Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte II», sayfa 6
Già rumoreggiavano gli Austriaci ai confini; Parma e Modena erano già sottomesse; e in Bologna l'assemblea si riuniva, confermava in fatto e in diritto la cessazione del dominio temporale dei Papi, e la sera stessa al teatro Comunale si recitava la Francesca da Rimini (l'Alfieri sarebbe parso troppo ruvido) e Paolo, brandendo la spada e cogli occhi sgranati, gridava a squarciagola:
Per te, per te, che cittadini hai prodi
Italia mia, combatterò…
Polve d'eroi non è la polve tua?
E tutti a convenirne e applaudire. E dame e cittadine arrivare bianco vestite e col tricolore a tracolla sul palcoscenico e intonare un coro di Caterina Ferrucci:
Alla gioia s'apre il cor,
Del piacer di libertade
No, non v'ha piacer maggior;
parole, che convenivano egualmente bene a un melodramma tragico e ad un'opera buffa!
Così è, signore, che la rivoluzione del 31 a Bologna ebbe un'aria idillica; fu una festa di famiglia; rimase un ricordo caro e senza rimorsi per tutti, come rimase caro e onorato il nome dei cittadini, che vi primeggiarono, del Vicini, Presidente del Governo; dello Zanolini, autore d'un abbastanza buon romanzo scritto in esilio e intitolato il Diavolo del Sant'Ufficio; di Pio Sarti, fratello alla madre di Marco Minghetti; di Carlo Pepoli, poeta gentile, amico del Leopardi, e che in esilio anch'esso scrisse il libretto dei Puritani per Vincenzo Bellini; di Terenzio Mamiani, che poi, come poeta e filosofo, salì a tanta celebrità. I racconti, gli aneddoti, i detti e fatti memorabili di questo o quello, ora gravi, ora anche un po' ridicoli, sono infiniti; e i pochi superstiti, e certe vecchie signore persino, li narrano ancora con compiacenza singolare. Eppure tant'altre e così grosse vicende hanno viste d'allora in poi! Ma non i lancieri a piedi del giovine Napoleone III, e la spada di un avvocato Patuzzi, colonnello della Guardia Nazionale, che nelle grandi occasioni non c'era verso di tirarla fuori dal fodero, e gli armati di picche del generale Grabinski, vecchio e valoroso ufficiale, che non avea colpa se i suoi soldati non avevano fucili; tutti fatterelli, che io ho uditi mille volte, quest'ultimo in ispecie, che è altresì per me un ricordo domestico, giacchè fra quei male armati e senza fucili era il mio vecchio babbo coi suoi condiscepoli d'Università e quando il Generale, il quale parlava un italiano tutto suo, li passò in rivista sulla piazza di Faenza, fu udito esclamare mestamente: «quanta bella gioventù! Peccato non esser tutta fucilata!»
E quest'era la gente, chiamata dal cardinal Bernetti nella sua Notificazione del 14 febbraio 1831 una turba di ladri, che altro non voleva se non porre a sacco le pubbliche e le private proprietà, e contro cui aizzava le plebi, perchè al suono delle campane a stormo si levassero in armi per dar loro addosso, come a briganti. Esecutore di questo disegno di restaurazione, così umanamente cristiano, mandò il cardinale Benvenuti, che in Osimo cadde in mano degli insorti e fu tradotto prigioniero in Bologna. Lo salvò dall'ira popolare Pio Sarti, facendogli scudo della sua persona, e quando il Governo delle Provincie Unite riparò in Ancona, il cardinal Benvenuti fu liberato e firmò esso la capitolazione, di cui ho parlato.
I membri del Governo, fidenti nella parola del Cardinale, noleggiarono un Brigantino, che appena uscito dal porto d'Ancona le navi Austriache catturarono, trasportandoli prigionieri a Venezia.
Un Lazzarini, capitano del Brigantino gli aveva traditi, consegnandoli al Bandiera, Ammiraglio Austriaco. E vedete fatalità! Il Lazzarini morì di mala morte e Attilio ed Emilio Bandiera lavarono col loro sangue a Cosenza nel 1844 l'infamia del padre.
Nei tristi tempi, che seguirono, i vinti del 31, come accade sempre fra gli sfortunati, cominciarono a beccarsi fra loro, e il Sercognani fu accusato d'essersi venduto, l'Armandi d'aver tradito, il Vicini d'aver immiserito la rivoluzione a rivendicazioni locali e di campanile, perchè in un proclama, che nessun altro del Governo sottoscrisse, rievocò da avvocato i vecchi diritti della Repubblica Bolognese e il contratto del 1447 fra Niccolò V e il Senato! Miserie!! Quanto meglio dire col poeta, adattandolo un poco alla circostanza:
Taccian le accuse e l'ombre del passato,
Di scambievoli orgogli acerbi frutti,
Tutti un comun delirio ha travagliato;
Errammo tutti!
Il Sercognani forse non volle lasciarsi Rieti alle spalle; l'Armandi contro le forze preponderanti dell'Austria credette ridicolo osare; il Vicini credette di vincere la causa, riallacciando la rivoluzione presente a tradizioni rivoluzionarie, e forse Massoniche locali, perchè lo Zamboni, il martire Bolognese del 1794, avea su per giù ne' suoi proclami dette le stesse cose.
E perchè mai la Rivoluzione del 1831 non cercò afforzarsi, estendendosi alla Toscana, ai Ducati, come avea progettato il povero Ciro Menotti, che era un uomo d'affari e non un avvocato? Perchè, oltre al chiodo fisso del non intervento, la Rivoluzione del 31 fu, risponde Cesare Albicini, in un suo bello studio su Carlo Pepoli, fu da Bologna sino a Rieti, una riscossa di Municipii, come quella del 48 fu una riscossa di Stati, e quella del 59 una riscossa dell'intiero popolo italiano. Evoluzione progressiva, teoria Darwiniana, forse troppo più scientifica e arguta, che non comportino le arcane e imprevedibili selezioni della storia.
Ad ogni modo credo potersi concludere che una rivoluzione, la quale scese di palazzo colle tasche vuote e le mani nette; che a Rimini ebbe in articulo mortis il suo battesimo di sangue in faccia agli Austriaci, affrontando i loro cannoni con le picche e i fucili da caccia, non merita nè condanne, nè ironie, nè dispregi; e credo di più, che se in Bologna le generazioni seguenti non si accasciarono sotto il peso della doppia tirannia Pretesca ed Austriaca, molto è dovuto a questo buono e quasi domestico ricordo per tutti della Rivoluzione del 1831.
SANTORRE SANTAROSA
MORTO PER LA LIBERTÀ DELLA GRECIA NEL 1825
CONFERENZA
DI
ISIDORO DEL LUNGO
Signore e Signori,
La lettura che io sono per farvi si compone di pensieri e di sentimenti, più che miei, dell'uomo stesso a cui la consacro. Io farò poco altro che consertare insieme pagine sue,1 o di amici suoi, delle quali le più intime sono venute a luce la maggior parte in questi ultimi anni, e da esse si rivela e l'uomo e il patriotta: l'uno e l'altro degni di tal reverenza, che pochi esempi possono dalla storia del nostro Risorgimento proporsi alla gioventù italiana, più efficaci a ispirarle magnanimità di sensi e di opere, severità di propositi, alto concetto di quanto ciascun uomo deve a' suoi simili, ciascun cittadino alla patria. Evoco dinanzi a voi la nobile figura di un Eroe del Risorgimento italico che lo è altresì del Risorgimento ellenico. La rivendicazione della libertà greca dalla barbarie mussulmana occupò fra il 1821 e il 29 una pagina lieta e gloriosa nel triste libro delle umane vicende, che oggi altre mani riaprono pur a quella pagina (piacesse a Dio che fosse per segnarvi senz'altro la santa parola Giustizia!): e quel 1821 è altresì la data dei primi moti italiani per le riforme liberali e l'indipendenza nostra dall'Austria. Nel 25 Santorre Santarosa moriva, precursore di Giorgio Byron, per la libertà della Grecia, poichè gli era fallito di operare per la grandezza d'Italia. Questo è l'uomo del quale io vi parlo, e che faccio parlare dinanzi a Voi.
II
Quando il primo fermento di nazionalità, che a sei anni appena dal Congresso di Vienna cominciava, covato nelle congreghe carbonaresche, a sollevare l'Italia, ebbe fatto capo, ne' due Stati della penisola estremi e fregiati di corona reale, Napoli e Piemonte, ad un movimento verso quelli ordini di monarchia costituzionale, in nome dei quali la Spagna aveva resistito a Napoleone, la rivoluzione piemontese, rivoluzione d'un mese appena, portò Ministro della guerra, cioè capo delle armi contro l'Austria, il conte Santarosa. Questi, giovinetto anzi quasi fanciullo, avea seguito il padre colonnello nel regio esercito alla difesa dall'invasione francese, e l'avea veduto morire alla testa del suo reggimento nella battaglia di Mondovì: poi, stato maire della sua Savigliano e sottoprefetto alla Spezia, aveva di nuovo, durante i Cento giorni, imbracciate le armi regie e nazionali, aveva preso parte con Cesare Balbo (e vi era il prode generale, già napoleonico, Gifflenga) alla spedizione di Grenoble; e rimasto, a istanza del marchese di San Marzano suo zio, nel Ministero della guerra, alternava agli affetti, in lui vivissimi, di marito e di padre, le cure dell'ufizio, e gli studi (che sempre avea prediletti) morali e letterari, e le frementi aspirazioni a un'Italia, secondo le visioni di Vittorio Alfieri, prossimamente futura. L'ufficiale piemontese de' Cento giorni, allorchè avea veduto rientrare il suo Re, Vittorio Emanuele I, con la forza degli Austriaci, aveva scritto, in quel latino ipercalittico che il Foscolo messe in voga: «20 maggio 1815. Il re nostro entrava nella città, e tutto il popolo diceva nell'allegrezza del cuor suo: o Re, o Re, salve o Re! Ma le aste del Sire del settentrione circondavano il Re, ed era il Re nostro siccome un Piccolino; cosicchè esclamavano i veggenti: È qui il Re, ma non è qui con lui la Patria». E dove sentiva egli la Patria, il prode ufficiale del Re? «Egli è soprattutto quando i miei corni da caccia suonano una rapida e viva marcia, e mi veggo sfilar davanti i miei giovani di aspetto ardito e quasi dispettoso, che il mio sangue bolle e ribolle dentro le vene. Egli è allora che dico tra me: – Perchè non nacqui inglese, prussiano, russo? – Nella mia disperazione dico persino: – Perchè non nacqui francese? – Non sarà mai che io stringa un brando italiano, che io guidi fra i perigli soldati italiani? Noi piemontesi, noi prodi, noi animosi, che siamo noi? Deboli ausiliari degli antichi nemici della grande patria; ausiliari disprezzati forse, e disgraziati a segno di non esser ammessi all'onore delle battaglie. – Non vi ha in simili pensieri di che morire di rabbia e di dispetto? Federico, padre di Federico II, creò la Prussia, creando l'esercito. Vittorio Emanuele potrebbe creare il Piemonte, creando un esercito». E continua lo sfogo generoso, coi ricordi d'un anno innanzi, quando trovandosi a Genova nei giorni dell'efimero rinnovamento dell'antica repubblica giocato dalle Potenze, «Inglesi assalivano Francesi in Genova italiana, e i Genovesi avrebbero forse, se i Francesi non tradivano il loro imperatore, veduto crollare i loro tetti, sentite le voci lagrimose de' vecchi, de' fanciulli e delle donne atterrite, sofferti i disagi della fame e della militare licenza, perchè Francesi volevano occupare Genova italiana, perchè Inglesi volevano occupare Genova italiana. E Genova italiana, che vuol dire debole, avvilita, infelice, avrebbe dovuto tacere, soffrire; e vi ha di più, avrebbe dovuto lambire i piedi, e tessere a vicenda il panegirico sonante, d'entrambi i duci stranieri desolatori del suo popolo». E si volge con fraterno animo ai Napoletani, perduti dietro le avventure Murattiane: ha una trepida speranza pel suo Piemonte, pensando che su quel trono stanno «principi di sangue italiano»; un rammarico per la «nobile Sicilia», che Vittorio Amedeo II non l'abbia conservata a' suoi successori, in modo da potere «stringere Italia dai due lati, e sforzarla», sforzarla a non esser più la druda bellissima dello straniero: perchè «la futura liberazione dell'Italia dev'essere operata o dai Piemontesi o dai Napoletani». E il problema fu sciolto, quarantacinque anni dopo, sulle rive del Volturno, il giorno che Vittorio Emanuele II a capo del suo vecchio esercito, e Giuseppe Garibaldi delle sue camicie rosse, il re e il dittatore, s'incontravano vincitori, e si stringevano nel nome d'Italia le destre poderose e leali.
Ma riprendiamo una di quelle ardenti parole che Santarosa scriveva nella primavera del 15: «Nella mia disperazione dico persino: Perchè non nacqui francese?» L'avversione alla Francia, «odio ai Galli» dicevano, che fu nel Piemonte di quelli anni il primo e fecondo germe d'italianità, veniva in Santorre come in altri molti, innanzi tutto dal culto per l'Alfieri, poi dall'amarezza sdegnosa che il sofferto dominio napoleonico lasciava nel cuore di quelli stessi i quali avevan dovuto servirgli da istrumenti; come, e in ben più larga misura e in altra altezza d'uffici che non il Santarosa, era stato di Cesare Balbo, sospinto da un'ambizione della quale egli stesso, ne' suoi Ricordi, si accusa. Col Balbo, con Luigi Provana e con Luigi Ornato, il Santarosa aveva stretta in Torino una forte amicizia, anzi lega veramente e congiunzione d'affetti. Si erano avvicinati in una accademiuzza di Concordi, venuta su in casa del conte Prospero Balbo; lo scopo della quale, ben diversamente dalle accademione di gala, era, dice con alta parola l'Ornato, «ridestare in Italia il pensiero»: il pensiero smarrito per entro alle frasi di tante altre consimili associazioni. I quattro amici avean cominciato il loro spirituale contubernio col segnare in un medesimo quaderno quanto, verso i comuni propositi, passava loro per la mente, quanto agitavano in cuore. E le lettere dell'uno all'altro spesso erano firmate, in cifra numerica, 1⁄4. La vocazione dell'Ornato agli studi classici e filosofici, del Provana agli storici, del Balbo alla filosofia della storia, del Santarosa alla politica ed in essa alla italianità del pensiero della parola dell'azione, emersero e si alimentarono in quel virtuoso giovanile consorzio. I nomi del solito gergo tradizionale, di Incruscato, Intoppato, Ricovrato, Stringato, che avevano avuto nei Concordi, si erano nel consorzio dei quattro, mutati in nomi romani. L'Ornato era divenuto Metello, Flaminio il Provana, il Santarosa Tiberio Gracco, restando innominato il Balbo, che certamente fra i quattro era il più rimesso e cauto, come il più bollente, conforme al suo nome tribunizio, era il conte Santorre. Egli era anche denominato fra i quattro amici il Solenne, per l'enfasi che metteva nel leggere e nel parlare, la quale talvolta diveniva commozione e furore, con grande espansione di gesti, e batter di pugni e afferrar convulsamente i conversanti o gli uditori. Quando erano vicini, si accoglievano nella cameretta dell'uno o dell'altro, o a passeggiate solitarie: lontani, carteggiavano, s'imponevano di pensare insieme, un'ora di un dato giorno, l'una o l'altra cosa; pensarla con dolcezza d'affetti, il cui termine era sempre la patria. Virilmente nutrito, questo loro affetto volevano si effondesse con tenerezza femminile: «amare» dicevano (e tenetevelo a vostra gran lode, o signore) «amare come donna ama».
Il carteggio dell'Ornato col Provana c'introduce, con mirabile illusione, nella vita interiore di quei generosi. Studi e letture, di classici e di matematiche; e tentativi di lavori propri, d'ogni genere (lirica, tragedie, commedie, con recensioni critiche, reciproche), si alternavano a virtuosi intendimenti e disegni, e a promesse e giuramenti per il futuro bene della patria. Si traduceva Tirteo, con apporgli note nelle quali s'intendeva di allegorizzare le civili condizioni d'Italia, si leggevano gli storici fiorentini, studiandovi le vicende della libertà, esaltandosi col Savonarola, e in sè rifacendo i Piagnoni, meditando sul Machiavelli, al Guicciardini sdegnosamente imprecando: si vagheggiavano soggetti di storia italiana, e il pensiero di cotesti giovani alfieriani correva ai Vespri di Palermo, che il Santarosa romanzeggiava in un Gualtiero e in una Francesca, ma il Provana voleva invece trattare criticamente, come poi fece pur con intento patrio l'Amari. I grandi scrittori d'Italia erano tenuti in conto di altrettanti Santi Padri, come d'una religione: la lingua «toscana» vincolo sacro, testimonianza di patria: Virgilio, un «nostro antico italiano». Padre l'Alighieri, nel quale l'Ornato, che fu poi grecista insigne, sente Eschilo: padre il Petrarca, nel cui verso è il pianto d'Italia, e nelle epistolae l'entusiasmo per la virtù e la libertà: padre lo stesso Boccaccio, del quale però, se adoperati a corruzione servile, bene sta che fra Girolamo gittasse ad ardere i Decameroni. Il Trecento e il Cinquecento fiorentini, custodi della parola e del sentimento nazionale: e una lettura di classici francesi, da non farsi che con un trecentista fiorentino accanto, per preservativo. Disciplina questa, tanto più meritoria, in quanto avveniva talvolta che la sincerità della lingua e dello stile non compensasse, presso tali lettori, il vuoto di altri pregi; e una di quelle volte vediamo il Santarosa, sazio della bellissima prosa del Firenzuola, buttarsi a Voltaire e Pascal, ma per tornar quasi subito alla «lingua fiorentina», dic'egli: con un nobile istorico bensì, Bernardo Segni, e promettendo «di non più abbandonarsi così»; «perchè le cose fiorentine» egli scrive «divengono per me un alimento necessario e per la materia e per la lingua»; e dalle parole ascendendo alle memorie dei grandi fatti, e queste congiungendo coi guai del presente, Firenze tradita dai Francesi e lasciata sola contro il Papa e l'Impero gli «metteva in cuore un desiderio implacabile di vendetta», e avrebbe voluto disperdere al vento le ceneri di papa Clemente VII, e lo vedeva «fra i parricidi passeggiare le infocate vie del Tartaro, e gli spettri di cittadini svenati, di madri morte di fame coi figlioletti in collo, accompagnare i suoi passi». Ma direttamente e immediatamente padre di quei valenti figliuoli, padre e maestro e informatore, e ogni cosa, era l'Alfieri; questa gran pianta, dicevan essi, fiorita fuor di stagione, come Tacito, come Plutarco: padre, anzi «babbo, parens, πατήρ» in tutti e tre i grandi idiomi della umana civiltà: e celebravano l'anniversario della sua morte, e ne veneravano il busto, e nel nome di lui giuravano, e se stessi alla Patria consacravano; e aveano scelto per le loro passeggiate fraterne un luogo solitario in una collina verso Superga, ed ivi posta una pietra l'avean consacrata come la «tomba del babbo», da pellegrinarvi e commemorarvi la «mamma» cioè l'Italia, e in latino ed in greco epigrafavano le mura della vicina chiesa, e il nome d'Italia incidevano sul tronco di «quella maestosa altera croce» scrive al Provana l'Ornato «che sovrasta ai colli circostanti, ed al piè della quale appoggiato, io mi doleva sovente che la pianura sottoposta ai miei sguardi avesse nome Italia». Col qual medesimo sentimento il Santarosa prendeva da un verso della poetessa torinese Saluzzo Roero questa apostrofe elegiaca: «Italia, Italia, il mio dolor ti noma», per farne emblema di lutto in un anello. «Ed io» prosegue l'Ornato «ed io incideva l'augusto nome su quel tronco divino, e volgeva lo sguardo all'età avvenire e viveva con loro, e mi pasceva di celesti illusioni; sinchè il raggio del sole cadente o l'umido soffio del vento mi destavano da quei sogni avventurati, ed io scendeva triste e pensieroso ad affrontare le usate nostre vicende». E il Santarosa, su quella medesima collina, tutto solo, «con una mezza biblioteca in tasca» (era un giorno di primavera del 1818) «salutai» scrive «salutai il monte San Michele e i colli di Avigliana… E l'occhio rivolto alla bella pianura bagnata dal patrio fiume, dissi: Mio Dio, autore della verità e della vita, fonte d'ogni bene e d'ogni virtù, mio creatore e conservatore, io vi prometto, e anche prometto alla memoria del mio padre e della mia madre, di ordinare il mio costume, la mia casa, il mio tempo; di perseverare nella letteratura italiana per servire questa povera Patria; e di prendere savio pensiero dell'educazione de' miei figli. Appressatomi poi alla croce, pensai a Gesù Cristo, e dissi: Gesù Cristo, io non dirò che siate uomo, ma dirò che siete l'Eletto di Dio e come il Figlio di Dio. Io intendo di essere onesto e giusto uomo, e Dio faccia quel che avanza. E nell'allontanarmi rivolto alla croce, dissi ancora: – Costoro che oggi si dicono tuoi non ti assomigliano; ed io posso invocare il tuo nome senza esser di quel numero uno. – Ho promesso a Dio ed a me di serbare ne' miei scritti relativi alla Patria italiana quell'ossequio al vero, all'umano, al giusto e alla santità del costume, che si convengono, onde essi non siano a me di carico innanzi a Dio».
Il teismo di quei pensatori patriotti, una specie di «stoicismo cristiano», si assommava in un elevato sentimento di moralità, di responsabilità umana, di libertà. Moralità; che «parla nel nostro cuore, in modo da non potere essere frantesa» – libertà; sulla quale facevano quest'equazione matematica: «La libertà sta ad un popolo, come la ragione sta all'uomo» – responsabilità umana; la quale tanto più vivamente sentivano, quanto maggiori, in tempi di servitù, sono i pericoli del sostenerla, quanto più facile l'abbandonarsi e il disperare. L'Ornato, che era, com'a dire, il filosofo di quel sodalizio, e che sapeva da' suoi greci derivare la scienza e l'arte della vita; dopo passate intere notti leggendo «ad alta voce e con buona pronunzia» Senofonte e Plutarco, con apprensione quasi di non esser degno d'accostarsi a quei sommi; quando da queste generose idealità ritornava al presente vuoto e buio, scriveva al Santarosa così adattando un passo del padre Alighieri: «nessun maggior dolore che l'aver sortito un'anima cui l'operare è bisogno, e che per necessità non fa nulla». E altra volta al Provana, con energia tutta piemontese: «Già, questa vita che traggiamo è tanto disperata, che conviene o crepare o fare alcuna cosa. E sceglieremo una delle due cose, se vi piace, un dì che possiamo deliberare insieme». E col Provana lo stesso Ornato riandava nel 18 le misere condizioni della penisola; e pareva loro che il Piemonte avesse fallito alle speranze degli altri Italiani, quando dopo la catastrofe napoleonica del 15 esso era rimasto la sola regione il cui governo avesse entità e tradizione nazionali: ma questo non potere esimerli dall'adempire «il dovere d'un italiano; no, grazie al cielo», cioè il dovere di procurare il risorgimento morale e politico degl'Italiani, lasciando ogni altra attrattiva, anche quella delle arti belle: e l'Ornato si corrucciava col Balbo, «il quarto», che avea scritto dalla Spagna infatuato «di quadri e di statue»; e si sentiva invece più d'accordo col Solenne, ossia col Santarosa, lavoratore entusiasta al conseguimento di fini più prossimi; e gli pareva ch'e' meritasse il primato, anzi una specie di supremazia, nel sodalizio. E al Provana pure, là sulle coste gallo-liguri, «Salutate» scriveva «Salutate le montagne che vi circondano; salutate il padre Oceano, che vi sta davanti; salutate quel porto d'onde partivano, seicento anni fa, navi ripiene di mercanzie italiane, destinate a portare per tutta Europa e per l'Asia i frutti dello ingegno dei nostri predecessori, e che ora più non si apre se non per ricevere merci straniere e leggi straniere con esse… Ma» proseguiva «se ella è pur consolazione il vedere altrui più infelice di sè, miriamo la Grecia moderna; e lagnamoci ancora, se l'osiamo, del nostro stato. La più illimitata tirannia siede nel paese degli Aristidi, degli Epaminondi, dei Timoleoni; la ignoranza più crassa nel paese dei Socrati, dei Platoni. Il viaggiatore incerto non sa più rinvenire il luogo ove era Sparta. Il nome augusto di πατρίς (patria), che il buon Omero fa pronunziare con tanto affetto da' suoi eroi, non ha più senso nessuno in quel paese, come ne ha poco tra noi quello che gli corrisponde nel nostro idioma». Questo si dicevano i quattro amici nel 15: ma il 1821, e per l'Italia e per la Grecia e pel fato d'uno di essi, era vicino.