Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II», sayfa 2
L'opera sua filosofica intera, tanto profonda nelle fondamenta, tanto solida nella struttura, tanto irradiata da intimi fulgori di sentimento e di fantasia, è veramente un poema sacro, in capo al quale si avrebbero a iscrivere le parole del suo autore ad Alessandro Manzoni: «Ciò ch'è divino e che luce nel seno del mistero è come il comune alimento pel quale il poeta e il filosofo vivono immortali.» Mi è impossibile, signori, esporvi il disegno di questo edificio che si chiama Sistema della Verità, e che Rosmini promise, sorridendo, di compiere in paradiso. Mi è altrettanto impossibile tralasciar d'indicarvene la pietra angolare. Malgrado la santità e il genio di Rosmini, malgrado le opere sue, la istituzione di un Ordine religioso, i servigi resi all'Italia, i suoi discepoli non avrebbero affrontato battaglie, umiliazioni e dolori: noi non ci saremmo raccolti in suo onore a Rovereto, nè io parlerei ora di lui per la terza volta se si trattasse della fama d'un uomo, dell'onore di una tomba e non della gloria di una verità. La pietra angolare del sistema filosofico di Rosmini è la dimostrazione che l'idea dell'Essere è il principio della intelligenza. L'idea dell'Essere, mediante la quale l'uomo può giudicare che le cose hanno la qualità di essere, ossia che sono, è il lume della ragione. È un lume implicito nel primo giudizio che l'uomo proferisce, quindi precede la prima sensazione di cui il soggetto ha coscienza, è anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. L'Essere non è altro che la verità. La verità è dunque anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. Appunto questo è il beneficio immenso che ci ha fatto Rosmini. Ha dato a tutti noi la visione razionale dell'Essere assoluto ossia la certezza razionale che vi è una verità infinita ed eterna, indipendente dall'uomo, origine della ragione umana; che le verità parziali, apprese dalla ragione umana nel lume del primo vero, non sono quindi proiezioni di lei, non peccano per un vizio radicale, insanabile, di relatività, ma sono certe in noi e fuori di noi. Questa è una grande forza che Rosmini ci ha dato contro lo scetticismo e le sue conseguenze. Il nostro dovere è di usarne, e urge, nell'ora presente, che noi ne usiamo perchè nell'ora presente la gente si burla dei filosofi, è vero, ma nello stesso tempo gli uomini e anche le donne fanno più che mai della filosofia per conto proprio. Ne fanno con pochissimo studio, con pochissimo sapere, e la maggior parte di queste filosofie private, nè solide, nè serie, riesce a base di scetticismo, il quale, nascosto o palese, si ripercote poi sulle energìe vitali e le abbassa. L'ora presente somiglia all'ora passata di quel sensismo contro il quale Rosmini insorse. La dottrina ch'eleva i sensi a soli maestri del vero ed esclude quindi l'assoluto, è alquanto scossa in teoria, ma il suo potere è tuttavia grande nel campo della politica dove si manifesta come opportunismo e regge la condotta di tutti i partiti con l'expedit e il non expedit; è grande nel campo del diritto penale, dove sostituisce il concetto di difesa al concetto di giustizia; è grande nel campo della scienza, dove nega il soprasensibile; è grande nel campo dell'arte, dove consacra i sensi a soli maestri della bellezza. Tutte queste manifestazioni di una dottrina di errore, noi, discepoli di Rosmini, siamo chiamati a combattere, ciascuno nel proprio campo e Rosmini non ci ha dato solamente un terreno fermo sul quale far testa, ci ha pure dato norme sicure per l'azione. Mettere in opera la verità: ecco la formola della morale rosminiana; dovunque e sempre corrispondere con l'azione alla verità: ecco la legge che noi dobbiamo proporci di seguire come uomini di scienza e come uomini di azione, come pensatori e come artisti. Operare la verità, per un artista, non è altro che conoscere con la mente la natura dell'arte e riconoscerla con l'opera. In questo concetto rosminiano, io, come artista, mi sono sentito libero dispositore della bellezza che appare ai sensi nella luce del sole e anche in certo modo negativo, nell'ombra; della bellezza che appare alla ragione nella luce del vero e del bene, e anche, in un certo modo negativo, nell'assenza di essi: della bellezza ch'è nella stessa anima mia come specchio della bellezza esterna, come idea, come fantasma, come amore. E se la visione delle cose belle conduce per via di ragionamento il discepolo di Rosmini a credere in un Essere vivente ch'è bellezza e dal quale ogni bellezza discende, il poeta perviene di slancio a tal fede nel palpito che l'oscuro tocco di questo Essere vivente gli suscita in cuore, come Shelley, rapito amante, cantò.
* * *
Signori! Io chiudevo pochi mesi addietro un mio breve studio su Antonio Rosmini esprimendo il voto che per opera di qualche ricco munifico o di qualche gruppo di uomini devoti alle dottrine del Roveretano sorgesse in Italia una cattedra di filosofia rosminiana. Permettetemi di ripetere questo voto davanti a voi. Uscendo dalla cripta del tempio di Stresa dove dorme la spoglia mortale dell'uomo che tanto vide e tanto amò, che tanta gloria diede alla Chiesa ed ebbe da infelici ministri di lei tanto dolore, pensavo a profetiche parole sue piene di fede nel trionfo del suo sistema: «Conviene che io muoia e marcisca sotterra. Allora sarà il tempo.» E pensavo quanto è da invocare nello stato presente d'Italia che quest'ora suoni. A minor prezzo che non si sarebbe sperato quando in faccia al golfo poetico dove Stresa siede tendevan la gola da Laveno i cannoni austriaci, l'unità politica della nazione si ottenne. Ma l'unità intellettuale che Rosmini, severo e acceso, ammoniva dover precedere l'altra, è più che mai desiderio e sogno. Unità intellettuale perfetta neppure si spera, neppure è compatibile con le condizioni della civiltà presente; tuttavia i dissidii che più fiaccano la mole malferma del nostro Stato e più turbano le anime potrebbero felicemente comporsi secondo principii di libertà e di verità, se un largo consenso avvenisse nelle dottrine di quell'uomo grande. Lavoriamo a creare un tale consenso e possano, nel 1955, per il centenario della sua morte, i nipoti nostri ascendere alla tomba di Stresa, là dove più ride Italia, dire ginocchioni a Rosmini che finalmente la sua patria cara non è soltanto una, felice, forte di leggi e di armi, ma è anche una nel concetto del diritto e del dovere, nell'intelletto e nella pratica della libertà.
ALESSANDRO MANZONI
CONFERENZA
DI
ENRICO PANZACCHI
Signore e Signori!
I
Qualcuno di voi forse ricorda che l'anno passato, nella conferenza che ebbi l'onore di tenere in questo stesso luogo, rilevai, a proposito di Alessandro Manzoni, la opinione mia intorno al romanticismo, considerato nel periodo in cui aveva raggiunto il suo momento più operoso, tanto fra noi quanto in Europa.
Eravamo nel 1821, e Manzoni scriveva al Conte Cesare D'Azeglio: «Per me il romanticismo ha compiuto la sua vicenda, e ormai sarebbe un bene che non se ne parlasse più, e non mi dorrei se anche il nome andasse in dimenticanza.» E invero, ciò che egli poteva fare l'aveva già fatto: soppressione delle così dette unità aristoteliche nel dramma, bando alle mitologie gentilesche, bando alla troppo servile e pedissequa imitazione degli autori classici; predilezione ormai consacrata per argomenti d'indole nazionale e per quelli che attengono all'intimità dello spirito. Erano notevoli inoltre nella conquista del romanticismo certi atteggiamenti di forma, e una spiccata predilezione di tutto ciò che aveva un po' del vago e del fantastico. Ma, soggiungeva poi il Manzoni, io credo che oltre tutto ciò bisogni indagare un carattere più intimo e più profondo che è nel moto detto romanticismo, qualche cosa che sopravviverà a lui anche quando esso rimanga un nome vano nella storia letteraria e che gli permette fin d'ora di guardare l'avvenire come suo. Consiste questo in un più grande ravvicinamento dello spirito alla natura per mezzo dell'osservazione diretta, dello studio intenso, dell'ispirazione spontanea e geniale.
A questa massima il Manzoni ha informato tutta la sua opera. Appena che egli esce di puerizia, e abbandona gl'imparaticci classici e le servili imitazioni del Monti o del Parini, fin dai versi in morte di Carlo Imbonati, scritti come sapete nel 1805, egli dà all'arte una base intima, psicologica: «Sentire e meditare.» Poi vengono gl'Inni, poi le Tragedie, dove si comprende subito che l'unità di luogo e di tempo non è rimossa a semplice pompa di emancipazione: non sono dei vincoli di meno che il poeta domanda, sono limiti più alti, per improntare tipi schiettamente umani e raccogliere nel dramma il quadro di un'epoca.
Da ultimo viene il romanzo, il quale fu cominciato a meditare dal Manzoni nel 1821, data per tanti rispetti memorabile nella vita del nostro poeta, perchè proprio in quell'anno sprigiona l'inno patriottico del Ventuno, perchè in quell'anno egli inalza all'urna di Napoleone un canto che non morrà. Nel 1821, il Manzoni comincia a ruminare la prima idea, a porre le prime linee del suo grande lavoro, che sarà terminato all'incirca nel 1826. Ed è nel romanzo, o Signori, che noi troviamo la conferma e la illustrazione piena di quel profondo concetto che egli aveva dell'arte e della letteratura; è nel romanzo che mostrò tutta intera la originalità dell'artista, perchè se nella lirica egli si schiude vie nuove come idee e come sentimento, quanto alla forma letteraria (i critici arguti e acuti non hanno mancato di rilevarlo) noi troviamo sempre qualche cosa di composito, di ondeggiante, di ambiguo tra il vecchio e il nuovo. Nel romanzo invece, pare di entrare in un'altra atmosfera; è la modernità e nel tempo stesso la personalità dell'ingegno e del criterio artistico del Manzoni, che si rivelano in tutta la loro potenza e in tutto il loro splendore. Se, come nota giustamente Gaetano Trezza, nelle altre opere il Manzoni procede alla testa del movimento letterario contemporaneo, col romanzo egli precorre di lungo tratto i suoi tempi. Non è più un'evoluzione, o Signori, è un salto fenomenico, che a considerarlo ora a tanta distanza di tempo, ed a compararlo colle vicende successive della letteratura, e specialmente della letteratura narrativa, pare senz'altro un miracolo.
Gaetano Negri, nella bella conferenza che tenne sul Manzoni a Lecco, ha detto: «Se verista vuol dire un poeta amante di verità, se naturalista vuol dire un artista che s'ispira direttamente alla natura e mutua e trae da lei tutte le sue ispirazioni, senza porre nessun diaframma d'impedimento e di perturbazione tra il fatto organico e vivente, e la sua ingenua ed energica significazione; se verista e naturalista vogliono dire queste cose, nessuno è stato verista e naturalista prima di Alessandro Manzoni.» E il Negri ha detto il vero. Avanti che cominciasse Balzac, dieci anni prima che nascesse Gustavo Flaubert, venti anni prima che nascesse Emilio Zola, Alessandro Manzoni in Italia poneva senza pompa di formule, senza esagerazione di sistema le grandi basi della letteratura e dell'arte moderna. E abbiatene una riprova in questo: quando apparvero i Promessi Sposi non ebbero subito quell'accoglienza trionfale che altri riscosse meritamente, per esempio l'Ivanhoe di Walter Scott. L'Ivanhoe veniva dopo molti altri romanzi che avevano procacciato gran fama al narratore scozzese, e tutto quel trasporto del pubblico facilmente si comprende. Non furono le ultime copie della prima edizione dei Promessi Sposi rubate e disputate colla spada come quelle del Gil-Blas: ma nella coscienza degli uomini più illuminati di quel tempo indusse un'impressione profonda. Il Visconte di Chateaubriand che pure era l'autore dell'Atala e dei Martiri disse: « Walter Scott è grande, ma Alessandro Manzoni è qualche cosa di più.» Wolfango Goethe che allora pontificava nella pienezza degli anni e della gloria, dal suo trono di Weimar su tutto quanto si produceva in Europa, disse, letto il romanzo e pure trovandolo censurabile per certi squilibri che vi aveva introdotto il troppo amore della scrupolosa narrazione storica, disse che rappresentava qualche cosa di meglio di quanto si era scritto fino ai suoi giorni in fatto di romanzi. E soprattutto notevole o Signori, è l'opinione di un filosofo dal quale si può dissentire, ma che tutti riconoscono come uno dei fondatori della scienza moderna, anzi come colui che ha dato nome a ciò che la scienza moderna inalbera a mo' di vessillo glorioso, il rigore della osservazione naturale. Augusto Comte, l'autore della «Filosofia positiva» nel sesto volume delle sue opere, seguendo il suo magistrale concetto delle tre epoche, dice: «Noi siamo entrati nell'epoca positiva, nell'epoca dell'esame diretto e spassionato dei fatti, ma ci siamo entrati solamente col pensiero scientifico. Tutte le discipline collaterali secondano lentamente questo moto; per esempio, le discipline sperimentali sono entrate nel periodo positivo, ma la letteratura di tutti i popoli d'Europa è ancora improntata, è ancora intonata, per così dire, alla vecchia scuola del periodo mistico, metafisico.» Il Comte fa pochissime eccezioni, cita pochissimi libri, e, notate, nessun libro francese; ma conclude la sua breve enumerazione ricordando come ultimo libro uscito i Promessi Sposi e giudicandolo un libro sintomatico, un libro di significazione universale, un libro di cui i contemporanei non possono ancora apprezzare tutto il valore, ma che rappresenta proprio l'avvento della osservazione, il contatto immediato, sincero e genuino dell'artista con la natura; inizia insomma, letterariamente, quel terzo periodo che egli considera come il termine della evoluzione psicologica e intellettuale della civiltà europea.
Dopo sì luminose testimonianze, voi capirete, o Signori, che si rende sempre più arduo per me, il parlarvi non del tutto indegnamente di questo libro, anche se si tenga conto del breve tempo che mi si è conceduto. Vi contenterete dunque, che io tocchi come di volo l'argomento, soffermandomi qua e là nei punti che per avventura creda più caratteristici e più adatti alla vostra attenzione. Che cos'è questo romanzo? Una storia molto comune. Un giorno il Manzoni, raccontano, leggendo certe gride e certi bandi del governo di Lombardia nel secolo XVI, contro i bravi e contro i vagabondi, vide che fra tante altre cose a cui era comminata una pena c'era l'impedimento al matrimonio. Allora cominciò fra sè a fantasticare: qui si potrebbe trarre fuori un racconto. E tanto s'invaghisce di quest'idea, che lascia da parte una tragedia d'argomento classico, lo Spartaco, dove voleva effondere tutto il suo amore di libertà, tutte le sante ribellioni del civismo contro le tirannie, le oppressioni d'ogni genere che allora gravitavano sull'Italia, e si mette a pensare questo romanzo. Ma sceglie un soggetto molto umile. Due poveri contadini lombardi si amano, vogliono sposarsi; ma in quel paese così ben governato dagli spagnuoli c'è un signorotto a cui piace la contadina e vorrebbe farla sua. Incarica i suoi bravi di intimidire il curato, e il curato si ricusa al matrimonio. E qui le peripezie senza fine.
Secondo il primo concetto pare che il romanzo dovesse finire molto asceticamente. Lucia nella notte del terrore passata nel castello dell'Innominato, consacra la sua verginità alla Madonna; contro quest'ostacolo non vi è riparo. Il romanzo finisce. Lucia entra in un convento; ed il povero Renzo porta il suo dolore nella lontana Alemagna, essendosi arruolato per disperazione in una delle tante bande di lanzi, che scorazzavano l'Italia. Per fortuna dicono che monsignor Tosi, il quale aveva il governo allora della coscienza molto pia e molto timorata del Manzoni, allontanò un poco il suo rigore. Allora il romanziere indulse alla ragione estetica più liberamente, e venne fuori dalle sue fantasie l'intelaiatura del romanzo, come fortunatamente l'abbiano ora sotto gli occhi.
II
Il romanzo si divide in tre periodi, e comprende due anni: dal 1628 al 1630. Comincia la sera del 7 novembre 1628 colla passeggiata di Don Abbondio.
Ma avanti ch'io prosegua, permettetemi, o Signore, una domanda: avete mai letto i Promessi Sposi?.. Non intendo di offendervi con questa domanda. Voi sapete che un giovane di molto ingegno e del quale avete ammirato in questa sala la cultura e l'eloquenza, qualche settimana fa ingenuamente confessava al pubblico, scrivendo un bellissimo articolo, che era arrivato alla virilità senza aver letto i Promessi Sposi. Quindi io, parlando, dovrò tener conto di due ipotesi, di quella parte del mio pubblico cortese che ha letto i Promessi Sposi e di quella parte che per caso non li avesse letti. Se non li aveste letti, io vi consiglio a leggerli; e prevedo allora che li rileggerete, perchè intorno ai Promessi Sposi del Manzoni si può dire quello che dicono gli spagnuoli del Don Chisciotte del Cervantes: che si può non leggerlo, ma una volta letto bisogna leggerlo una seconda volta. Il racconto dunque comincia colla passeggiata di Don Abbondio, in quel vespro memorabile del 7 novembre 1628, e la prima parte va fino alla fuga di Lucia a Milano. Qui si chiude il primo periodo. Poi viene la seconda parte che è tutta occupata dai grandi avvenimenti della guerra per la successione di Mantova, la peste e via discorrendo. Questa la parte incriminata dal Goethe il quale scriveva al Cousin e diceva all'Eckermann: «Peccato che il Manzoni si sia abbandonato troppo alla compiacenza di narrare questi fatti! Egli mi ha l'aria di un uomo che esamina nella luce, poi ad un tratto entra in un pezzo d'ombra. Ma a breve andare egli percorre questo tratto d'ombra e risale e riesce nella luce gloriosa.» Finalmente la terza parte va dalla morte di Don Rodrigo, oppure dal rinvenimento che il povero Renzo fa di Lucia in mezzo agli orrori del Lazzeretto, e si protrae fino al matrimonio dei due fidanzati che si compie alla fine «in quel benedetto giorno» là proprio in quella chiesa e per opera proprio di quel prete Don Abbondio, che per i suoi codardi timori era stato origine di tutti quegl'incidenti e di tutti quei dolori.
III
Qual è il gran merito di questo romanzo? Perchè ed in che questi Promessi Sposi rappresentano quell'atmosfera nuova che Augusto Comte riconosceva in essi, e per quali titoli iniziano un'epoca letteraria? Perchè tanti ingegni di prim'ordine non hanno dubitato di considerare i Promessi Sposi come una grande pietra miliaria nella storia dello svolgimento del pensiero artistico e letterario non soltanto italiano ma di tutti i paesi civili? Vi sono certi maestri di scuola ai quali pare di aver detto tutto quando hanno detto: i Promessi Sposi sono un gran bel libro perchè sono un quadro storico, vivo e veridico delle condizioni d'Italia e specialmente della Lombardia sotto l'ampolloso, fiacco e depravato governo di Spagna. Ebbene, io protesto con tutta l'anima contro questa maniera di giudizio: con giudizi di questo genere (e se ne emettono tanti ogni giorno!) si sposta completamente la questione, si turbano, si sconvolgono le categorie. Dei quadri storici veridici e completi ve ne sono molti in tutte le letterature che valgono i Promessi Sposi. Ha un bellissimo quadro storico, per esempio, delle condizioni d'Italia alla morte di Lorenzo De' Medici, il Guicciardini. Il libro della conquista normanna di Giacomo Thierry, alcuni periodi di storia inglese del Macaulay, certe pagine sfolgoranti di Tommaso Carlyle che vi mettono sotto occhio la rivoluzione francese, sono bellissimi quadri storici, che, per tale rispetto? valgono meglio di qualunque romanzo. Ma il romanzo dei Promessi Sposi, è un'altra cosa. Quando siamo nel campo dell'arte, l'elemento tecnico, l'elemento scientifico sarà, se volete, il fondamento di tutto quest'organismo vivente e palpitante, ma la sua forza vera, quella per cui si differenzia e costituisce una categoria a sè, consiste in una somma speciale di valori estetici ai quali aderisce la ragione, ai quali aderisce la fantasia ammirando gaudiosamente, ai quali aderisce il cuore umano sorridendo piacevolmente. I Promessi Sposi sono una grande opera d'arte per tutto questo complesso di elementi, raccolti in magistrale unità. Dato il prestigio magico che nessuna mente umana saprà mai definire; data, insomma, l'abilità dell'artista e dello scrittore, quello che era soltanto quadro storico si converte davanti a noi in un quadro ideale che ci tocca, che ci commuove, che ci diverte, che ci esalta; e questo quadro ideale non arriverete mai ad equipararlo con la scienza. S'intende che anche la storia può essere benissimo un'opera d'arte; ma la storia che qui concorre a formare il romanzo non è essa che forma l'opera d'arte. Ed io non dubito di affermare, o Signore, che il romanzo dei Promessi Sposi potrebbe essere molto meno storico ed anche più bello di quello che è; come potrebbe essere molto meno bello ed essere anche più storico.
Certe confusioni sarebbe ora di bandirle per sempre. Anzi, dacchè abbiamo toccato questo tasto, fermiamoci un momento. Se c'è qualche cosa che si possa censurare nella macchina dei Promessi Sposi è appunto un certo squilibrio e un certo soverchiare dell'elemento storico. Fu questo il portato dello spirito un po' meticoloso del Manzoni, perchè il gran lombardo che ricordava tutti i placiti dell'antichità, qualche volta si dimenticava di un detto sapientissimo: cave a consequentiariis. Una volta che egli aveva preso in mano un argomento, una volta che colla sua testa così sottile e così tormentatrice di sè stessa arrivava a porre certe basi e certe premesse, egli non si contentava di andare fino all'ultimissima conseguenza, ma passava il segno. Sapete in fatto quello che gli accadde? Un bel giorno dopo aver ruminato entro di sè tutte le ragioni pro e contro sul come fondere insieme l'elemento storico e l'elemento fantastico ed inventivo, sapete come concluse il Manzoni? Concluse che si credette in obbligo di sacrificare il suo capolavoro e quasi si pentì di averlo scritto! Dunque tutta quella esattezza storica nella quale i pedanti hanno voluto trovare il maggior pregio dei Promessi Sposi non è nè l'unico nè il principale fondamento della nostra ammirazione. Qui invece troviamo un legittimo appiglio alla nostra critica.
Oh! no, Signore, il principio inesauribile della nostra ammirazione è nelle qualità essenzialmente estetiche che Alessandro Manzoni ha profuso nelle pagine del suo romanzo: lo troviamo in quel quadro ideale al quale ho accennato più sopra. Qui egli è veramente grande, perchè tocca le parti più nobili, più delicate, più spirituali dell'animo nostro.