chiude il suo corso poetico con le Liriche, dov'ei ripercorre gli anni che furono, e quante ebbe occasioni di godere e soffrire; gli tornano al pensiero mesto i ricordi della fanciullezza, la famiglia, gli amici, i giorni delle prove, i dolori, la santità degli asili e dei templi, le dolci visioni di amore… «Poesia, che, pur di attingere le altezze morali, più non cura affidarsi ai segreti dell'arte, e anche dimentica l'efficace soccorso della forma eletta, attraente. Questa poesia, pertanto, che è d'ogni nobile spirito, seguiterà a vibrargli nell'animo, ma Iddio solo l'udrà.»
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Il mondo, intanto, lo cerca, lo festeggia, gli si affolla dintorno, ma egli oramai se ne ritrae sbigottito, a non turbare il suo riposo bramato e ottenuto; e se non gli fosse rimasto con chi sotto il caro tetto domestico, e poi coi beneficenti Barolo, esercitare le pietose facoltà del suo cuore, si sarebbe (egli scrive) chiuso in un chiostro, per servire e soccorrere agl'infelici. E quando di nuovo lo visita la sventura colla perdita dei genitori e d'uno dei cari fratelli, Luigi; e quando qualche tentazione delle antiche sfiducie novamente lo assale; il suo dolore ed i suoi scoramenti sono temperati dalla stessa pietà.
E ciò vediamo più apertamente che mai nel suo Epistolario, il quale, per me, più che storia, è confessione di vita. Le lettere che, liberato, torna a scrivere piene di affetto giovanile, mirabili per dottrina e per vigore di sentimento, ai genitori, ai fratelli, agli amici, ai Porro, alla Marchesa di Barolo, al suo Confalonieri, uscito finalmente egli pure dallo Spielberg, sono il riflesso dello spirito suo, come ne sono fedelissimo specchio quelle inedite, da lui dirette alla Donna gentile, la quale ebbe anch'essa a occupare gran parte de' pensieri del nostro Pellico durante la prigionia, e mescersi di frequente ai suoi dolori, e sorridere ai suoi conforti, e confortarlo essa stessa con le altre rimembranze dilette. E come no, se nelle lettere che precedono la cattura ei la invoca coi nomi più dolci, di madre, di sorella, di amica, pieno per lei di un affetto il più vivo, quantunque non l'abbia mai ancora veduta, nè debba vederla che una volta soltanto, in Firenze, trent'anni dopo? E come no, se poco innanzi l'arresto, parlando ad essa del proprio ritratto che le ha inviato: «Niuno onore (le scrive) mi è stato tanto caro, quanto quello che mi fai tu, amica adorata, tenendomi nella tua stanzetta di studio, e fissando in me i nobili, affettuosi tuoi sguardi. Ho letto di certi santi che si staccavan dal quadro dove eran dipinti, e venivano giù in carne e in ossa ad abbracciare i loro diletti. Oh! se potessi, Quirina, operare questo miracolo anch'io!»
E avvenuta la liberazione, e ripresa con lei più frequente e non meno affettuosa la corrispondenza interrotta, la prosegue costante, finchè il conforto della dolcissima donna non viene, per morte di essa, a mancargli. E in queste lettere le confessa che nei lunghi anni del suo dolore ha spesso ricordato le sue virtù, e ne ha spesso parlato col Maroncelli. Ora è naturale che a lei schiuda Silvio tutto l'animo suo, e le narri l'intima storia de' suoi ultimi anni. Bastano pochi tratti di queste intime confessioni, per sorprendervi intero il pensiero ed il cuore di lui. Udite. Deplora in una di esse le troppe, inevitabili, visite dei curiosi e degl'importuni, e tra questi, di coloro che vorrebbero ricondurlo alla vita attiva politica, e aggiunge: «Solita enorme pazzia di gente, la quale sogna ch'io debba mischiarmi di politica, e che non si possa essere stati allo Spielberg senza prender parte pro o contro ai fanatismi dei guelfi e dei ghibellini, a cui mi sfiato a rispondere: Amo la patria quanto voi, e probabilmente più di voi; ma son nemico delle stolte e funeste guerre civili, e detesto le follie che possono trarre a ciò, e a nessun bene pubblico.» E in un'altra: «Dacchè ho passato dieci anni in solitudine dolorosa, il più delle volte mi par d'essere in una generazione che non mi appartiene più, tranne pochissimi. Ho soli 47 anni, ma sono vecchio di cento; e la stirpe che mi si agita intorno, è tutta calda di amori e di odj, che non so e che non voglio dividere… Temono ciò ch'io non temo, sperano ciò ch'io non spero, ambiscono ciò ch'io non ambisco. Il torto non è mio, nè di questa nuova generazione. Non vi è torto, ma semplicemente un fatto, che io ravviso come un fatto, e di cui non mi lagno. Io sono un risuscitato, a cui tutti i viventi fanno buon viso, ed io lo fo loro; ma le abitudini di essi e le mie hanno a vicenda un non so che di straniero… E allora, le mie fantasie, che poco si dilettano del presente, cercano con amore il passato. Il passato per me si compone di due secoli, fortemente impressi nella memoria: e furono, la mia giovinezza, e gli anni di prigionia. Penso molto, e più che altrui non appare, a quei periodi lontani. Vi penso anche quando sto in società; e, strana cosa! mentre inorridisco dei giorni che ho vissuto nei massimi dolori, pur non posso, o Quirina, allontanarli dalla mente; ed anzi, mi nasce da quelle tristissime ricordanze una specie di vita interna, che mi conforta e mi piace. E questa vita, e questo sentirmi segregato dalla maggior parte degli uomini d'oggidì, questo rammemorare tanti amici miei che più non sono sulla terra; insomma, questa mia stranierità d'uomo risuscitato, è una vita assai singolare, poco lieta, e nondimeno poetica, sentitissima, e direi quasi buona, perchè mi è diventata natura, e mi sforza a religione, a preghiera.»
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Così, o Signori, fra i ricordi del passato, le solitudini del presente, la carità, l'amicizia, l'amore, visse i suoi ultimi anni quest'uomo, sì modesto e sì grande; che per l'ingegno, per l'animo, per l'opera sua fu vanto d'Italia; che sollevò a religione l'amore stesso di patria; che senza maledire a nessuno, con la dolce parola, apostolo del perdono, riaprì (fu scritto) l'adito alla mitezza cristiana negli orrori stessi del carcere; quest'uomo, il cui alto ideale fu la bontà, il cui splendido regno l'amore; onde il soave amore di donna gl'ispirò la Francesca; il sacro amore di patria Le Mie Prigioni; il santo amor della fede I Doveri ed i Canti.
E se è vero, come si disse, e come non può esser negato, che il culto all'Italia ebbe origini sotterranee, nè mai fu più nobile di quando echeggiò sotto i piedi dell'inimico; oh! come ci comparisce ammirando quest'umile sacerdote delle catacombe italiane!
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Nella stanza solinga dove Silvio moriva, due reliquie, fra le altre, preziose, doverono richiamare, o Signori, con attrattiva mestamente soave gli ultimi sguardi del poeta e del martire: una piccola scrivania, che già appartenne al Parini, e che aveva seguìto Silvio nel carcere; un orologio, che già fu dell'Alfieri, e che al Pellico aveva voluto la Donna gentile donare, uscito ch'ei fu dallo Spielberg. Or quell'oggetto, sul quale il Parini ebbe forse meditati i suoi Canti d'italica morale resurrezione, e Silvio ebbe forse dettate Le Mie Prigioni, legava egli con delicato pensiero, in pietoso ricordo, al venerato ministro, che nelle ore estreme accompagnava la sua anima grande sul limitare dell'eternità, e gli rammentava le immortali speranze.
E quell'orologio, che nei confini del tempo aveva segnato gli avvenimenti così profondamente diversi di quelle due vite, dell'Alfieri e del Pellico, durava ora lì a ricordare eziandio colla ugualità dei suoi moti il palpito uguale, costante, di quei due cuori per la grandezza e la libertà della Patria. E quando il Pellico, chiuso per sempre lo sguardo alle caducità della terra, lo riapriva agli eterni fulgori, quell'orologio, che fu ricordo di gloria e pegno di amore, continuava lì co' suoi palpiti a raccontare la storia di quei due generosi, e a mormorare come un lamento, per la scomparsa del martire, che visse soffrendo ed amando, e che nel dolore sublimò l'amor suo e la sua fede nei sacri destini d'Italia.
LE SOCIETÀ SEGRETE IN ROMAGNA
E LA RIVOLUZIONE DEL 1831
CONFERENZA
DI
ERNESTO MASI
Me ne dispiace per voi, ma anche questa volta la politica ne ha fatta una delle sue, ed ha privato voi del piacere di ascoltare Ferdinando Martini ed ha costretto la Direzione delle Conferenze, in tanta pressura di tempo, a incaricar me di sostituirlo.
Non ho voluto sostituirlo anche nel tema, che spero egli potrà trattare prima o poi, ed ho preferito tentar di riempire alla meglio un vuoto, che anche alla Direzione pareva fosse rimasto nel programma di quest'anno, parlandovi delle società segrete di Romagna e della Rivoluzione del 1831.
Quello delle società segrete in Italia è un tema attraente e difficilissimo.
Perchè sia attraente, non ho bisogno di molte parole per dimostrarlo. La sua attrazione, se altro non ci fosse, sta in quell'aggettivo: segrete. Scoprire un segreto? che cosa c'è che metta in maggiore agitazione tutte le fibre della povera e limitata natura umana? che cosa c'è altresì di più comune? Il mondo intiero è un segreto e tentare di scoprirlo, e illudersi ogni tanto d'averlo scoperto, è forse il solo perchè di tutta la nostra esistenza. Basta dire quindi: società segrete, e l'attenzione, la curiosità si svegliano subito da per sè. Lo stesso Goldoni, che di tutto faceva soggetto d'osservazione comica, ha tratto dai primordi delle società segrete la materia d'una sua commedia: Le Donne curiose, e le quattro donne della Commedia rappresentano appunto la società, che fantasticava in mille guise sul mistero di quelle congreghe, le prime Logge dei Frammassoni, introdottesi per opera d'Inglesi girovaghi, alla metà circa del Settecento, prima in Firenze, poscia in Venezia ed altrove.
Attraente il tema è dunque di certo.
Difficilissimo per più ragioni. Dove trovare il documento schietto, immediato delle congiure?
Presso il cospiratore?
Ma il cospiratore avvezzo a simulare e dissimulare, a nascondere, a travestire il pensiero che lo agita, ben di rado lascia tracce del suo passaggio. Se anche ebbe momenti di abbandono, se si lasciò andare a confidarsi a qualcuno, ad un amico, ad una donna, se possedette una lista di nomi, una descrizione di luoghi, uno statuto, un formulario, un credo della sua fede politica, se mai scrisse o ricevette una lettera, un avviso, un messaggio, non velato abbastanza sotto il gergo geroglifico della setta, bastò una visita inaspettata, una scampanellata notturna alla porta di strada, un rumore insolito in casa, una faccia sospetta, che passasse, perch'egli in un subito facesse su alla rinfusa le sue carte e le gittasse in un nascondiglio impenetrabile o sulle fiamme.
Negli atti delle polizie inquirenti e sorvegliatrici?
Ma essi sono pieni di lacune, di ombre, di menzogne, di vanterìe, di calunnie, e ad ogni modo colgono qua e là un indizio, un segno; ricostruiscono a volte quello, che è già disciolto o trasformato da tempo; s'ingegnano di far corpo dei mille nonnulla, che hanno sorpresi, ma l'insieme della trama sfugge loro, confondono momenti, uomini, cose, e chi per ragione di studio ha avuto occasione di consultarli, sa bene che assegnamento si può fare su quegli atti, quando lo studioso non possa riscontrarli con tradizioni autorevoli, con ricordi personali o con altri documenti.
A proposito appunto delle cospirazioni politiche di Romagna dal 1815 al 31 mi ricordo io d'avere, anni sono, consultato un enorme registro della Polizia pontificia a Bologna, dov'era un elenco con note biografiche d'un'infinità di persone sospettate e sospettabili di spirito settario e avverso al governo. Erano persone morte da poco o ancor vive, ed è incredibile che razza d'abbagli, d'equivoci e di confusioni vi rinvenni. Stando a quel registro, per poco il Governo pontificio non avrebbe dovuto far carcerare per rivoluzionari pericolosissimi i canonici della Cattedrale.
Nei processi?
Ma essi seguono al fatto, che ha loro dato occasione, o risalgono poco più su; sono tutti rivolti a strappare la confessione o a cogliere le contraddizioni dei presunti rei; più spesso i processi stessi sono congiure, vòlte al fine immediato di punire, reprimere, incuter terrore, mostrare di saper tutto, anche quando poco o nulla si sa.
Resterebbero i documenti personali, le autobiografie, le Memorie dei cospiratori. Ma sono poche, scarse, e malfide anch'esse. La congiura (tutta la storia lo insegna), è un congegno sempre fragile, un'arma, che quasi sempre scoppia nelle mani di chi l'adopera, prima che la volontà dia lo scatto o si possa puntarla al segno, cui mira. Ma chi, se arrischiò in essa la libertà, la vita, gli averi, talvolta la fama, vorrà darsi torto d'essersi messo a tale cimento?
Poi il temperamento morale, che l'aver vissuto e trescato nelle cospirazioni politiche soleva formare, non era sempre il più adatto a far ricordare e a far narrare tutto il vero.
Ho pensato più volte che il temperamento dei nostri vecchi cospiratori politici somigliava su per giù a quello degli innamorati. Non è colpa loro; è colpa della professione. Vedono stretto e per lo più vedono falso. L'oggetto della loro passione gli occupa tutti. In quest'oggetto tutto è bene, verità, bellezza; il resto è male, falsità, bruttezza e quando cominciano a scoprire l'inganno, è appunto allora che sempre più s'incaponiscono a non volere confessare d'essersi sbagliati.
E non contate per nulla l'orgoglio, la gloria di aver cospirato? Quello dei veri cospiratori in buona fede, dei cospiratori cioè, che pagarono col sacrificio di sè e delle loro famiglie nelle carceri, nell'esiglio o sui patiboli l'audacia e, mettiamo pur anche, la inanità e la colpevolezza dei loro tentativi, era uno stato d'animo, che non ha riscontro possibile, se non nei primordi delle religioni, quando la fede arde come una fiamma nel segreto dei cuori, ed il mistero, di cui la nuova dottrina è costretta a circondarsi, centuplica l'intensità, il fervore, il coraggio della fede e del proselitismo nei fondatori, nei neofiti e nei loro aderenti. Le prime cospirazioni italiane, che seguono immediatamente la caduta dell'Impero Napoleonico sono veramente le catacombe dell'indipendenza e della libertà italiana. La tirannia, contro cui si lotta, e la materiale impossibilità d'una guerra aperta nascondono l'immoralità intrinseca della congiura, la quale è sempre per sè stessa una mancanza di schiettezza e di sincerità ed un giustificare i mezzi col fine, e danno aspetto serio e grave a quell'insieme di formole misteriose, di anfibologie settarie, di gerarchie, di riti, di cerimonie, di simboli, che non dimanda però minore sottomissione e minore abdicazione della libertà personale, di quello esigesse la tirannia, mentre poi s'arrogava esso pure il diritto di castigare ogni dissenso (le sètte condannavano a morte i dissidenti al pari dei tribunali statarii dell'Austria o dei nostri principi dipendenti da essa), di castigare, dico, ogni dissenso con altrettanto arbitrio di giudizio e con altrettanta ferocità. Ma a ciò non badavano i cospiratori. La dignità loro stava tutta nell'essere pochi contro i molti, deboli contro i forti. Era qui tutto il prestigio, il fàscino irresistibile, la poesia eroica della cospirazione. Il resto era una necessità non voluta da alcuno, ma creata ed imposta da uno stato di guerra permanente contro il potere pubblico, considerato a ragione quale nemico e ostacolo unico al diritto d'aver una patria; diritto naturale, che pone chi lo impugna al di fuori d'ogni legge e fa altrettanto per chi lo rivendica. Questi i postulati ideali dei cospiratori, dai quali postulati risultavano temperamenti morali, tendenze intellettuali ed abitudini e atteggiamenti anche esteriori così singolari, che chi non è giunto in tempo a vedere e a conoscere da vicino qualche sopravvissuto dell'età classica delle cospirazioni, difficilmente potrà mai rifarsene in mente un profilo esatto e compiuto.
Oggi questo tipo è scomparso, o si è trasmutato, od ha perduto ogni valore ed ogni curiosità, poichè, generalmente, cospirare sotto un regime di libertà è una scioccaggine o una bricconata.
Tanto più mi sono sempre doluto, avendone conosciuti parecchi e intimamente nella mia giovinezza, di non aver tenuto nota e ricordo dei loro racconti, siccome ho presenti ancora alla memoria quella specie di mestizia, che avevano anche in mezzo all'allegria, quella fissità, vigilanza e sospettosità di sguardo, quelle narrazioni, che lasciavano sempre in ombra qualche cosa, quel fare inquisitorio e scrutatore ad ogni persona nuova, in cui si imbattessero, quel trovar sempre sensi riposti anche in discorsi, che parevano indifferentissimi, e soprattutto quegli odii e quegli amori, sempre del pari inestinguibili, che avevano a cose o persone passate da lungo tempo, come di chi sapeva di eroismi o di peccati ignoti a tutti o da tutti dimenticati, ma che essi avevano scritti in un arcano libro, su cui tutto è registrato e nulla si cancella mai più.
Oggi, ripeto, questo tipo è scomparso; oggi il cospiratore è un tipo storico, o, meglio ancora, un oggetto da museo.
Ma sono del pari scomparse le abitudini morali, le pieghe, le inclinazioni, che certe vicende passate stampano talvolta nel carattere dei popoli? Non credo, e mi pare altresì che il modo, con cui da molti s'intende e si pratica oggi in Italia la libertà, quello stretto rinchiudersi entro ai partiti, oggi più personali che politici, quella fiacca prontezza di abdicare al libero arbitrio del proprio giudizio dinanzi a qualunque audace vanità, che sembri persona, siano in gran parte generazioni e putrefazioni finali di abitudini cospiratorie, con questo di più e di peggio, che il grande ideale patriottico, da cui erano nobilitati e scusati i vizi intrinseci delle cospirazioni, quel disinteresse, quell'abbandono di sè, quella costanza nel soffrire, quel sacrificio, che saliva talvolta fino all'eroismo, hanno ceduto il campo all'egoismo, alle volgari ambizioni, alle più ignobili cupidigie.
Gli storici più gravi del nostro risorgimento politico, sono, in generale, severissimi a tutto questo periodo delle cospirazioni. Spesso aveano cospirato ancor essi, ma poichè si tratta d'un periodo, che alla superficie si rivela in tentativi o non riesciti o riesciti male, è raro che si consenta volentieri di averci prestato mano.
Comunque, ci troviamo qui ad un'altra difficoltà, per non dire ad un altro mistero psicologico singolarissimo.
C'è la blaga (Giosuè Carducci ha detto di recente che questo è un francesismo, il quale nelle presenti condizioni morali dell'Italia, s'impone assolutamente al nostro dizionario), c'è dunque la blaga dell'aver trescato nelle più perigliose avventure delle cospirazioni politiche, anche quando non era vero, e c'è la blaga del non averci mai nè poco nè molto aderito o cooperato, anche quando s'era fatto l'uno e l'altro, e forse di più.
Fatto è, che molti dei maggiori uomini del nostro Risorgimento, il D'Azeglio, il Capponi, il Ricasoli, il Cavour, il Minghetti non hanno lasciato passare occasione di dichiarare, che a cospirazioni politiche non avevano mai appartenuto. Lo dicevano; ed eran uomini quelli, ai quali si può e si deve credere.
Fermiamoci nondimeno all'esempio del Capponi soltanto. Tutte le polizie d'Europa lo hanno in sospetto di cospiratore; tutti i cospiratori lo credono cosa loro, e quando il confessare d'aver cospirato divenne un titolo di merito senza pericolo, egli dichiarò che questa gloria, se gloria era, non gli apparteneva.
Se non che forse a lui stesso, in un tempo, in cui tutto un moto di civiltà liberale convergeva in Firenze verso di lui (è questa la vera grandezza della figura di Gino Capponi), in un tempo, in cui si cospirava con tutto, colla letteratura, colla musica, coll'Antologia, coll'Archivio Storico, col Gabinetto Vieusseux, cogli Asili d'infanzia, colle casse di risparmio, coi perfezionamenti dell'agricoltura, a lui stesso, dico, sarebbe veramente stato difficile dire appuntino se e quanto avea cospirato, anche se si voglia ammettere che l'aver tentato nel 21 di stabilire relazioni ed accordi fra i Carbonari Lombardi e i Federati Piemontesi, come risulta dalle sue lettere, fosse un non esser mai entrato per nulla nelle cospirazioni.
Sia pure. La corrompitrice necessità del cospirare, creata da governi feroci di paura, non scusa per la coscienza di certi uomini l'immoralità intrinseca della congiura.
Sia pure. Ripugna ad un animo elevato rinunciare ad una setta la libertà dei propri atti e dei propri pensieri.
Sia pure. È da far gran tara su certe glorie delle cospirazioni, ed i galantuomini in tutto quel moto sotterraneo si sono purtroppo trovati a contatti immondi ed a partecipare, volenti o no, a responsabilità da far rabbrividire. Lo seppero a loro spese i poveri cospiratori bolognesi del 1843, che il Governo pontificio trovò modo di coinvolgere in una stessa condanna con ladri ed assassini.
Non per questo è giusto che la storia non riconosca nulla di bene in tutto questo periodo segreto di preparazione del risorgimento italiano. Il detto di Ugo Foscolo: «a rifare l'Italia bisogna disfare le sètte» è un teorema santo di politica, che forse sarebbe bene ricordare di più anche oggi, ma non è, nè può essere un giusto criterio di storia per giudicare quella storia. Bisogna riportarsi a quei tempi dal 1815 al 1831, bisogna ricordarsi che per i più la cospirazione era allora il solo arringo, la sola forma, in cui l'amor patrio poteva tradursi, che quell'ampia visuale, la quale oltrepassa la stretta cerchia degli amici e corregge le fisime della meditazione solitaria, era del tutto interdetta, allorchè Napoli e Torino parevano più segregate da Firenze e Bologna, che non lo sia oggi Calcutta; bisogna ripensare alla ferocità di tirannie indigene, che facea talvolta acclamare per salvatori gli Austriaci, come accadde a Bologna nel 1832: all'ignavia, alla corruttela dei volghi in cenci od in falda, da cui i cospiratori si sentivano circondati (l'Italia dello Stendhal non è in tutto l'Italia vera, ma in parte era così); bisogna richiamarsi a mente tutto questo e la conclusione, se vuole esser giusta, potrà deplorare i delirii, le colpe, gli errori; potrà magari bollare a fuoco la compagnia malvagia e scempia, in cui per una trista necessità uomini dabbene si trovarono spesso mescolati, ma non avvolger tutto e tutti in una stessa condanna. E si vedrà inoltre che giudicando i varii moti italiani innanzi al 1859 non per quello che paiono, una serie discontinua di più o meno grandi catastrofi, ma per quello che sono, una preparazione interrotta soltanto per ripigliare nuova vita, la luce del trionfo finale illumina da cima a fondo tutto quell'immane travaglio e fa risplendere al loro posto nella storia gli operai della prima e quelli della ultima ora.
La Carboneria, che fra le sètte politiche fu la più larga, la più complessa, la più adattabile e la più facilmente trasformantesi secondo i luoghi, la Carboneria era una figliazione della Frammassoneria. Furono i Napoletani, che la portarono in Romagna, durante le due spedizioni di Gioacchino Murat, quella vituperosa del 1814 e quella disperata del 1815, nella quale almeno si mosse e cadde con una sola bandiera, la bandiera dell'indipendenza italiana.
Le false promesse di libertà, date dall'Austria all'Italia nel 1809 e ripetute a nome degli Alleati dal Conte Nugent e da Lord Bentinck nel 15, nonchè la reazione, promossa ovunque e specialmente in Italia dal Congresso di Vienna e dai principi restaurati, diedero incitamento e principio al lavorìo arcano delle sètte e delle cospirazioni politiche. Un partito liberale e nazionale s'era già venuto formando fino dagli ultimi tempi del Regno Italico, e s'era formato appunto nell'opposizione alla prepotenza napoleonica, che della nuova vita ridata all'Italia volea valersi per sè e nulla più. Ben presto quest'opposizione s'era mutata in società segreta e ad una società cosiddetta dei Raggi, che avea il suo centro a Bologna, accenna il Botta, che forse le appartenne. Seguono gli Anti Eugeniani in Milano, disonoratisi colla giornata del 20 aprile 1814 e coll'eccidio del Prina, la cospirazione degli ex generali Cisalpini ed Italici, il Pino, il Lechi, lo Zucchi, il Fontanelli, quella degli Indipendenti, che progettava di dare scettro e corona a Napoleone confinato all'isola d'Elba, e finalmente qualche reliquia di tuttociò fa gruppo nel tentativo e nel proclama di Rimini di Gioacchino Murat del 30 marzo 1815, dal Manzoni creduto la gran parola.
Che tante etadi indarno Italia attese,
a cui Pellegrino Rossi prestò il concorso della sua mente e del braccio giovanile, che trovò scarsi seguaci, un migliaio appena, dice il Farini, e che finì tra diserzioni e tradimenti, ma incominciò nelle Marche e in Romagna il periodo dei supplizi, delle carcerazioni e degli esigli per causa politica e per contraccolpo quello delle cospirazioni settarie. L'impresa del Murat avea troppe ragioni vicine e lontane da non riescire, e non riescì. Lasciò però uno strascico di simpatie e di gratitudine. Dopo la battaglia della Rancia, tra Macerata e Tolentino, quando il suo esercito fuggiva in dirotta dinanzi al nemico incalzante, Gioacchino, per salvare Macerata dal saccheggio, lo fece passare fuori dalle mura della città, e a lui, che partì ultimo e voltandosi sul cavallo salutava con la mano, rispondevano dalle mura e dalle case i cittadini con gesti e con grida affettuose, e corse anzi poscia e durò a lungo un detto popolare a tutto onore di Gioacchino: Tra Chienti e Potenza (i due fiumi che bagnano la collina di Macerata) tra Chienti e Potenza finì l'indipendenza.
Finita no, finchè durava il desiderio di ricuperarla. Qui infatti si riattacca il filo dei tentativi, che seguirono.
Guelfi son detti i Carbonari delle Marche dopo il 15 e si diramano di qui in Romagna e in tutte quattro le Legazioni, variando nomi e forme secondarie, ma sempre con un intento comune, nè bisogna credere che i nomi diversi significhino sètte diverse od in opposizione le une colle altre.
Accadrà anche questo, ma per ora tali variazioni e frastagliamenti settari di Guelfi, Adelfi, Maestri Perfetti, Turba, Siberia, Fratelli Artisti, Difensori della patria, Bersaglieri Americani, e via dicendo, che si riscontrano qua e là nei documenti sincroni, altro non sono che artifici settari, e qualche volta riforme (come le chiamavano) per lo più ordinate ad ogni tentativo d'azione mal riuscito; singolare fortuna di questa parola: riforma, la quale è comune ai Protestanti, alla Chiesa Cattolica e alle sue fraterie, come alle sètte politiche ed alle loro trasformazioni, ed oggi non serve più che per tenere a bada la buona gente ad ogni nuova crisi ministeriale.