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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II», sayfa 3

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IV

Numeriamone alcune: per esempio l'ironia e l'umorismo: quale grande ironista il Manzoni, quale umorista incomparabile!

Carlo Cattaneo lasciò scritto che forse nessuno scrittore aveva mai saputo fondere in un amplesso la musa della satira e la musa della pietà. L'irenismo e l'umorismo del Manzoni sorvola su quello di tanti altri scrittori, perchè, dato il suo sorriso e talvolta anche dato il suo sogghigno, che potrebbe parere crudele, noi sempre vi sentiamo palpitare una profonda pietà umana, che investe l'animo dell'artista e che lo fa pietoso di quei dolori, di quei difetti e di quelle miserie che egli ha fatto segno alla sua ironia e alla sua satira.

L'ironia manzoniana consiste quasi sempre nel fare intravedere, senza formalmente indicarlo, il contrasto che è tra l'apparenza e la sostanza delle cose, tra i nomi e i fatti. Prendete un esempio: alle prime pagine del romanzo il povero Don Abbondio, incontra i due bravi che gli fanno quella tale minaccia. Chi sono questi bravi? I bravi erano dei malviventi, o sfaccendati o di proposito birboni, che si mettevano allo stipendio di qualche signorotto, vendevano la loro pelle e si facevano ministri delle loro prepotenze e dei loro soprusi. Ma come mai in una società civile e governata da leggi potevano esistere dei bravi? Oh la società civile aveva provveduto perchè bravi non ci fossero!.. E qui il Manzoni comincia una narrazione la quale, all'apparenza, somiglia un brano arido di memoria erudita. Sì: le società, il governo provvedevano, avevano anzi provvisto da un pezzo. Difatti fino dal 1582 (vedete bene che le cose vanno indietro e che il male dura da molto tempo) l'illustrissimo ed eccellentissimo signor Duca Don Carlo d'Aragona, Principe di Castel Vetrano, Duca di Terranuova, ecc., vieta (qui l'autore legge la grida) nel modo più assoluto il mestiere di bravo, stigmatizzandolo e minacciandolo delle più grandi pene affinchè la mala pianta sia subito estirpata. Ma, prosegue sempre in vena di umile cronista il Manzoni, pare che questa grida non producesse tutti gli effetti desiderabili, perchè appena sei mesi dopo ecco che vien fuori un'altra grida… pene anche più gravi con nomi anche più rimbombanti, con minacce. Ah, questa volta poi i bravi saranno stati estirpati… Ma nossignori!.. Passano uno dopo l'altro governatori intestandosi sempre con quella filza di nomi gentilizi, ripetono sempre le medesime minaccie ognuna delle quali pare che debba indubitatamente estirpare la genìa dei bravi… ma poi, conclude il Manzoni, pare che dei bravi ce ne fossero ancora, perchè Don Abbondio viene fermato da due di questi.

L'ironia del Manzoni è fatta appunto di questa bonomia, la quale penetra a fondo e ricerca le più intime facoltà dell'essere nostro per modo che non solo la ragione ma anche il sentimento si mette dalla parte dell'ironista; e questo ironista ci sentiamo obbligati ad amarlo. Anzi vi dirò di più; quest'ironia continua, onde il Manzoni persegue tutte le fasi del suo racconto, produce un curioso effetto nella immaginazione di noi lettori, ed è che il vero protagonista del romanzo non è Renzo, non la buona Lucia, non fra Cristoforo, non l'Innominato, non il Conte Zio, non Federigo. Il vero protagonista dei Promessi Sposi è lo stesso Manzoni, il quale è sempre lì colla sua faccia bonaria e arguta ad effondere la sua ironia e il suo umorismo, a dare a tutti gli avvenimenti che si succedono una specie di suggello personale, nel quale e per il quale i caratteri e gli avvenimenti del romanzo assumono davanti alla nostra fantasia un significato così vivo, così parlante, così palpitante. E questo, diciamolo di passaggio, prova una volta di più (se mai ce ne fosse bisogno) quanto siano sciocchi coloro i quali avrebbero voluto elevare a regola fissa, anzi a dogma indeclinabile la consuetudine che l'autore debba sempre nascondersi dietro il proprio racconto, e guai se un momento si arrischia a far capolino! Dobbiamo lasciare a tutti più ampia libertà. Proscrivere l'intervento diretto dell'anima dell'autore stesso nel racconto, la significazione del suo pensiero, l'effusione del suo sentimento, sarebbe un diminuire il gran campo dell'arte, un rompere, uno spezzare una delle corde che vibrano più simpaticamente nelle narrazioni delle gioie e dei dolori della famiglia umana. Un'altra grande qualità manifesta il Manzoni nel suo racconto, ed è la sobrietà. Egli sorse e scrisse in un periodo che fu detto il periodo dello sforzo e della tempesta. C'è qualche cosa di agitato e di violento, che si rispecchia nello stile degli scrittori. Gli scrittori passano volentieri il segno, esorbitano facilmente, qualunque sia il tema che essi trattano. Il Manzoni invece si accampa sereno in mezzo a tutti questi agitati: e tra l'enfasi del Foscolo nell'Ortis, e le declamazioni dello Chateaubriand nei Martiri, spiega una meravigliosa sobrietà.

Io paragonerei il suo romanzo ad un gran quadro di pastello, dove il colore è molto sobriamente distribuito, ma questa sobrietà fa poi sì che quando arriva il momento delle pennellate ardimentose, queste hanno un rilievo ed una potenza formidabili. 11 padre pio e glorioso della prosa moderna era stato Gian Giacomo Rousseau a cui tutti avevano attinto; e lo stesso Manzoni non di rado ci fa ricordare che anch'egli ha letto il Rousseau. Ma quanto egli, anche in questo, si differenzia dagli altri! Con Gian Giacomo Rousseau tutti hanno esagerato, per esempio, l'intervento della natura nei racconti; e la esagerazione dura ancora; anzi in alcuni romanzieri modernissimi l'esagerazione è arrivata ad un punto, che ormai non si può più tollerare. Sono capaci di fermarvi a mezzo di un tragico avvenimento, per descrivervi il vento che brontola per di fuori, la luna che splende sul lago, o per descrivervi minutamente i giuochi di riflesso e d'ombra che fa un raggio di sole entrando fra i drappi di una portiera. Alessandro Manzoni ebbe certamente un concetto più sobrio e più vero dell'intervento della natura nei racconti umani. Egli pensò, e giustamente, che l'azione della natura sopra di noi è immanente; noi la sentiamo sempre questa natura che ne circonda, i suoi fenomeni e le sue leggi; ma una cosa è sentirla, altra è avvertirla. Il contadino, per esempio, che vive sempre in mezzo ai campi, avrà nell'anima il caldo e lo splendore del suo sole, sente nelle vene vibrare l'aria salubre del colle e del piano, ma non date mai al contadino meditazioni e contemplazioni sentimentali della natura, perchè mostrereste di non conoscerlo. Più l'uomo è in diretto contatto della natura, più egli si ferma a quella immanente impressione sopra di lui, e meno dà luogo a considerazioni riflesse. Il Manzoni, nel descrivere, ubbidisce sempre a questa legge. Ma quando arrivano certi momenti nei quali c'è proprio bisogno di far avvertire la unità vivente e indissolubile dell'uomo col luogo dove è nato, dove si è svolta la sua mente e il cuore, dove ha palpitato il primo palpito d'amore, dove ha avuto i primi terrori e le prime speranze, allora ecco che interviene la descrizione manzoniana; ed è così viva, così esatta, così potente nella sua sobrietà, che voi subito avvertite che quella descrizione non è inutile perchè completa e corona il dramma vivente che si sta svolgendo. Ricordatevi la descrizione del cielo di Lombardia, la mattina seguente all'orrida notte che il povero Renzo ha passata alla campagna, tra il freddo e la paura, fuggendo da Milano.

V

E dite lo stesso di tutti gli altri sentimenti che governano i personaggi del racconto. Nei Promessi Sposi, per esempio, dove si passa a traverso a tante iniquità, dove la ragione e il cuore tante volte hanno motivo di ribellarsi, voi trovate che delle imprecazioni e dell'invettiva è fatto un uso moderatissimo. Appena un momento nel palazzotto di Don Rodrigo al termine del famoso dialogo fra lui e fra Cristoforo. Quando il ribaldo signorotto, non contento di avere meditato un'iniquità osa ancora alla presenza del frate di affermarla con una cinica alterigia, allora fra Cristoforo alza e inalza inveendo la mano che Rodrigo afferra di subito… Ma egli non la dimenticherà più mai; quella mano alzata egli la vedrà ancora, sogno della notte terribile in cui dormendo avrà i presentimenti della peste che già hanno invaso il suo miserabile corpo. Poi via. Il frate è tornato padrone di sè; e il racconto rientra nella sua pacata sobrietà, nel suo andamento tranquillo. Ma quanto risalto, quanta potenza viene appunto da questa tonalità abitualmente calma quando vengono quei rari momenti in cui l'autore assurge e si libra a qualche affermazione potente.

E così dite dell'enfasi. Voi l'enfasi non la trovate mai nei Promessi Sposi, e sì che di enfasi e di voli enfatici erano piene le carte ai tempi del Manzoni. Ho ricordato lo Chateaubriand e Ugo Foscolo, il quale era pure uno degli autori che il giovine Manzoni aveva letto e ammirato e che dominavano sul gusto dei lettori. Appena un momento, quando sono in presenza il Cardinale Federigo e l'Innominato l'enfasi si fa sentire. Il Cardinale parla a questo terribile uomo un linguaggio di ragione animato, ordinato, calmo. Ma quando si avvede di avere espugnato le ultime resistenze di quell'anima, quando vede la terribile testa dell'uomo del delitto chinarsi umiliata e vinta sopra le sue spalle, quando sente che le lacrime del peccatore pentito scorrono silenziose sulla castità della sua porpora, allora l'anima del sacerdote si effonde ed alza a Dio un'apostrofe, che potrebbe parere di una tonalità un po' inverosimile, ma non è. Voi sentite invece in quel momento l'uomo, anzi il prete, che ha l'anima piena della lettura dei libri sacri, del Vangelo, delle omelie; e parla a quel modo perchè sente a quel modo, nè potrebbe diversamente parlare. E così dite del patetico. Il patetico aveva tante occasioni di sprigionarlo e farlo trascorrere a grandi fiotti, attraverso la sua narrazione. Ma se l'avesse fatto, io penso, la narrazione non avrebbe avuto nemmeno un decimo dell'efficacia che ha sull'animo nostro. Disse bene Cicerone: «le lacrime presto inaridiscono». Guai allo scrittore che abusa delle lacrime! Nelle emozioni più vive e profonde c'è qualcosa di sacro; e un vero artista deve accostarsi ad esse con rispetto e con mano sobria. L'anima umana ama di nascondere quello che è in lei di più intimo e di più geloso. Anche nei Promessi Sposi arriva il momento in cui il patetico trascorre. I due poveri giovani non hanno potuto raggiungere il loro intento. Si lasciano persuadere dalla buona vecchia a sorprendere Don Abbondio, a maritarsi per forza o per frode. Ma il vecchio prete, sorpreso in canonica, reso audace dalla sua paura, butta il tappeto del tavolino addosso alla timida Lucia e le impedisce di dire le parole sacramentali. Per il matrimonio mancato cresce in loro la paura di Don Rodrigo. La difesa di fra Cristoforo non basta più. Lo stesso Cristoforo dice: «Via figliuoli, non c'è tempo da perdere… Andate.» E se ne vanno di notte, montano sopra una barca e si allontanano lungo il fiume per raggiungere la sponda opposta del lago. È una notte tranquilla, la luna illumina tutto il paese. I disgraziati profughi, seduti nel fondo della barca, hanno l'anima occupata di terrore e tristezza. Lucia guarda dalla barca, vede il palazzotto di Don Rodrigo che lassù a mezza costa pare un ribaldo che in mezzo a dei poveri addormentati vegli meditando un delitto. La fanciulla ritrae inorridito lo sguardo e come per consolarsi cerca giù giù nel paesello la sua casa, e arriva a scoprire la cima dell'albero del fico che le sovrasta, e a scoprire la finestra della sua cameretta verginale… Allora uno schianto di lacrime esce dal cuore di Lucia. Abbassa il volto sulla palma della mano, appoggia il gomito sulla sponda della barca e rimane silenziosa… Allora il poeta interviene: «Addio, monti sorgenti dall'acque…» Chi di voi non ricorda quel passo delizioso per averlo letto o nel romanzo o in qualche raccolta? Ma notate che il Manzoni par quasi voglia farsi perdonare questo suo momentaneo abbandono di sentimentalità, e subito ammonisce il lettore: Badate, questi non furono veramente i pensieri della buona Lucia e degli altri due; saranno stati di quel genere. E quasi con una nota ironica verso sè stesso, il poeta rimette la narrazione nel suo naturale andamento e nella sua intonazione normale. Confrontate questo addio poetico col pietoso racconto di Cecilia, la povera madre che porta le figlioline morte sul carro dei monatti. Avrete la medesima arte meravigliosamente efficace nella sua sobrietà.

VI

Come ha trattato il Manzoni nel suo romanzo la passione d'amore?

Qui ci sarebbe da fare un libro. Si può sapere, domandava stizzito Luigi Settembrini, di che colore fossero gli occhi di Lucia Mondella? Non li alza mai! Il Manzoni, difatti, non spende nemmeno una linea a descriverci fisicamente la bellezza di Lucia; anzi di questa stessa bellezza ci indurrebbe quasi ad essere dubitosi; perchè, quando arriva già sposa di Renzo in quel di Bergamo, anche perchè l'avevano troppo decantata, cominciano le comari e i giovanotti del paese a tagliare a forbici doppie su questa tanto decantata bellezza, dicendo «ch'era una contadina come tant'altre.» E non fu senza grande stizza di Renzo, il quale andò in un altro paesello, dove ebbe la compiacenza di sentir dire: «Avete veduto quella bella baggiana che c'è venuta?» Certo è che in questo tema dell'amore il Manzoni procede con una cautela tanto strana, che qualche volta c'irrita. Si direbbe che egli ne ha paura!

Vi è però una donna che esercita un certo fàscino sulla mente, sulla fantasia e, direi quasi, nei sensi, del Manzoni: ed è Gertrude, la Monaca di Monza. Quella «bellezza delicata e sfiorita», quegli occhi nerissimi che alle volto hanno lampi audaci, alle volte si raccolgono in una meditazione fredda o triste, quella fronte bianchissima, il cui candore gareggia con la bianchezza immacolata del velo, quella slanciata figura femminile, ma un poco curva e quasi raccolta in sè stessa, che ha movimenti scomposti sotto la sua tonaca monacale, questa donna, io vi ripeto, deve avere esercitato un certo fàscino sull'animo del Manzoni; e non ve lo dico a caso. Se anderete a Milano, e a Brera, nella sala tutta dedicata alla gloria e ai manoscritti del Manzoni, esaminate i manoscritti dei Promessi Sposi. A proposito della Monaca troverete delle cose interessantissime. Per esempio c'è un punto in cui il padre provinciale che accompagna Lucia, al solito sprofondandosi in inchini ripete sempre: – Madre, madre! – E la monaca lo interrompe: «Ma che madre!» Poi rimasta sola ripete a sè stessa: «Bella madre!» Quanto significato in quel grido prima, poi in quel breve monologo! E quella nerissima ciocca di capelli che scappa fuori del soggólo come un'attestazione d'indisciplina, come una protesta della vita, del senso, della volontà contro tutte le forze cospirate dell'albagìa, del sangue, dei pregiudizi sociali che hanno gettato quella disgraziata in un chiostro, come una protesta contro la crudeltà delle forbici della tonsura!.. Anche quella ciocca di capelli finisce col persuadervi quanto l'autore ha carezzata questa figura e come se ne sia pericolosamente invaghito.

Ma qui si ferma. Sopprime lunghi passi nel manoscritto, che risguardano la Monaca e poi comincia a trattare sul serio la grande questione, dicendo: «Insomma questo amore uno scrittore deve o non deve trattarlo?» E intanto, siccome egli era finissimo tormentatore di sè stesso, il Manzoni sente bisogno di dar forma ai propri giudizi, ai propri scrupoli, intavolando un dialogo fra sè e un supposto lettore; e questo dialogo è tutto ciò che si può immaginare di più curioso e importante. In conclusione il Manzoni dice: «Dato che le parole, dato che le idee e le immagini sono principio ed eccitamento di azioni, io non mi sento di promuovere nei miei libri questa misteriosa passione dell'amore. E sapete perchè? Perchè io sono convinto che l'amore sia buono in sè, ma che nel mondo ce ne siano almeno seicento volte di più di quanto abbisogna per la conservazione della nostra riverita specie.» Certo la differenza è grande, a questo proposito, tra il Manzoni e i romanzieri dei nostri giorni. Che contrasto con certi romanzi che probabilmente, o Signore, sono sul vostro tavolino e che leggete con tanta avidità! Io qui non critico, osservo. In quelli invece, abbiamo una preoccupazione, un'orientazione completamente opposta. Non solo l'amore non è temuto e evitato o lievemente trattato, ma diventa il grande, l'unico bisogno del romanziere. Nei romanzi che avete letto ieri o leggerete domani, voi fino dalle prime pagine vi accorgerete come le qualità dei personaggi e l'impostura di tutto il racconto siano coordinate ad un'unica e grande scena d'amore, che avverrà quanto prima: e questa scena voi la prevedete e la presentite andando di pagina in pagina; e voi l'aspettate, voi la volete… E quando questa scena si è compiuta sotto gli occhi della vostra fantasia, con maggiore o minore audacia secondo il temperamento dei diversi romanzieri, voi sentite improvvisamente che il volume vi si appesantisce fra le mani; voi sentite che il racconto ha già dato tutto ciò che poteva e voleva dare!.. La linea equatoriale è già stata valicata!.. Il libro seguita perchè il racconto vuole avere uno svolgimento e un fine, ma il lavoro è finito con questa grande scena erotica, che è il clou di tutto il libro.

VII

Adesso io toccherò molto brevemente degl'imitatori del Manzoni e del suo romanzo. Ve l'ho già detto, Signori, sui Promessi Sposi bisognerebbe fare un ciclo di conferenze, dove ognuno prendesse un personaggio, un episodio. Allora con coscienza tranquilla si potrebbe dire d'aver trattato questo tema per noi così caro, poichè si tratta del libro più glorioso che ha dato l'Italia al mondo in questo secolo; e ce ne sono pochi degni di potergli stare accanto. Quando avete preso Dante, l'Ariosto, il Tasso, e il Petrarca, metteteci subito vicino i Promessi Sposi e non osate mettervi altri libri perchè scapiterebbero.

E scapiterebbero sovrattutto i suoi imitatori. Perchè il Manzoni non ha avuto successori degni di lui, o Signore? La risposta ve la darebbe, se fosse qui, uno dei personaggi del Manzoni, quel Don Ferrante, il quale, perchè aveva nel cervello tutta la filosofia di Aristotile, credeva che con quella si spiegasse tutto. Ed egli spiegherebbe forse anche questo fatto; ma io, che non sono Don Ferrante non ve lo posso dire. Accennerò a un grande difetto della nostra schiatta italica, questo proprio bisogna convenirne; ed è la furia dell'imitazione. Appena uno fa una bella cosa, eccoci tutti dietro non ad ispirarci, non ad emularlo, ma a decalcare servilmente sopra le sue formule, a ripetere fino alla stucchevolezza, fino alla noia ciò che quello ha con un rapido accenno d'invenzione posto innanzi ai nostri sensi e ai nostri occhi.

Certo è, o Signore, che quando s'incontrarono Walter Scott e Manzoni, e Walter Scott complimentava l'autore italiano lombardo del suo lavoro, Manzoni modestamente disse: «I Promessi Sposi sono opera vostra» accennando allo studio che Manzoni aveva fatto del romanziere scozzese. E allora lo Scozzese con arguzia gentilissima rispose: «In questo caso i Promessi Sposi sono il mio miglior romanzo.» Non si poteva più cortesemente rispondere.

Ma Alessandro Manzoni non avrebbe certamente potuto dire una cosa simile nè al Grossi, nè al Cantù, nè al d'Azeglio, nè al Carcano e nemmeno a quell'Ippolito Nievo, in cui forse era riserbato all'Italia un grande romanziere, se giovine ancora non fosse scomparso nel Mediterraneo quando si sfasciò il vecchio bastimento dove egli salpava dalla Sicilia all'Italia. Passiamo dunque su questi imitatori; rendiamo loro il merito che hanno, ma convinciamoci che rispetto al gran modello essi sono pallide ombre. Dimentichiamo gl'imitatori e torniamo al maestro! Torniamo a questo grande, che tanta luce ha diffuso sulla prosa e sulla poesia italiana; torniamoci senza feticismi, anzi come disse opportunamente nel suo recente volume Arturo Graf, torniamoci rinfrancati e fortificati da quella stessa libera critica che per venti anni abbiamo fatto al lavoro immortale di Alessandro Manzoni, specialmente per opera di Giosuè Carducci. Torniamo come vi è tornato lo stesso Carducci, il quale da ragazzo lesse per cinque volte i Promessi Sposi, poi pareva che non volesse più leggerli; ma l'anno passato interrogato da un amico che cosa leggesse, disse: rileggo i Promessi Sposi; e quando con una concezione gagliarda volle ricongiungere la poesia e l'arte al suo principio morale e civile e stringere la mano del vecchio Parini, sentì che il gran Lombardo alzava la sua e aveva diritto, e voleva essere anche egli in quella stretta immortale. Tornate al Manzoni massimamente voi, giovani; tornateci, ripeto, senza feticismi, con libero ossequio, per attingere specialmente da lui il senso nobile, geniale, umano dell'arte, di quest'arte alla quale ora tutti si prosternano con inni paradossali come ad unica Deità della vita… Parole, parole, parole!..

Quando siamo al fatto, questa Augusta, Divina, quest'anima dell'anima umana, noi la vediamo ancora trascurata per le alcove, per i manicomi, per i postriboli, come se tale fosse un suo destino ineluttabile, e come se la sua tanto decantata libertà non fosse che la fatale selezione del male.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
120 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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