Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II», sayfa 4
GIUSEPPE MAZZINI
E IL SUO PENSIERO FILOSOFICO
CONFERENZA
DI
ARTURO LINAKER
«In noi tutti, figli del secolo XIX, v'ha del Titano e dell'Amleto a un tempo. Cominciamo dal credere esclusivamente in noi stessi e finiamo col non credere più in cosa alcuna; due fasi dell'anima che dipendono dalla mancanza d'una fede santa e comune. La vita, così diseredata, ci sfugge in linea spezzata, a traverso una successione di scosse, ora sfiorando il cielo, ora immergendosi nel fango, invece di spandersi forte e calma nella sventura come nella ventura. Il Titano cade fulminato dalla forza delle cose: Amleto si accascia sotto il peso dell'idea… Solo il credente rimane in piedi come vecchia querce solcata dalle tempeste… Triste e silenzioso, egli prosegue senza codardo sconforto il compito della sua giornata. Ei sa che il fiore dell'anima sua, la speranza, non può espandersi se non al di là di quella culla di trasformazione, che quaggiù vien chiamata tomba!»
Questo, con un tratto Michelangiolesco, l'ideale della vita che Mazzini tracciava: non Titano, non Amleto, ma credente in una fede santa e comune!
A lui la madre non sussurrò imprudentemente all'orecchio con un bacio: sii felice! A lui il padre non disse: sii ricco! Ma la madre al primo svegliarsi della sua intelligenza avevagli detto: sii buono e puro! sii forte: impara a soffrire!
E la memoria della madre egli benedisse! Benedisse, in mezzo alle dure prove della vita, l'educazione avuta.
Gli uomini del 21 che, profughi dall'Italia, andavano a combattere e a morire per la libertà della Spagna, avevano lasciato profonda impressione in lui, giovinetto di 16 anni; aveva intraveduto che si doveva e si poteva lottare per una fede santa e comune, la libertà della patria!
L'immagine di que' proscritti gli stava dinanzi; e, in mezzo alla irrequieta, tumultuante vita degli studenti, era cupo, assorto, invecchiato precocemente; vestiva sempre di nero, sembrandogli portare il lutto della patria; ed era talmente fuori di sè per la lettura dell'Ortis, che la buona madre temette del suicidio del figlio!
Sono fasi che la tempestosa anima de' giovani traversa: belle, quando la causa dello sconforto è una grande, una santa idea; tristi, quando è l'egoismo insoddisfatto, una smodata brama di godere non appagata, la stanchezza della vita!
Una donna, la madre dei suoi amici Ruffini, lo riconciliò colla vita, gl'infuse, accanto all'amore per la patria, la fede religiosa! Bisogna leggere le pagine affettuosamente belle del Lorenzo Benoni per aver un'idea del Mazzini studente all'Università, uscito dalla sua crisi di scetticismo.
Giovanni Ruffini scrisse del Mazzini quando già s'era staccato politicamente da lui; ma nell'anima sua era rimasto un ricordo che non si cancella mai, il ricordo puro, poetico della giovinezza.
Il Mazzini (ch'egli chiama Fantasio) era per lui il giovane più affascinante che avesse conosciuto. La sua testa era assai ben modellata; spaziosa e prominente la fronte; gli occhi neri morati mandavano lampi. L'espressione della sua faccia grave e quasi severa era addolcita da un sorriso soavissimo; era bello e facondo parlatore: e, se si fosse incalorito in una disputa, era ne' suoi occhi, nel gesto, nella voce un fàscino irresistibile. Magro e gracile di corpo, aveva un'anima infaticabilmente attiva. Appassionato amatore d'ogni libertà, l'anima sua fiera spirava un indomabile spirito di rivolta contro ogni tirannia ed oppressione. Buono, affettuoso, liberale…
Questo è il ritratto del Mazzini studente.
Dante e Alfieri, Shakespeare e Byron, Goethe e Schiller riscaldavano l'anima sua. Dante però era l'autore prediletto da lui: dal 1821 al 1827 egli l'aveva profondamente studiato, e aveva imparato a venerarlo come padre della nazione; lo commentava ad un nucleo di giovani scelti, d'intelletto indipendente, anelanti a nuove cose, che si raggruppava intorno a lui. Il nome d'Italia che sì frequente ricorre nel poema, diventava sacro per loro, e destava i palpiti del loro cuore.
Il suo primo scritto, sull'Amor patrio di Dante, lo mandò all'Antologia che non lo pubblicò: lo fece inserire poi nel Subalpino Niccolò Tommasèo, che nel culto di Dante aveva pure attinto forti ispirazioni.
«O Italiani (esclama il Mazzini in quell'articolo), studiate Dante! non su' commenti, non sulle glosse, ma nella storia del secolo in che egli visse, nella sua vita, nelle sue opere!»
Ed imparò da Dante come si serva alla patria finchè è vietato l'operare, e come si viva nella sciagura!
Egli era nato letterato! S'affaccendavano alla sua mente visioni di drammi e romanzi storici senza fine e fantasie d'arte, che gli sorridevano come immagini di fanciulle carezzevoli a chi vive solo. Ma, a che l'arte? Senza patria e libertà si potevano avere profeti d'arte, non arte. Il problema era essenzialmente politico: bisognava avere una patria! «L'arte italiana fiorirà sulle nostre tombe!»
Così sperava; e fu letterato geniale, e critico profondo, come mostrò in un suo magistrale discorso il compianto Nencioni nostro.
Allora, nella lite che ferveva fra classicisti e romantici, il Mazzini e i suoi amici si schierarono per il romanticismo; ma la controversia letteraria era per loro convertita in politica. Basta mutare alcune parole per avvedersene; l'indipendenza in fatto di letteratura era il primo passo ad altra indipendenza.
L'Indicatore Genovese, povero, modesto, innocente foglio d'avvisi, accolse gli scritti di quei giovani: i principali eran del Mazzini sui Promessi Sposi, sulla storia del Botta, sul Monti, sulla storia dello Schlegel, sulla Battaglia di Benevento.
Riviveva il Conciliatore. Chiunque avrebbe scorto che la letteratura era pretesto! Al Guerrazzi il Mazzini in quelle pagine aveva detto: «da te l'Italia è in dritto di attender molto, e scrivi; snuda la viltà del delitto, colpisci con quadri di terrore i fiacchi a' quali il rimprovero è poco.» E il Guerrazzi scrisse! Nel Monti aveva pianto non solo l'autore delle cantiche in morte di Ugo Bassville e del Mascheroni, ma anche l'autore della Proposta, che diè l'ultimo crollo alla schiavitù in fatto di lingua. Allo Schlegel, che rimproverava all'Italia di non aver poesia nazionale, risponderà la colpa non esser degli scrittori, e faceva sperare che la macchia sarebbe stata lavata. Del Foscolo vaticinava che un giorno l'Italia gli avrebbe eretto un monumento d'amore, e lo avrebbe riposto fra i grandi delle nazioni. E la profezia s'è avverata!
11 governo Sardo finì anch'esso per comprendere le tendenze del Foglio d'annunzi e soppresse il giornale, che tornò a rivivere a Livorno come Indicatore Livornese.
E là il Mazzini scrisse sul Faust del Goethe, sulle Fantasie del Berchet, sull'Orazione del Foscolo a Bonaparte, sulle tendenze d'una Letteratura europea, sull'Esule di Pietro Giannone.
Nel Faust egli vede la rappresentazione di un'intera epoca che sta per chiudersi. Faust è il genio isolato: Faust cade nello sconforto, bestemmia l'alto concetto che lo spirito nutre di sè, le illusioni dell'immortalità, l'entusiasmo, la speranza, la pazienza! Rovinato, sfumato il mondo intellettuale, il mondo materiale è l'unico che rimanga alla sua smania di attività; vuol godere, ed eccolo in lega con Mefistofele, che pone a fine dell'esistenza il piacere, l'egoismo! Il genio isolato e l'egoismo si uniscono; il genio vuol liberarsene, ma non può; dissecca la sorgente della celeste voluttà per lasciarlo in braccio a' traviamenti delle tenebre. Il genio così trasformato disprezza gli uomini a cui si crede superiore: la sua potenza è pel male; trascina al delitto l'improvvida, la fragile creatura… Margherita! Faust è fra gli uomini, non per gli uomini: erra in mezzo ad essi solitario e senza oggetto come lo straniero in mezzo a gente che non intende la sua favella! Vae soli!
* * *
Signore! Questa non è che una pallida e troppo rapida sintesi di quelle caldissime e potenti pagine colle quali il Mazzini ritrasse il Faust del Goethe, in cui cercò e trovò un gran pensiero filosofico. Ma, esclama, v'ha un affetto che può salvare le anime della tempra di Faust dal regno di Mefistofele; puro quanto l'amor filiale, vasto quanto l'universo, sublime quanto il pensiero di Dio; che commuove ogni fibra, che santifica ogni pensiero, un affetto che può bastare a un'intera esistenza, che dovrà formare il carattere di questo secolo, fonderà quella concordia di voti e di opere che mancava all'epoca scorsa, ritratta da Faust. «Dovrò io nominarlo (chiude così quel suo splendido studio il Mazzini) dovrò io nominarlo parlando a' miei fratelli Italiani?»
A quale affetto alludesse, lo comprese il governo Toscano che, per non essere inferiore, ne' gusti letterari, al governo Sardo, soppresse l'Indicatore.
E allora il Mazzini mandò i suoi articoli all'Antologia di Firenze. Gli uomini che si accoglievano attorno a Gino Capponi e al Vieusseux parevano timidi a lui, giovane pieno d'impeti: ma li amava perchè d'animo italiano. E con loro si unì.
Nelle pagine di quel glorioso giornale, soppresso nel 1833 per ordine dell'Austria e della Russia, scrisse animosamente parlando del dramma: «Siamo diseredati di dramma per le stesse ragioni per le quali siamo diseredati di storia: e, finchè quelle ragioni non cessino, dovremo star paghi a lavori più o meno fecondi di critica.»
Le ragioni si comprendevano. Gl'Italiani non avevano patria. Avere una patria! Questa l'idea del Mazzini: la Grecia aveva fatto la sua rivoluzione: perchè non l'avrebbe fatta l'Italia? La Grecia aveva avuto la sua Etaria: perchè non l'avrebbe avuta l'Italia? E il Mazzini aveva steso un piano particolareggiato d'un'Etaria Italiana, approvato dai suoi compagni. Ma l'aver potuto, dopo lungo tempo e molte difficoltà, essere iniziato all'ordine de' Carbonari insieme a Iacopo Ruffini, lo distolse da questa idea.
Il Carbonarismo, sperava, sarebbe divenuto la Etaria Italiana.
Non ammirava il simbolismo complesso, i gradi gerarchici; anzi, tutto quell'apparato lo faceva sorridere di compassione, specie le tremende prove dell'iniziamento che, in sostanza, eran grottesche. Vedeva nella Carboneria un corpo invecchiato, ma ancora potente per le sue filiazioni numerose in ogni classe di cittadini.
Venne in Toscana a conoscere i suoi collaboratori letterarî: Carlo Bini, F. D. Guerrazzi, Enrico Mayer, Pietro Bastogi; le amicizie letterarie eran divenuti legami politici; il Mazzini, elevato a' gradi superiori dell'Ordine, aveva accumulato gli affiliati fra i giovani; ma, poco dopo le giornate di luglio a Parigi, i governi, insospettiti, scopersero l'associazione: non mancarono le spie, i delatori. Giuseppe Mazzini fu arrestato e chiuso in una cella della fortezza di Savona!
Là, fra cielo e mare, due simboli dell'infinito e la vista delle Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri, confortato da' canti del pescatore che arrivavano fino alla sua cella, egli meditò il disegno della Giovine Italia. Al prigioniero fu lasciata la Bibbia, un Tacito, un Byron. Forse perchè la Bibbia era un libro religioso; Tacito perchè latino e il latino non aveva fatto mai paura; Byron perchè inglese e la polizia non sospettava di libri inglesi, tanto meno de' poeti!
Que' tre libri lesse, rilesse, meditò nella solitudine del carcere: un po' di tutt'e tre ritroviamo ne' suoi scritti, specie nello stile.
Un'immensa speranza balenava nell'anima del prigioniero. Roma, pensava, ha avuto due grandi civiltà. La Roma della Repubblica conchiusa dai Cesari aveva solcato dietro al volo dell'Aquila il mondo noto coll'idea del Diritto, sorgente della Libertà. Poi era risorta più grande di prima co' Papi, centro accettato d'una nuova unità, che levando la legge dalla terra al cielo sovrapponeva all'idea del diritto l'idea del dovere comune a tutti, e sorgente quindi dell'eguaglianza. La terza Roma, la Roma del popolo Italiano, doveva dare una terza, e più vasta unità che, armonizzando terra e cielo, diritto e dovere, avrebbe parlato non agl'individui, ma ai popoli una parola di associazione insegnatrice, ai liberi ed uguali una parola della loro missione quaggiù.
Il nuovo lavoro doveva essere morale, non solo politico, religioso non negativo; basato sui principî non sull'interesse; sul dovere, non sul benessere. Egli aveva sempre dinanzi la figura di Faust; bisognava annientare l'egoismo, infondere questa nuova vita a Faust; poichè, anche in alcuni suoi amici, specie nel Guerrazzi, vedeva lo scetticismo che uccide!
Liberato dalla fortezza di Savona, posto nel bivio di abitare una piccola città del Piemonte o di andare in esilio, scelse quest'ultimo; e tutta la sua vita dovette ripetere questa triste parola: «esilio!» «Colui (aveva scritto nel 1829 quasi presentendo il suo fato) colui che primo inventò questa pena, non aveva nè madre, nè padre, nè amici, nè amante. Egli volle vendicarsi sulle altrui teste, e disse agli uomini suoi fratelli: siate maledetti dall'esilio com'io dalla fortuna… siate orfani… io vi torrò tutto fuorchè un soffio di vita, perchè possiate ramingare, come Caino, nell'universo col chiodo della disperazione nel petto!»
Si reca a Ginevra, poi a Lione, poi in Corsica, poi a Marsiglia. E di là scrive la lettera a Carlo Alberto: là riprende l'antico disegno meditato nel carcere di Savona, la fondazione della Giovine Italia.
La Giovine Italia doveva seguire vie differenti dalla Vecchia Italia, che egli vedeva attraverso a Filippo Buonarroti ed ai Carbonari.
Quindi non v'immaginate simbolismo, non cerimonie tremende, terrorizzanti solo gl'ingenui, non un'interminabile gerarchia; non voleva riprodurre ciò che già v'era e che l'aveva fatto sorridere: ricordava le commedie di cui era stato testimone; dalla pistola che doveva esplodere e non esplodeva alle riunioni de' congiurati chiusi ne' loro neri mantelli, che, al tocco della campana di mezzanotte, si riunivano per proclamare la punizione d'un rivelatore di segreti, e via via fino alle scene nella prigione di Savona, in cui il Da Passano, percuotendolo sulla testa, l'aveva iniziato non so a quale suprema dignità.
Due gradi soli: iniziati e iniziatori: gl'iniziati non avevan facoltà di affiliare; gl'iniziatori sì. Congreghe, nome desunto da' ricordi di Pontida, i nuclei di direzione: un comitato centrale all'estero per dirigere l'impresa e stringere vincoli fra l'Italia e gli elementi democratici stranieri. In ogni città un ordinatore: i viaggiatori mettevano in rapporto gli affiliati col Comitato centrale. Simbolo dell'associazione, un ramoscello di cipresso; il motto: Ora e sempre; la bandiera, il tricolore italiano; da un lato la scritta Libertà, Uguaglianza, Umanità, indicanti la missione internazionale italiana; dall'altro Unità, Indipendenza indicatrice della missione nazionale. Dio e l'Umanità formula per le relazioni esterne: Dio e il popolo per i lavori riguardanti la patria.
Vedete che, più che un'associazione politica, la Giovine Italia è sistema religioso e morale. Nella mente del Mazzini non doveva essere setta o partito, ma credenza e apostolato: doveva chiudere il periodo delle sètte e iniziar quello dell'associazione, d'una vita operosa e rigeneratrice.
Le idee della Giovane Italia eran palesi e pubblicate in un giornale che portava questo titolo.
In quel giornale il Mazzini scongiurava la gioventù d'Italia a tralasciar di scrivere inezie e canzoni d'amore e rivolgere invece la letteratura a promuovere l'utile del popolo con sacrificî d'ogni genere: a cominciare dall'istruzione elementare, a diffondere l'insegnamento popolare, a viaggiare, a portar di paese in paese, di villaggio in villaggio, sui monti, alla mensa del coltivatore, nelle officine degli artigiani l'educazione, la persuasione delle sante parole di libertà. Dio e il popolo! Ecco la formula mazziniana. Il popolo è l'eletto di Dio a compiere la sua legge, legge d'amore, d'eguaglianza, di emancipazione universale.
Era una religione nuova! E il codice della Giovine Italia, dettato in stile biblico, rassomigliava ad un codice religioso. La gioventù che aveva sete d'ideale amò questa Etaria Italiana: e, come sulle orme del fraticello d'Assisi cresce la gente poverella,
Dietro allo sposo; sì la sposa piace,
crescono ogni giorno, si affratellano gl'iniziati della Giovine Italia, gli scritti si propagano; da Marsiglia, chiusi dentro botti di pece, i fascicoli della Giovane Italia arrivano nella Penisola; son ristampati da tipografie clandestine, si moltiplicano: le polizie ne hanno sentore, raddoppiano la vigilanza, le spie; si dissuggellano le lettere per scoprire le fucine rivoluzionarie.
E la gran fucina che impensierisce i governi d'Italia era una povera stanzuccia dove, fra le strette della miseria, Mazzini, Lamberti, Usiglio, G. B. Ruffini lavoravano al giornale e dirigevano il moto.
«Furono dal 1831 al 1833 due anni di vita giovane, pura e lietamente devota come la desidero alla generazione che sorge!» esclamava nel 1861 Mazzini. E poteva esser lieto dell'opera sua. La parte eletta della nuova generazione italiana, pendeva da lui, giurava con lui, era affratellata nelle idee della Giovine Italia. I profughi del 31 da Parma, da Bologna, da Modena, lo raggiungevano a Marsiglia. Niccola Fabrizi, Celeste Menotti, Usiglio, Gustavo Modena, Lamberti, Melegari, Carlo Bianco, Giuditta Sidoli.
Vincenzo Gioberti, che allora apparteneva alla Giovine Italia col nome di Demofilo, gridava: «Io vi saluto, precursori della nuova legge politica, apostoli del rinnovato Evangelio… La vostra causa è giusta e pietosa essendo quella del popolo, la vostra causa è santa essendo quella di Dio. Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo Dio e popolo e cercheremo di propagar questo grido!»
Nelle diverse parti d'Italia l'associazione aumentava: a Genova Iacopo Ruffini e i fratelli, Campanella, Elia Benza, Lorenzo Pareto, il conte Camillo D'Adda: in Toscana Guerrazzi. Bini, Mayer, Corsini, Montanelli, Franchini, Matteucci, Cempini figlio d'un ministro del Granduca, Carlo Fenzi, Pietro Bastogi, cassiere; nell'Umbria il conte Guardabassi; nelle Romagne gli uomini più eminenti fra i quali Farini; congreghe a Roma e Napoli; in Piemonte la rete era estesissima: vi appartenevano Depretis, Barberis, Vochieri; in Lombardia i fratelli Ciani, il marchese Gaspare Rosales, la principessa Belgioioso…
Educazione, insurrezione, era il programma della Giovine Italia; la prima insurrezione doveva scoppiare nell'esercito piemontese a Genova, a Torino, ad Alessandria; di lì si sarebbe propagata per tutta l'Italia. Carte trovate in un baule diretto dal Mazzini alla madre, sequestrato, avevan dato la chiave per intendere il disegno della Giovine Italia. Così la congiura fu scoperta: le repressioni odiose e terribili: fucilato Vochieri co' compagni; piene le carceri di prigionieri; Iacopo Ruffini, con un chiodo strappato alle porte del carcere, si aprì una vena del collo e si rifugiò nel seno di Dio, sottraendosi al pericolo di piegare e di far rivelazioni!
La Giovine Italia aveva avuto il battesimo del sangue; e quanto e quale! Mazzini, in contumacia, condannato a morte ignominiosa; Garibaldi pure!
E Mazzini allora volle precipitar l'azione; il 3 febbraio 1834 fu tentata la spedizione di Savoia.
Anche qui delazioni, tradimenti, disfatta!
Era finito il primo periodo della Giovine Italia, e finito con una sconfitta! Processi, condanne, sgomento in tutti: i più arditi vanno a combattere in Spagna, come Manfredo Fanti e Niccola Fabrizi.
Il Mazzini allora «rimane immerso in un letargo di melanconia; si legge sul suo volto un pallore di morte proveniente dalle pene del cuore!» Così si esprimeva il rapporto d'un traditore messo a lato di Mazzini.
Ma non era di quelle tempre in cui l'abbattimento tolga l'azione; come il ragno paziente ricostruisce la sua tela, e comincia per lui un altro periodo di operosità.
A Berna, cacciati di cantone in cantone eran rimasti Ruffini, Rosales, Melegari, Ciani, Campanella, Gustavo Modena. Altri esuli tedeschi, polacchi si erano uniti a loro, e il Mazzini pensa allora ad una nuova vasta associazione europea.
I primi abbozzi sono scritti in francese, ed hanno, anche più del programma della Giovine Italia, la forma biblica.
Non vi sarà discaro udirne alcuni brani:
«… La notte della sventura era nera. Un lampo illuminò la scena sulle Alpi e s'intese una voce…
«La voce chiamava i disgraziati esuli a consiglio… essi si misero in via.
«Venivano a due a tre sulla vetta della montagna.
«Usci una voce e disse: sono lo spirito di coloro che son morti. Pregateli che Dio sia con voi.
«E tutti colla mano sul cuore pregarono in silenzio i martiri che morirono per le nazioni.
«La voce poi mostrò una fede nuova. Un uomo la scrisse.
«In nome di Dio e pel bene dell'umanità le nazioni si uniscono in un patto di difesa, di soccorso, di fratellanza.
«Piace la nostra fede?
«Sì, risposero quegli uomini e primi posero le basi della Confederazione i Polacchi, gli Italiani, i Tedeschi; là, in vista del Rütli dove tre uomini avean posto le basi della Confederazione Elvetica.»
La Giovine Europa è costituita.
Comprese il Mazzini essere allora un sogno l'azione immediata: la fallita sollevazione del Piemonte, la spedizione di Savoia l'avevano duramente ammaestrato. Bisognava diffondere le idee della Giovine Europa. Cacciato dalla Svizzera co' suoi amici si rifugia a Londra.
È il gennaio del 1837.
La tempesta del dubbio lo assale. Quella fede che l'aveva mantenuto dalla spedizione di Savoia in poi cominciò a essere scossa; l'anima sua fu prostrata in un senso di profonda disperazione.
Le anime una volta affezionate, si ritrassero da lui; alcuni lo sospettarono d'ambizione.
«Udite (scrive disperato alla madre di Ruffini), mia seconda madre, mia prima amica, madre mia d'amore: udite ciò ch'io vi dico, giurando per ciò che abbiamo tutti e due di più sacro, la memoria di un morto: io amo i figli vostri come io li amava quando vi eravamo vicini: li amerò finchè io viva riamato o no, perchè non è in me cessare di amarli; ogniqualvolta ho temuto mutato per me il loro core, ho pianto, letteralmente pianto e non piango per altre cause, ho pianto anche davanti a loro!..»
Allora, si sentì solo nel mondo, solo fuorchè colla sua povera madre lontana e infelice per lui… Allora in quel deserto s'affacciò il dubbio. Forse egli errava e il mondo aveva ragione: forse l'idea che egli seguiva era sogno… Si vedeva come un condannato conscio di colpa e incapace di espiazione. Rivedeva in fantasma i fucilati di Alessandria, di Genova, di Chambéry; aveva egli diritto di decidere sull'avvenire e trascinare centinaia, migliaia di uomini, al sacrifizio di sè e d'ogni cosa più cara?
Dal dubbio tornò repentinamente alla fede.
Noi siamo, riflettè, un pensiero religioso incarnato: abbiamo una missione: che importa se riesca o no? La vita umana non è felicità, è dovere. Dovere di avvicinarsi a Dio coll'opera, incarnare la sua parola, tradurne in atti il pensiero. L'anima è immortale: la morte è trasformazione. Una cagione esterna materiale non può cancellare la vita, scintilla escita dal seno dell'Eterno.
Lo strumento dell'opera s'infrange, ma l'operaio è altrove chiamato ad altra missione!
E, solo, calca per profondo convincimento una via sparsa di triboli, di disinganni, di defezioni, coll'anima aperta all'amore e sempre solo. Non Titano nè Amleto, ma credente!
A Rosales scriveva: «Io non fo riflessioni; a che servirebbero? A mutarmi, a convertire in ira l'amore e sviarmi? Posso disprezzare gl'Italiani ad uno ad uno senza che ciò scemi di un grado ciò che ho nell'anima per l'Italia!»
Tommaso Carlyle lo chiamò utopista; Carlyle derideva le rivoluzioni all'acqua di rose, le pazzie della gioventù che sognava vincere l'Austria coi pugni e le torture di Mazzini nel non poterle infondere la sua fede nel resultato finale.
Mazzini stimava ed amava Carlyle per la sua sincerità, per la sua tendenza verso l'ideale, pel concetto della vita derivato non dalla felicità, ma dal dovere, per l'adorazione del dolore e del sacrificio, per le sue tendenze umanitarie, per l'arte grande con cui rivestiva il suo pensiero; ma da lui dissentiva, perchè l'autore degli Eroi non riconosceva la vita collettiva dell'umanità nel mondo, non vedeva se non Dio e l'individuo, e Dio era per lui rifugio a' dolori senza speranza, piuttostochè sorgente di diritti e di forza.
Se Mazzini, triumviro della Repubblica Romana, avesse vinto, Carlyle lo avrebbe posto tra i suoi Eroi: non lo pose, ma nel 1844 levò la sua autorevole voce in suo favore per protestare contro il turpe fatto commesso dal governo Inglese di dissuggellare le lettere.
«Ho avuto l'onore (disse) di conoscere il signor Mazzini per più anni, e checchè io possa pensare del suo senso pratico e dell'abilità sua negli affari del mondo, posso testimoniare in coscienza a tutti gli uomini che è uomo di senno e di virtù, di veracità genuina, di umanità, di nobiltà di mente, di quegli uomini rari, anzi, unici, in terra, che siano degni di essere chiamati anime martiri, uno di quegli uomini che in silenzio e nella vita d'ogni giorno sanno e praticano quello che s'intende per martirio.» Pochi uomini hanno avuto da Carlyle tale testimonianza.
Ora che si comincia meglio a conoscere l'animo del Mazzini, per le lettere alla madre di Ruffini, al Ruffini, al Melegari, al Mayer, al Rosales, si vede qual martirio fosse il suo.
Non parlo delle miserie con cui visse in Londra nutrendosi di poche patate, tormentato dagli usurai, vendendo i suoi abiti, vivendo in una misera stanza e stendendo a mala pena sul lettuccio le edizioni dantesche, torturandosi per non poter finire la Vita di Foscolo promessa a Giulio Foscolo e alla Magiotti; eran prove che varcava sorridendo: ma ben altro martirio ei provò, quel martirio a cui pochi son preparati. Il martirio del corpo è nulla di fronte a quello dell'anima, la delusione! Le amicizie che credeva avrebbero durato eterne, svanirono come i sogni del mattino… il suo pensiero, l'opera sua eran fraintesi…
«Se talora (scrive al Mayer), le mie parole hanno amarezza, pensate che ho l'anima ben più amara, che sono povero, che non ho un amico che non mi abbia tradito e che amo come pochi amano i miei fratelli e non li stimo; credo più fortemente che voi non credete nell'Evangelio, nella via che ho scelto, e vedo i migliori, quelli ne' quali io fidava pel trionfo dell'idea scostarsene sempre più.»
E quest'uomo calunniato, perseguitato, dipinto come una specie d'Omar italiano, sanguinario, senza cuore, nemico d'ogni istruzione, che affilava nell'ombre pugnali omicidi, fanatico della forza brutale, a Londra insegnava a leggere e a scrivere la storia patria a molti italiani che disonoravano l'Italia con l'ignoranza, l'accattonaggio, le coltellate. Osteggiato dai preti della Cappella Sarda, lottava aiutato da Filippo e Scipione Pistrucci, da Luigi Bucalossi, poveri ed esuli anch'essi. In mezzo a que' fanciulli che dall'Italia andavano nella capitale britanna a suonare l'organino e a vendere i gessi, egli risentiva la patria co' suoi dolori, le sue miserie, la sua abiezione. Nominava ad essi l'Italia di cui non conoscevano il nome.
Ed era povero ed esule! Fra i tanti bisogni d'Italia, aveva compreso quello d'istruire gl'Italiani fuori della patria. E la patria, allora, non c'era! Oggi gli Italiani redenti dimenticano i loro fratelli sparsi per tutto il mondo, spinti dalla miseria lungi dalla patria, e che offrono miserando spettacolo di loro. La Dante Alighieri, testè istituita, fa bene sperare di sè; ma intanto non arriva che a raccogliere, a stento, poche migliaia di lire!
Ed ora vediamo un altro lato del Mazzini.
C'è stata per un tempo una specie di leggenda che ce lo rappresenta come un uomo che non abbia mai conosciuto l'amore; la leggenda è sfatata.
Fu detto pure che il suo primo amore sia stato per donna Eleonora Curlo madre de' Ruffini; ma è un amore filiale, passionato sì, come passionato è sempre Mazzini ne' suoi sentimenti; è un amor filiale che ha qualche cosa di mistico e che va sempre più esaltandosi. Il Mazzini
Nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio
aveva negato Dio, e la signora Eleonora lo aveva ritratto dalla negazione di Dio alla fede. Poi Iacopo Ruffini si uccide, primo martire delle idee del Mazzini, e la madre e l'amico piangono insieme quel povero morto.
Udite, Signore e Signori, l'amor del Mazzini per donna Eleonora: «V'amo (esclama) come una madre, come un'amica, come una santa; v'amo nel passato come l'ente che educò l'anima mia ancora incerta al culto del bello, del buono, della virtù, del dolore, del sacrifizio; v'amo nel presente come la madre di un martire, del primo fra i miei amici, come la creatura più infelice e più meritevole di felicità ch'io mi conosca nel mondo; v'amo nel futuro ed oltre la stessa vita come un angelo che pregherà Dio per me, che si interporrà sempre fra me e la disperazione.»
La passione amorosa, Signore, non ha di queste espressioni!
Un'altra donna il Mazzini amò di vero amore: amore umano, esaltato, fremente di tutte le agitazioni della passione: fu una proscritta che ho già ricordata, Giuditta Sidoli, e che aveva raggiunto nel 1831 gli esuli a Marsiglia.
Si amano con esaltazione; ma ambedue amano la loro idea! E la Sidoli prende il falso nome di Paolina Girard, un'avventuriera, e si fa emissaria della Giovine Italia.
Le amicizie, l'amore, sua madre stessa, tutto, il Mazzini impiegava pel trionfo della causa d'Italia.
La falsa Paolina Girard è spiata, le sue lettere d'amore e quelle del Mazzini, vengono lette dal cinico auditore Bologna, Presidente del Buon Governo a Firenze, col suo sorriso freddo e sarcastico di poliziotto. «I tuoi capelli (scriveva il Mazzini) mi sono stati come il talismano; sei un angelo, sei sublime per me.» E le parlava, dopo altri sfoghi tenerissimi d'affetto, de' suoi compagni d'esilio. «Amami (chiudeva) con tutte le tue forze, dimmelo come nella tua ultima lettera…»
Ma è un amore infelice! «Piango, gli risponde la povera donna, piango tanto! Ho bisogno di vederti solo per un minuto per lasciar cadere le mie lagrime su di te e dirti che sono stanca di vivere!»
Arrestata, cacciata di Toscana, relegata a Napoli, fuggita di là e rifugiatasi a Lucca, cacciata pure di là, tornata a Firenze, mendicante il ritorno nelle braccia dei suoi figli a Parma, osteggiata dal Duca e dalla famiglia che non le perdonarono mai d'essere stata l'amica e l'emissaria di Mazzini, questa eroina sconosciuta, trasformò l'amore ardente della giovinezza in un'affettuosa amicizia. Assistendo, come fece negli ultimi giorni della vita Gustavo Modena, uno de' primi amici del Mazzini, le parve rivivere coll'uomo amato, ritrovò i ricordi di quei tempestosi ma pur cari giorni d'amore.