Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte II», sayfa 7
III
«Ho trentacinque anni» scriveva il 18 ottobre del 1818 il conte Santarosa, tornato da una delle sue passeggiate meditative: «adoperiamo quest'ultima ora della mia giovinezza alla grave e necessaria investigazione de' miei doveri». E se ne schierava dinanzi la serie, rimpiangendo qualche trascorso degli anni più caldi. Doveri verso Dio, che è quanto dire, secondo la religion naturale, verso la giustizia: verso la famiglia, e si fa presenti la sua Carolina «moglie amantissima, di cuor generoso, pietoso», e i due suoi figlioletti, di sei anni il maggiore, e la bimba, la sua Santorrina: verso l'ufficio, pel quale si fa coscienza di non essere abbastanza premuroso e sollecito: verso gli studi e la italianità. E si propone di terminare le Lettere siciliane (che era il libro sui Vespri di Palermo), accompagnandone il lavoro con l'assidua lettura de' suoi cari Fiorentini del Trecento e del Cinquecento. «Ancora qualche minuto, e la sfera del mio oriuolo avrà segnato l'ultimo istante del trentesimoquinto anno della mia vita. L'epoca ultima di giovinezza finisce con esso: entro nell'età matura. O Santorre, fa' serio pensiero di essere uomo. Ti raccomando la tua pace, il tuo onore, i tuoi figli… Mio Dio, io mi prostro dinanzi a voi. Userò la mia ragione, ubbidirò alla mia coscienza. – Queste parole ho proferito con la fronte al pavimento, adorando in atto sommesso il mio Creatore, il mio Dio».
Ma due anni appresso, dopo che il pronunciamento militare di Guglielmo Pepe ha strappata ai Borboni la prima Costituzione da spergiurare, il Santarosa attende con ansia febbrile a un suo libro, su cui ha scritto: Le speranze d'Italia; il titolo stesso, che di lì a molti anni, con auspicii ormai maturati, associerà il nome del quarto fra gli amici, il nome di Cesare Balbo, al pacifico iniziamento della rivendicazione d'Italia a sè stessa. Se non che il Santarosa precorreva, con la foga del generoso suo cuore, gli eventi: «L'Italia vuol fatti e non parole»; così meditava di proemiare al suo libro: fatti e non parole. «Io non sono un letterato; sono un soldato, che a niuna setta appartenendo, solo conosce i suoi altari, la sua patria e la sua spada. Ardito banditore delle popolari verità italiane, alzerò il grido della nostra guerra d'indipendenza, e più fortemente il grido della concordia, che fa le guerre giuste, tremende, felici». E disegnava rapidamente quella convergenza di sforzi da' due estremi e maggiori Stati della penisola, che avea sempre avuta in visione: – cinquantamila Austriaci avanzarsi contro il regno costituzionale di Napoli; congiunti, per le Marche la Toscana la Romagna occupate, al grosso dell'esercito imperiale in Lombardia: – mentre l'esercito napoletano resiste, il centro d'Italia insorgere, il Piemonte con sessantamila uomini varcare il Ticino. «Ma se il principe è freddo? – Non lo potrebbe essere. – Ma se lo fosse? – Il soldato piemontese, soldato italiano, deve dire al suo Re: Sire, il Lombardo freme, il Napoletano si difende a stento, il Romano si leva in armi. Noi Piemontesi, guardati con tanto desiderio, con tanta aspettazione, da tutta Italia, noi prodi uomini e soldati di forti Principi, ci staremo colle braccia conserte ad aspettare che i trionfatori austriaci, lieti della nostra ignavia, vengano a darci ordini imperiosi? Siamo Italiani, o Sire: in questa formula sta tutto il nostro dovere di alzar le bandiere e volgerle verso il Ticino, in nome d'Italia e di Savoia sulle insegne. Nè manca un giovinetto, che potrà essere erede del principe Eugenio». Era una visione, ripeto, una inebriante visione, di gloria militare e patriottica, per entro alla quale il Piemonte e Casa Savoia assorgevano agli onori dell'italica apoteosi.
Quel giovine Principe, a cui si prognosticavano gli allori guerreschi del grande Eugenio, era Carlo Alberto. E fu Carlo Alberto, che si trovò, Reggente, a concedere nel marzo del 21 la Costituzione Spagnuola, nel punto stesso, che avendo il buon re della restaurazione Vittorio Emanuele abdicato in favore del fratel suo Carlo Felice, questi, il re della reazione, da Modena, che era come dire da Vienna, sconfessava Costituzione, Reggente, e qualsiasi iniziativa nazionale. Cosicchè questa, mossa lealmente da devoti non meno al Re che alla libertà, si trovò subito (e le cose di Napoli erano fantasticamente precipitate, e l'Italia centrale era stata a vedere) si trovò a dovere appoggiarsi, inferma base, su ciò che il Santarosa, nella narrazione di cotesti fatti, chiama, con equo giudizio, il «volere e non volere» di Carlo Alberto: ma altre pagine del generoso libretto confessano che nessuno degli iniziatori si era sul serio ripromesso di lui «un conte Verde o un principe Eugenio», ed altre poi fanno eco a quell'accusa di traditore che sui versi del Berchet volò per tutta Italia ed oltre. Il giudizio intorno al re martire di sè stesso, da quella defezione del 21 al sagrificio del 49, è ormai pronunciato dalla storia: e l'Italia può ben perdonargli il Trocadero, se con questo egli salvò dalle insidie austro-estensi la corona, che, sul campo cruento e per la seconda volta funesto di Novara, avrebbe consegnata al Vittorio Emanuele destinato Re d'Italia. Ma intorno al Santarosa, soldato e ministro della rivoluzione costituzionale, risplende tutta la gloria di quel primo italico movimento verso la indipendenza e l'unità della patria. E quando egli, prima che il re buono abdicasse, quando Santorre per Asti, passando l'11 marzo dinanzi alla casa di Vittorio Alfieri, marciava sopra Alessandria già sollevata, e sollevata nel nome d'un «Regno d'Italia», «vedevo» scrive «dischiudersi all'Italia quell'era di gloria che il poeta cittadino le aveva vaticinato». Ma con l'abdicazione e la partenza da Torino, nella notte del 13, di Vittorio Emanuele, si precipitò subito alle dolorose strette di dovere l'esercito piemontese del Re e della libertà incrociar le armi contro l'esercito piemontese del Re e della legittimità. Allora quello fra i quattro amici, poichè noi qui teniamo dietro all'istoria non di quei fatti ma di quei quattro, anzi di uno solo fra i quattro, quello fra essi in cui l'aspirazione ai liberi ordini e all'italianità era governata da un più tenace spirito di conservazione, il Balbo, sconsigliò, scongiurò, e non ascoltato si ritrasse a prendere deliberatamente posto dove di fatto era piantata la bandiera del Re; e vi rimase finchè vide arrivare intorno a quella, del resto prevedibili, i battaglioni austriaci: – il Provana, pur riconoscendo generoso e italiano il movimento, e che mirava a salvare il Re e il paese dalla tirannide nordica, sopraffacente oramai, dopo i regii convegni di Troppau e di Lubiana, tuttaquanta l'Italia, ne disapprovò, dopo il passo addietro di Carlo Alberto, le forme e i modi, e non vi partecipò con l'azione (nè ciò tuttavia risparmiò poi nè al Provana nè al Balbo la vendetta degli sconsigliati che le idee, anzi le idee più d'ogni cosa, perseguitavano): – il Santarosa mantenne quel che aveva promesso a se medesimo e a Dio, anche prima che ai commilitoni cospiratori: – e al suo fianco, idealista fedele, tranquillo filosofante anche nello scatenarsi della civile bufera, rimase, capo di gabinetto dell'amico ministro, Luigi Ornato. Ed io credo che la parola d'ambedue i nobilissimi patriotti risuoni; e il cuore di tutt'e due, il cuore di Flaminio e di Tiberio Gracco, batta i suoi palpiti generosi; e il senno civile, concordemente meditato sui Greci e sui Latini e sui Fiorentini nostri, sia infuso; negli Ordini del giorno «dati in Torino il 23 e il 27 di marzo, l'anno del Signore 1821, dal conte Santorre di Santarosa reggente il Ministero di guerra e marina»; l'uno «all'esercito piemontese», l'altro per «la chiamata dei contingenti». Dove il Santarosa, annunziandosi «autorità legittimamente costituita», si sforza di salvare la causa del trono costituzionale, scusando la giovanile inesperienza di Carlo Alberto, la mancata libertà di azione nel novello re circuito dall'Austria, facendo sperare (il che pur troppo non era) il favor della Francia: «Annodatevi tutti intorno alle vostre insegne, insegne non di ribelli ma regie insegne, afferratele, correte a piantarle sulle sponde del Ticino e del Po. La terra lombarda vi aspetta, la terra lombarda, che divorerà i suoi nemici allo apparire della nostra vanguardia… Insegne non di ribelli, ma regie insegne», sulle quali l'Aquila di Savoia ha già veduto quella regione italiana. Sotto di esse, «voi, giovani soldati, prese con letizia e con fiducia le armi consegnatevi dalla patria… sorridete di già al pensiero della battaglia… al pensiero di farvi riconoscere figli dei difensori di Cosseria, la cui ferocia destò meraviglia in Napoleone Buonaparte, e forse fermava i primi suoi passi nella conquista d'Italia, se noi non avevamo allora Austriaci per alleati. E voi, Genovesi? Nel vedere il nome di Genova scritto sulla bandiera della vostra legione, i nostri nemici, diranno atterriti: Ecco gli uomini del 1746!»
E tenne fermo, lui più di tutti, sino all'estrema possibilità. E dopo che i nemici, stravinto col numero, si fecero avanti, egli, lasciato solamente allora il governo; – ricusato di patteggiare, perchè gli parve offesa alla «fede giurata», o soltanto accettando la mediazione dei diplomatici a patto d'una amnistia, al cui benefizio per sè rinunziava; – tentato invano, con gli avanzi del prode esercito costituzionale condottigli dal San Marzano, dal Lisio, dal Collegno, uno sforzo di disperata difesa rinchiudendosi in Genova; e in questi stessi tentativi caduto nelle mani dei carabinieri, e strappatone, cioè salvato dal patibolo, per opera d'un venturiero polacco e d'una piccola schiera di valorosi studenti; – prendeva coi compagni la via dell'esilio.
Il mare apriva le sue braccia ai rigettati dalla terra servile, ai liberi uomini che avevano sognato la grandezza d'Italia. Di là dal fatale Ticino, dal sacro fiume del quale «su l'arida sponda» aveano aleggiato le speranze di quel sogno sublime, un giovane poeta, il grande poeta italiano del secolo, rinchiudeva nel cuore l'inno preparato agli aspettati fratelli. Ma se l'inno di Alessandro Manzoni non poteva più essere l'epinicio trionfale della libertà e della giustizia in Italia, rimaneva il canto d'una speranza imperitura per tutte le nazionalità oppresse, la protesta d'un diritto, nel cui nome non quella sola ma ogni altra barriera doveva essere infranta, della patria unica da Dio anche agli Italiani assegnata:
Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio,
Dove ancor dell'umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un'altra sventura,
Non c'è cor che non batta per te.
Ahimè, gli uomini la cui gesta aveva ispirata una tal poesia, non potevano ormai più che agitare combattere morire per la libertà di altre patrie, pel diritto ad essere di altre nazioni!
IV
Nei rimanenti mesi di quel tragico 21, Santorre, come già il Foscolo nel 15 esulando da Milano, s'aggirò per la Svizzera, lasciando per breve tempo in Marsiglia il fido Ornato. Forse non gli reggeva ancora l'animo di interporre troppo spazio di terra o di mare fra sè e la cara moglie e le loro creature, delle quali un'altra stava per nascere. Anzi gli arrise per alcun tempo, la speranza di poter ritirare la famiglia presso di sè, in qualche oscuro tranquillo angolo, dove gli fosse tollerato il seguitare a pensare e a lavorare per l'Italia; ma egli aveva alle spalle, dovunque riparasse, lo spietato flagello delle polizie, confederate in servigio della Santa Alleanza. E tra que' monti scriveva nel suo diario: «Oh libertà, che sopra questi monti e sopra queste nere verdeggianti selve signoreggi, e proteggi queste povere capanne, e fai gli uomini cortesi e onorati e le donne oneste! per te, io, sbandeggiato e povero, posso pur posare qui con un poco di pace l'animo irrequieto e la persona stanca… Questo sia l'asilo di colui al quale le Repubbliche non possono, i Re non vogliono, concedere un tetto ospitale. Con la moglie e coi figli vi trascorra i suoi dì, e invecchi, dimenticando la propria fortuna ma piangendo l'infelice patria…». E il giorno dipoi, 1º luglio: «Infelice patria! Questa parola mi viene detta, mi viene scritta, ad ogni momento. E come non lo sarebbe, se questo è il pensiero cui appena interrompono la notte ed il sonno?» E ripensando alla patria, «temeva di non essere, quanto il dovere e la ragione» imponesse, operoso e sollecito. Lui che, giunto il giorno di quella terribile prova, aveva fortissimamente voluto con tutta l'energia del suo Alfieri, che aveva operato come un eroe della vagheggiata antichità, lui giungeva fino a chiamarsi «debolissimo fra gli uomini, schiavo dell'indolenza e della mollezza, le cui riflessioni, scritte sull'arena del mare, si cancellassero al primo fiotto!» Siffatti pensieri gli turbinavano nell'anima in una burrascosa giornata di luglio, durante una delle sue passeggiate meditative lungo le sponde del lago Lemano: «e pervenuto» scrive, «dove la strada abbandona il lago, raccolsi ogni virtù della mente; e tre volte, con un ginocchio al suolo, mentre tornava a imperversare il vento colla pioggia, pronunziai le parole di una ferma risoluzione.» Tali erano, o gioventù italiana, e voi ricordateglielo, o madri, idealisti erano di tal fatta, nell'atto stesso che operatori eroici, gli uomini di non ancora un secolo fa, gli uomini della generazione iniziatrice: e vogliano i figliuoli nostri vogliano ritemprare a così alti esempi domestici le fibre dell'anima, perchè i benefizi della libertà, non dico gli ozi tumultuosi, ma gli onesti e fecondi benefizi della libertà, è poco, è nulla, è vergogna, averli ereditati, quando si mostri di non meritarli.
Molto ancora sarebbe da leggere nel diario dell'esule. «17 agosto. E mi voleva dare sei uova il buon contadino per quei pochi baci che io diedi ai bimbi suoi, e il fanciullo più vecchio mi chiamò a vedere uno scoiattolo sul noce. Oh buoni! oh semplici! Questo praticello è un paradiso, queste chine dolcissime rammentano il colle di Torino… Oh patria! oh memorie!..» E dopo altre pagine descrittive, non indegne di qualsiasi meglio esercitata penna, daccapo la Patria! sempre, come nel verso del Poeta di quei magnanimi esigli, il Berchet, «sempre la Patria in cor!» E con la Patria, la famiglia. «Io posso ancora vivere per la patria!.. Il mio nome, per le cose tentate in Piemonte, non è affatto ignoto. Se io l'onorerò coi fatti e con gli scritti… i miei figli avranno incitamento ed aiuto all'esser buoni e valenti. O figli miei! o mio Teodoro! e tu, amatissima sviscerata compagna del mio infelice destino! che fate? Forse il disprezzo vi circonda, la povertà vi minaccia. O patria, quanto mi costa l'averti tanto amata!». Ma negli ultimi giorni di quel settembre, cotesta vita nella quale i due forti uomini, Santorre e l'Ornato, con sì tranquilla fermezza schermivano i colpi della fortuna (fra le altre l'Ornato sonava il flauto e l'amico lo accompagnava col clarinetto, e leggevano sui luoghi la Giulia del Rousseau, e visitavano la Certosa di La Part-Dieu, e col Sismondi il castello byroniano di Chillon, e presso la torre di Kubli fantasticavano di tornei e cavalieri e trovatori), cotesta vita fu attristata da lacrime delle più amare che possa l'uomo spargere sulla terra. «Ricordo del 27 settembre, come io dissi a Luigi Ornato ch'egli non aveva più madre, e del suo immenso dolore, e del tempo in cui lo lasciai pensare alla sua sventura senza nulla dirgli, e dello spavento che provai quando non tornava, essendo uscito nell'ultima ora della sera.» Degno invero, l'Ornato, delle consolazioni di tale amico, e che dividessero insieme la santità anche di quei dolori, come altresì di qualche mesta speranza. «Mi è nata» scrive Santarosa «una bambina nella notte del 17 ottobre… Dio eterno! Ti piaccia benedire la mia fanciulla che avrà il nome di mia madre, la quale fu tua fedel serva, e mi rapisti anzi tempo. O madre, io te la consacro. Accogli la mia offerta dal tuo soggiorno celeste. Santorre, prepara una vita d'onore e di felicità a' tuoi figli, serbando la tua onestà, curando la tua fama, e servendo alla patria. Paolina mia, Iddio ti benedica, e ti faccia crescere in salute per consolare tuo padre!» E quella sera, e la sera appresso, il pensiero di lui, nella luce di due splendidi tramonti elvetici mirabilmente descritti (e vorrei, gentili, potervi leggere anche quella ed altre più pagine del diario) volava alla sua creaturina: «Bella sera che finisci soavemente uno de' più lieti giorni dell'anno, io ti saluto col cuore quasi sereno! Questo luogo è di tutta pace. Le acque del torrente si frangono tra i sassi, alcuni augelletti cantano ancora. O mio pensiero, io lascerò che tu vada presso alla culla della mia figlioletta. Un'altra Paolina vi fu, che mi fece la prima volta conoscere il contento d'esser padre, e il dolore di vedere morire la prole. Angioletta del cielo, sei tu che proteggi il tuo padre nella sventura, che gl'infondi tanta pace nel cuore. Noi siamo nati, mia dolce Paolina, noi siamo nati sotto allo stesso pianeta. I miei capelli imbiancheranno quando tu saluterai la fiorente giovinezza. Io vivrò allora in te e con te. Dio ti conservi, ti benedica, figlia della sventura, concepita nei giorni terribili della cospirazione, nutrita nel seno della madre nel tempo della procella, e nata mentre il padre calca la terra dell'esilio. Io odo i tuoi vagiti, il tuo pianto. Ti vedo succhiare avidamente il latte materno, e vedo gli occhi dell'amorosa balia contemplare il tuo viso, e bagnarsi di lagrime, pensando al tuo padre infelice.» E ancora la sera del 3 novembre: «Più dolce sera non si vide mai. Aspetterò che il sole tramonti e tolga a queste carissime colline la loro festività. Il rosato occidente e le bianche vette delle Alpi Vallesiane annunziano che il pianeta vivificatore è ancora sul nostro orizzonte; ma il suo disco sparve, e l'ombra è sulla collina, la nebbia sul lago e la solitudine nei vigneti. Questo è l'ultimo dì della vendemmia e della letizia autunnale; ma sembra che la natura ci voglia far dono di alcuni sereni giorni. Chi sa se il sole splende pur là dove Macra irriga il piano del Piemonte? Chi sa se la mia infelice consorte è rallegrata dalla dolce stagione? Paolina, angioletta mia, ricevi il saluto paterno dalla tua culla. Forse breve tempo passerà, e io sarò a dondolarti ed accarezzarti. Dio grande, serbamela in vita!» E la vita e l'azione invocava per sè medesimo: «Ah tutto fugge e si dilegua! Dio immortale, prendetevi il mio cuore, il mio senso d'amore; accoglietelo nel vostro seno: io non voglio morire». «… Oh miei figli, io non vorrò che alcuno vi possa mai rimproverare il padre. I nemici della libertà saranno i primi a disprezzarmi se io vacillo nella mia carriera. Se le cose d'Europa vietano di tentare novamente la fortuna d'Italia, io servirò alla patria scrivendo, e nutrirò la mia mente e il mio cuore della dolcezza del lavorare e delle speranze di gloria. Scriverò in italiano: ho di nuovo scapitato nella lingua patria; ma mi rifarò del danno sofferto da più mesi di lettura e di scrivere in francese.»
Il soggiorno in Svizzera gli era altresì rallegrato dall'incontrarsi con altri Piemontesi. Era un giorno il Dal Pozzo, già suo collega di Governo: – un altro giorno, a Friburgo, «uscendo dalla messa», era il Moffa di Lisio, compagno d'armi ad Alessandria e Novara («caro e generoso giovane, mio compagno nella perigliosa impresa!») e avevano pranzato insieme presso gli Azeglio, e con Roberto d'Azeglio visitava il Santarosa la Scuola di mutuo insegnamento dell'abate Gerard: – e si trovava coi della Cisterna, quando il giovine Principe, un altro dei condannati a morte, partiva per Parigi, e le sorelle tornavano piangendo a Torino. A Ginevra poi aveva stretto degna amicizia col Sismondi, l'istorico delle nostre Repubbliche medievali, il quale gli scriveva: «La fermezza ch'Ella mantenne quando un esercito di confederati si distrusse al primo fuoco, come neve al sole, quell'istessa fermezza Le giova per soffrire l'esilio e la persecuzione».
Di sue lettere alla famiglia io non conosco che poche linee di una alla moglie. Ne tengono in parte le veci alcune al Provana, che era rimasto in Piemonte, ma dimessosi dal servizio militare; mentre il Balbo si era imposto volontario esiglio. Al Provana il Santarosa scriveva: «Vedendo la mia ottima Carolina, tu la dovrai molto incoraggiare a sostenere con costanza le percosse della rea nostra fortuna; e dille che preghi Iddio di abbreviare questi amari giorni di separazione, ma che intanto la sua immagine è sempre viva nel mio cuore.» E ancora: «Io spero che avrai veduto mia moglie e i miei figli. Scrivimi quel che è di Teodoro. Non mi nascondere il vero. Penso che nella primavera prossima potrò riunirmi alla mia famiglia in una terra ospitale.» E rinnovando col Provana le consuetudini della quadripartita amicizia, lo informa aver ricevuto lettere dal Balbo; e gli annunzia le peregrinazioni che farà con l'Ornato, caricandosi sulle spalle, lui Santarosa, «una molto pesante bisaccia che io porterò a modo soldato e, spero, con la stessa disinvoltura de' miei antichi caporali de' Cacciatori», e ascenderanno il Grütli, e «saluteremo nel nostro viaggio, anche in tuo nome, le più belle valli, i più ameni monti, le più fresche acque, e le più sante memorie». Altra volta gli comunica le sue impressioni religiose: «Immáginati dei templi dove niente vedi salvo che poche panche e una cattedra. Invano l'occhio cerca l'altare e il segno della Redenzione del mondo. E il cuore pare che ti risponda: – Non è, questa, religione dove non è altare nè sacrifizio. – … Raccoglimento grandissimo, ordine, silenzio, bella decenza; tutto, se vuoi, fuori del mistico, del misterioso, del sublime.» E si esalta ripensando la Settimana santa cattolica, e se la piglia con «messer Calvino, col tristo teologo piccardo, il quale ha creduto possibile di fare una chiesa di filosofi»; con «gli errori e le malvagità dei nostri preti, che gli aprirono la strada», e «che trattano con disinvoltura e sgarbatamente le cerimonie del nostro culto». Ma il tema più caro è in quelle poche lettere la vecchia amicizia dei Quattro: «I Quattro sono divisi, battuti dall'orrida tempesta. Ma tanta congiunzione di animi, e tanto sincero amore, e sì alte speranze, non possono, non debbono riuscire in nulla. Ciascuno di noi avrà sempre bisogno della stima degli altri tre. Io amo sempre assaissimo il quarto, e sono infelice di trovarmi maggiore di lui nella prima di tutte le virtù.» (Quale virtù avrà egli inteso il fortissimo uomo? Ma qualunque si sia, quanto fior di gentilezza in cotesto rincrescergli di dover riconoscere sul Balbo questa speciale maggioranza di sè!) «Maggioranza» soggiunge subito «che non può essere compensata dall'aver egli molte altre doti in grado eccellente. O Luigi! siamo giovani ancora, non lasciamo che il tempo divori gli anni di vigore corale, che ancor possiamo vivere. Guai se cessiamo dal – vivere moralmente – un giorno! Il filo tagliato una volta non si annoda più. Saremo morti prima di scendere nella tomba. Guardiamo gli eventi come i nostri nipoti li guarderanno nel 1910. Non lasciamo che la bufera ci opprima. Siamo giovani ancora, lo ripeto. Viviamo fedeli a Dio e alla patria: la fortuna provveda al resto… Disprezzo, più che mai non feci, la filosofia degli empi e la politica dei malvagi…». Siam noi, o Signori, quei nipoti, e il 1910 non è lontano. Ma così potessimo dire, che noi «guardiamo gli eventi», e, padroni di essi come in gran parte oggi siamo, esercitiamo tale padronanza, con la stessa virtù, con la stessa energia del «vivere moralmente», con la stessa «giovinezza» tenace, con che quei vinti, quei proscritti, quei condannati a morte, ne sostenevano il peso sulle spalle percosse, e proseguivano pur con la fronte eretta al cielo la loro via dolorosa.
Pochi giorni ancora di quella elvetica ospitalità concedevano a Santorre le rimostranze che al Governo federale ne facevan continuamente le polizie di Torino e di Vienna. Il 15 novembre, dal viale di Vevey, scriveva: «O sole, io ti veggo tramontare per l'ultima volta sul lago, o sole! Tra pochi dì io sarò lontano da voi.» E non era finito il mese, che lo troviamo a Parigi.
Volgendosi, come egli soleva, a riguardar dietro a sè nella vita, quell'anno 1821, suo trentottesimo, doveva parergli come vissuto in un sogno. Dalla quiete della famiglia, dell'amicizia, dell'ufficio, degli studi, balzato alle agitazioni del cospirare, ai cimenti dell'insorgere, del governare, del combattere; poi travolto nella fuga, nella condanna alla forca, nell'esilio: poi ancora, restituito alla quiete, durante quella quasi villeggiatura svizzera, ma quiete solitaria e dolente di proscritto, ed in essa abbandonato alle meditazioni del filosofo, all'esaltamento romanzesco di un cuore bollente e impetuoso come d'un Ortis… – Se non che il cupo e scarmigliato Iacopo foscolesco, dopo veduto consumarsi in Campoformio «il sacrificio della patria», non sapeva di meglio che ingolfarsi in una passione burrascosa, e per quella, obbedendo al grido disperato che lo attirava verso il sepolcro, uccidersi. – Santorre, sostituendo subito il pensiero, gli antichi suoi pensieri, all'azione; e pur rimproverandosi, irrequieto spirito, di pigrizia e di tardità, avea scritto in quei mesi, ed ora dava in luce, un libretto sulla Rivoluzione Piemontese, cioè sulle cose da lui operate; invocava da Dio la forza e l'aiuto, che sentiva «non gli sarebbe mancato mai, finchè egli stesso non mancasse ai consigli della propria coscienza», per seguitare a servire il suo paese, la giustizia, la verità. E quando la vendetta degli uomini che gli han tolta la patria, e che implacabile lo perseguita d'asilo in asilo, l'avrà ridotto all'impotenza di far cosa nella quale quella sua netta e dignitosa coscienza riposi, allora egli ascolterà sì un grido disperato; ma sarà il grido d'una nazione che infrange catene obbrobriose, e per quella nazione Santorre darà degnamente la sua nobile vita.