Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II», sayfa 7
I
Ingegno fortissimo e anima fiera, fantasia ignara di freni e volontà sdegnosa di ostacoli: ecco le qualità che sortì da natura il Guerrazzi. L'educazione rigida avuta in famiglia e l'istruzione pedantesca ingozzata in iscuola, le molteplici e multiformi letture fatte da lui giovanissimo e i casi della sua vita agitata fin dai prim'anni, finirono poi di foggiarlo quale egli ci appare, co' suoi pregi e co' suoi difetti, in tutta l'opera sua di scrittore e di cittadino. E i pregi furono in lui certamente più grandi dei grandi difetti, i quali il più delle volte non erano che una esagerazione delle sue stesse virtù. Così l'orgoglio fierissimo, che parve quasi la Musa inspiratrice d'ogni suo atto e d'ogni suo scritto, fu in lui consapevolezza eccessiva, ma spesso legittima e provocata, del proprio valore; e quella sua stessa ambizione, che parve a molti così smoderata, non fu che un eccesso di quel nobile amore di gloria che lo infiammava, di quel foscoliano furore di inclite geste che il padre suo ed il suo Plutarco gli avevano acceso nel cuore sin da fanciullo.
Natura eroica, come bene fu detta, era davvero codesta dell'aspro fanciullo, fatto sempre più aspro dai rimproveri e dalle percosse che, invece di carezze e di baci, gli dava sua madre. E in quell'eroica natura, in quell'ardente fantasia solitaria, in quell'anima tutta chiusa in sè stessa nè mai confortata d'alcuna dolcezza domestica, è facile immaginar quali semi dovesse gittare ogni giorno quel padre severo, quel padre taciturno, che parlava soltanto per citare a' figliuoli esempî di Plutarco e sentenze di Dante; è facile giudicar quali germi dovesse andare svolgendo in quell'indole un padre che gli brontolava all'orecchio, parlando di Tacito: «Costui scrisse storia col pugnale; valeva meglio piantarlo nel cuor dei tiranni!»
Questo l'ambiente familiare nel quale cresceva il fanciullo Guerrazzi, e in cui si veniva temprando il carattere che doveva poi stampar tutto l'uomo sì fortemente, da renderlo segno d'inestinguibile amore e di odio non anche domato.
Gl'istinti eroici della sua focosa natura, che lo traevano a tutto ciò che è solenne ed antico, e l'antiquata accademica disciplina a cui fu sottoposto da' suoi maestri di lettere, ci spiegano in parte il suo stile, cioè il carattere dello scrittore.
Il primo di tali maestri, e quello di cui egli serbò più grata memoria, fu il Padre Spotorno, barnabita, rappresentatoci dal Guerrazzi come un Robespierre letterario del 500, che ad ogni ombra di modernità arricciava il pelo come istrice, e che gl'insegnava la lingua «come s'ingrassano i luci: uno imbuto in gola, e poi giù una ramaiolata di Bembo, di Casa, di Baldassar Castiglione, e via discorrendo». E di siffatti metodi d'insegnamento restarono sempre le tracce evidenti nella forma letteraria che piacque al Guerrazzi e che ebbe sì lungo codazzo di imitatori: forma che ha la copiosa ricchezza di lingua e il periodo latineggiante dei cinquecentisti, e qualche volta, come nella Serpicina, l'arcaica semplicità dei trecentisti migliori, ma che di latineggiante e di arcaico sa sempre troppo: forma che si compiace di uno stile magnifico, in cui l'ideale eroico del poeta si drappeggia come in un paludamento o in una clamide; forma artificiosa di un artificio che in lui diventò una seconda natura, sì che perciò, italianissima sempre, potè essere spesso eloquente davvero e mirabile d'impeto e di vigore; ma che, insomma, artificiosa fu molto, ed a noi apparisce oramai come una specie di anacronismo.
Chè se si obiettasse come gli stessi metodi pedanteschi e accademici, comuni allora dal più al meno a tutte le scuole italiane, non abbian prodotto in altri scrittori moderni, anche anteriori al Guerrazzi, gli effetti e i difetti che produssero in lui, sarebbe ovvio rispondere che le medesime cause operano diversamente su anime e ingegni diversi. E il Guerrazzi, con quella sua anima antica e con quell'ingegno grandissimo ma squilibrato, non che assimilarsi quel primo nutrimento di classiche forme, ne ebbe per tutta la vita una specie di pletora, e byroneggiò cruscheggiando.
Ed ecco un altro lineamento caratteristico e definitivo della sua fisonomia di scrittore, la quale, se posso sciupare un verso di Dante,
Da Byron prese l'ultimo sigillo.
e ne rimase improntata per sempre.
Una mente ardita com'era quella, non poteva, per quanto classicheggiante, restare insensibile e chiusa alle novità dei romantici, che tanto contributo di forme più immaginose e di più libere idee andavan portando nella moderna letteratura europea. Non per nulla il discepolo dei Barnabiti aveva letto, anzi divorato, Ossian insieme ad Omero, la Radcliffe insieme all'Ariosto, e ne aveva avuta una specie di febbre al cervello. Calmato il fermento di quella febbre, il futuro autore della Battaglia di Benevento dovette sentire con senso più chiaro quel vivido soffio rinnovatore che il Goethe e lo Schiller, lo Shelley ed il Byron, lo Chateaubriand e la Staël avevano spirato anche di qua dalle Alpi, e che di qua dalle Alpi andava ingrossando in un vento di rivoluzione. E il Guerrazzi conobbe le letterature straniere, e ne derivò nuovi elementi di humour alla sua natural vena sarcastica, che doveva essere una delle sue forze maggiori così nella vita come nell'arte, e che fece di lui il più tagliente motteggiatore d'Italia. Ma quella che investì il giovinetto con soffio più largo e possente, e non tutto benefico, fu, senza dubbio, la poesia di Lord Byron.
A Pisa, dove il Livornese era andato a studiare Giurisprudenza, vide il poeta famoso, ne lesse i poemi, e ne ebbe come la vertigine dell'abisso. Egli stesso più tardi, con calde e iperboliche immagini, ci narrò nelle sue Memorie lo sbigottimento che gli cagionò la rivelazione di quella poesia e di «quell'anima immensa», e confessò, se ce ne fosse stato bisogno, che per molti anni non vide più e non sentì più che a traverso a quella poesia e a quell'anima. – Frutto immediato di tanta impressione furono certe sue ottave A Giorgio Byron, pubblicate una sola volta a Livorno, e dimenticate poi dall'autore. Ma l'influenza byroniana rimase pur troppo in quasi tutta l'opera sua narrativa, e La battaglia di Benevento non fu, si può dire, che lo scoppio improvviso di quel byronismo satanico, che ormai gli era entrato nel sangue come un veleno. E il Guerrazzi, che già vi era disposto naturalmente, assorbì quel veleno in maniera da averne colorati i fantasmi, i caratteri, le passioni sue e de' suoi personaggi in quel primo romanzo, alterata l'originale spontaneità dell'ingegno privilegiato, e falsata in gran parte la forma di quella sua prosa poetica, di quel suo lirismo convulso, di cui con ragione fu detto, che ha del byroniano e del biblico.
E biblica è anche davvero, specialmente nei romanzi maggiori e più celebrati, l'intonazione dello stile guerrazziano lussureggiante di immagini, perchè spesso il poeta (ed ecco la vera sua gloria!) tutto inteso a risuscitare la vita sopra una terra di morti, si erige profeta di libertà; e allora egli sembra Mosè precinto di tuoni e di lampi sul Sinai, allora egli sembra Ezechiello che gridi: Sorgete, ossa aride, su dal sepolcro! Perchè noi, o Signori, abbiamo troppo dimenticato che l'arte non fu pel Guerrazzi un'estetica dilettazione da offrire agl'ignavi d'Italia, ma squillo di guerra contro chi dava all'Italia catene e patiboli. Sbagliò, e ho già detto che sbagliò molto, nei mezzi formali che credè meglio acconci a raggiunger quel fine; ma il fine fu altissimo sempre, e degno di lode immortale. E nel fine politico ch'ei si propose, e che non si stancò mai di ricordare in ogni suo libro, di confermare in tante sue lettere, è un'altra grande ragione de' suoi difetti ed eccessi di artista, moltissimi dei quali furono appunto gli eccessi e i difetti d'un uomo, che scriveva dei libri perchè non poteva combattere delle battaglie.
II
Scrisse il Guerrazzi a Niccolò Puccini che natura gli aveva posto in corpo «l'argento vivo dell'uomo d'azione». Il padre spartano, senza forse saper bene in che fuoco soffiava, gli aveva sempre sentenziato esser meglio «vivere un giorno come un leone, che cento anni come una pecora». E il giovine Francesco Domenico, che era nato leone davvero, con tutte le rudi energie del popolo livornese da cui traeva l'origine, si vide tracciata per tempo la via che doveva percorrere. E in quella via si cacciò subito fin da ragazzo, fuggendo da casa per un diverbio avuto col padre, facendo il traduttore e il revisore di stampe per vivere, e assoggettandosi a ogni sorta di privazioni, piuttosto che cedere per il primo. Così il lioncello si agguerriva alla lotta con una forza di volontà che fu spesso ostinazione superba, con una tenace perseveranza che doveva esercitarsi ben presto in più nobile campo.
Studente a Pisa, di 15 anni, fu subito preso di mira dalla polizia granducale, che lo segnò nel suo libro nero e lo perseguitò con ammonizioni e perquisizioni e tribolazioni d'ogni maniera. Bandito dall'Università per le sue idee troppo liberali, ci potè tornar dopo un anno, ma sempre osteggiato dai professori e sorvegliato dai birri. Queste persecuzioni gli inacerbivano sempre più il carattere e gli accrescevano quel disgusto degli uomini al quale inclinava, e che il Werther e l'Ortis, il Manfredo e il Caino avevan diffuso come un contagio spirituale su l'anime giovani. Ciò non ostante, a dispetto di tutto, si potè laureare in utroque, e tornare alla sua Livorno a esercitarvi l'avvocatura, Dio sa con quanto suo gusto! Con quell'ingegno e con quell'anima, sentiva che la toga dell'avvocato gli si adattava «come la catena alla gamba del galeotto»; e le sue bellissime lettere son piene di questo lamento:
«La mia anima si è versata come un'onda d'inchiostro (scriveva nel '47), e poteva prorompere come un raggio di sole! Io sarò stato in questa vita dottore e mercante per bisogno, scrittore per rabbia!»
«Vedete che supplizio! (geme in un'altra lettera). Io mi curvo sotto la cappa curiale più penosamente che il collegio degl'ipocriti sotto le cappe di Dante. Ma la vita erami data come un morso da rodere. Io morirò avvocato, io nato forse poeta».
E quel morso lo dovè rodere a lungo; e, fra l'esercizio professionale e le vicende politiche ond'egli fu parte, si può dire che, fin dopo il '60, i più lunghi ozi che egli potè consacrare all'arte geniale furono forse gli anni (e disgraziatamente non furono pochi) da lui passati in esilio o in prigione. Ora, se si pensa che quest'uomo d'azione e quest'uomo d'affari potè scrivere tanti libri di immaginazione e di riflessione quanti ne scrisse, e che quei libri furon capaci di produrre quei potentissimi effetti che produssero sopra gli uomini per i quali furono scritti; è ben forza riconoscere che quell'uomo non usurpò il nome di grande che i suoi contemporanei gli diedero, e che sarebbe ingiustizia e insipienza voler giudicare soltanto coi freddi criteri dell'arte quei libri vulcanici.
Intanto, se il Guerrazzi si sentiva addosso l'argento vivo, la polizia toscana non se ne stava con le mani alla cintola; e dopo avergli dato il precetto della sera come si dà ai malfattori, dopo avergli soppresso nel '29 L'Indicatore livornese che egli aveva fondato da pochi mesi insieme con Giuseppe Mazzini e con Carlo Bini, dopo averlo confinato a Montepulciano pei liberi sensi da lui espressi nell'Elogio di Cosimo Del Fante, dopo averlo imprigionato pei fatti del '31 senza accusa determinata e poi rilasciato senza processo; nel 1834 lo arresta di nuovo come cospiratore e lo chiude nel forte di Stella a Portoferraio. Ivi nacque L'assedio di Firenze, col quale l'autore, inspirandosi ancora alla storia italiana, creava, anche più arditamente che con La battaglia di Benevento, una nuova forma di romanzo storico.
Nulla infatti hanno di comune i romanzi del Nostro con quelli di Walter Scott o del Cooper, dai quali diversificano formalmente e sostanzialmente, e coi quali non potrebbero venire paragonati che per la ragion dei contrari. E poi disse bene il Chiarini, che chi proprio voglia trovare ai romanzi del Guerrazzi una derivazione o una parentela, non la deve cercare fra i romanzieri che lo precederono, ma fra i poeti; deve cercarla nei poemi e nei drammi dello Schiller e del Niccolini, oltre che in quelli del lord inglese. E di poeta fu sempre nel Livornese non solamente la forma della sua prosa, ma ancora e più il modo tutto suo soggettivo e passionatissimo di sentir la natura, di intender la storia, di concepire la vita, e di riprodurle nell'opera d'arte. Così avesse avuta il Guerrazzi almeno una piccola parte di quella oggettiva serenità, di quella equabilità quasi olimpica che permise allo Scott e al Manzoni di guardare la storia e la vita con occhio limpido e acuto, e di eternarle nell'arte con mano ferma e sicura! Egli invece vide tutte le cose con occhio di febbricitante, quando non le vide con occhio di bove che gliene esagerava le proporzioni; vide il mondo soltanto a traverso l'anima sua sempre buia, e stampò di sè, sempre di sè, soltanto di sè, la storia e la vita. Nè gli venne fatto così, credo io, per imitare anche in questo il suo Byron, ma proprio perchè era nato così, e perchè, volendo che i suoi romanzi fossero piuttosto azioni che libri, credeva di poter conseguir meglio il suo scopo immediato col dare a tutte le età da lui evocate, a tutti i personaggi da lui creati, i suoi spiriti feroci e le sue passioni fortissime: simile in ciò, più di qualunque altro scrittore italiano, a Vittorio Alfieri, del quale aveva ereditata tutta la maschia energia dell'ingegno e dell'animo.
Oltre che in questi caratteri soggettivi, la singolarità del romanzo guerrazziano consiste anche nel modo e nella misura con cui vi si mesce la storia alla favola, il verosimile al vero. Ciò è già evidente nella Battaglia di Benevento, dove la storia costituisce la parte essenziale del quadro, e storiche ne sono quasi tutte le figure principalissime, se si eccettua il protagonista Rogiero. Ora è certo che questo non fu il sistema seguito nei suoi molti romanzi dal grande Scozzese, nè dal grandissimo Lombardo nell'unico suo, perchè ivi la storia non fa che da sfondo o da scena, e ideali ne sono gli attori principali e i principali casi del dramma che vi si svolge. È ben vero però, che il sistema onde fu composta La battaglia di Benevento era ancora un po' incerto ed ambiguo, come quello che non permette al lettore di scernere chiaramente il vero dal verosimile; e perciò porgeva il fianco più agevolmente alle accuse non sempre giuste che furono mosse al romanzo storico, condannato in teoria dallo stesso Manzoni che, nella pratica, aveva creato il capolavoro del genere.
Il Guerrazzi sentì certo gl'inconvenienti che derivavano da quella specie di mezza misura che aveva prima adottata, e nel secondo romanzo fece addirittura del fatto storico il vero e solo soggetto del quadro suo grandioso, senza aggiungervi del proprio che poche figure accessorie e qualche episodio.
Ma queste novità non ci spiegherebbero punto l'impressione straordinaria che l'Arte del Guerrazzi produsse su gl'Italiani fino dalla comparsa del suo primo romanzo, se l'Autore, poco più che ventenne, non vi avesse rivelata subito e davvero una forza d'ingegno meravigliosa. I più severi, pur deplorandone i deplorevoli eccessi, dovettero ammirar quella forza, e G. B. Niccolini ringraziò Dio che voleva consolare di tanto intelletto la povera Italia. E ancora, con tutti i suoi difetti enormissimi, La battaglia di Benevento rimane uno dei migliori scritti narrativi del Nostro per gagliardia di composizione e pel rilievo di alcuni caratteri. E se i suoi pregi non bastassero a darci ragione del fàscino che esercitò su i contemporanei, ce la darebbero i suoi difetti, che, impressi di quella singolar tempera guerrazziana, parvero pregi e virtù. Pregi e virtù sopra tutto (come per un momento suole accadere d'ogni apparenza di novità e di ogni ingegnosa stranezza) sembrarono le intemperanze di quella prosa poetica, le enfasi di quelle liriche divagazioni, che rispondevano così bene ai gusti romantici dei primi decenni del secolo, cullandoli in una colorita larghezza di ritmi che nessun'onda di poesia aveva mai superati. Il nostro pubblico imparò a memoria quei larghi periodi come un tempo le ottave del Tasso, e F. D. Guerrazzi fu salutato il poeta della prosa italiana.
III
«Popolo italiano, già signore, oggi locandiere di tutte le genti del mondo!» fremeva nella Battaglia di Benevento il Guerrazzi. E in questo fremito, fiero di shakspeariano disprezzo, è il primo segreto della tetraggine irosa dello scrittore, la causa prima della disperazione che irrompe come una fiamma sinistra da tutto il romanzo.
Passato quel periodo acuto di parossismo byroniano, la coscienza del cittadino si era andata formando più chiaramente nello scrittore, e lo scrittore allora volle drizzar quella fiamma a scaldare ed accendere il cuor della patria. Per eccitar la sensibilità dell'Italia caduta in letargo, egli la feriva, «e nelle ferite infondeva zolfo e pece infuocati». Sono sue parole anche queste, e queste parole ci dicon gl'intenti coi quali fu concepito il suo capolavoro.
Disgraziatamente, il periodo di tempo nel quale egli scrisse L'assedio di Firenze fu uno dei più dolorosi di tutta la sua vita. Nel giro di pochi mesi gli perirono le persone più care: gli morì, fulminata nel cuore, l'unica donna che amò, e quando lo seppe, ne incanutì in una notte; gli mancò il padre suo, che, rigido ma affettuoso e consapevole dell'ingegno del figliuolo, lo aveva educato a sensi magnanimi; perdè in Carlo Bini l'amico più buono e geniale della sua giovinezza, e in Tommaso Bargellini il suo più tenero compagno d'infanzia; e finalmente perdè, quasi assassinato, il fratello Giovanni, che gli lasciò su le braccia, per solo retaggio, due orfani.
Con tanto cumulo di dolori caduti l'uno di seguito all'altro su l'anima sua esulcerata dalla nuova prigionia, non deve dunque far meraviglia se pur nel suo capolavoro abbondino le tinte fosche anche più di quel che il soggetto tragico le richiedesse, nè deve parer troppo strano che un libro siffatto cominci con un lamento.
Anche il lamento, per altro, non è, e non poteva essere in un tal uomo, querimonia e rassegnazione, ma sfida e minaccia. E il Guerrazzi che, custodito nella sua segreta, impreca ai tiranni della terra, somiglia un po' (e non senza un tantino di posa) a Prometeo, che, inchiodato alla rupe, impreca al tiranno del cielo. Più nobile e più eloquente, in ogni modo, quando, poche pagine dopo, restando dal maledir gli oppressori, si volge a eccitare gli oppressi: «Finchè, sollevandosi al cielo, le vostre braccia sentiranno il peso dei ferri nemici, non supplicate; Iddio sta coi forti! La vostra misura di abiezione è già colma; scendere più oltre non potete; la vita consiste nel moto; dunque sorgerete! Ma intanto abbiate l'ira nel cuore, la minaccia sui labbri, nella destra la morte. Tutti i vostri Iddii sprezzate; non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie. Voi sorgerete.»
E seguita ancora, sempre più terribile e sempre profetico, perchè qui veramente nel Titano risorge il Profeta, e la sua prosa assurge a una vera altezza lirica e biblica, che non è più byronismo, che non è più maniera, che non è più rettorica… E se oggi par tale, benedetta quella rettorica! Il suo fremito, allora, faceva fremere tutti, tutti scoteva quell'impeto e inebriava quell'odio; e le pagine del poema, copiate con lunghe fatiche e passate di mano in mano furtivamente, correvano intanto, rapide come un incendio, l'intera penisola.
L'autore dell'Assedio di Firenze non è un romanziere o uno storico, non è neppure soltanto un poeta o un profeta, ma un combattitore e un vendicatore: vendicatore di tre secoli di servitù, di tre secoli d'ignominia, quanti ne erano corsi dalla caduta della repubblica fiorentina, sopraffatta dall'armi e dai tradimenti di Carlo V e di Clemente VII; che è quanto dire dalla caduta dell'ultima libertà italiana affogata nel sangue, dall'ultimo moto del cuore d'Italia, che per trecento anni doveva cessare di battere.
E il Guerrazzi fu pari, per ingegno e per animo, all'alto argomento, in mezzo al quale ci trasporta con passione di attore e di contemporaneo, più che con calma di storico. E noi vediamo tutto un popolo eroico muoversi e agitarsi nelle sue pagine, dove (lo notò primo il Mazzini) Firenze sola è protagonista. Vi sono figure principali, anzi colossali, che staccano in piena luce di gloria nella composizione del grandissimo affresco: Francesco Ferrucci, Michelangelo Buonarroti, Dante da Castiglione, il gonfaloniere Carduccio, e quel macro profilo di Fra Benedetto da Foiano, dalle cui labbra inspirate sembra prorompere sotto le arcate di Santa Maria del Fiore lo spirito del Savonarola vegliante su la tradita repubblica; ma unico e vero protagonista del libro è la patria, e ne è anima l'anima sempre presente dello scrittore.
Peccato che egli abbia voluto turbare quell'ideale unità con episodii domestici, che male interrompono e ritardano lo svolgimento dell'azione storica, e che al confronto di quella grande azione rimpiccoliscono troppo! Ma egli, per il suo fine politico, volle forse indulgere ai gusti del tempo e del pubblico, e per esser letto da tutti, intrecciò alla storia le fila di quel tetro romanzo d'amore che commosse tanti animi, e che oggi mi sembra una specie di melodramma vittorughiano interpolato in una epopea.
E un'epopea veramente fu questo libro; epopea cui non manca che il verso, non l'onda del numero. E l'onda poetica della prosa guerrazziana, prescindendo dalle intemperanze che le son consuete, è qui al suo posto assai più che in altri romanzi del Nostro. Egli stesso chiamò poema questo suo libro, e con tutta ragione: epica ne è la materia, epici ne sono gli eroi, epici furon gli effetti che esso produsse, affrettando le giornate del nostro riscatto.
Ma a noi che importa del nome col quale si debba chiamare un libro che operò quei miracoli? Se c'è una cosa che importi, è questa soltanto: che il libro, il quale operò quei miracoli sopra un'intera generazione, la generazione presente più non lo legge, perchè l'esecuzione non corrisponde in esso alla ispirazione caldissima. Anche l'autore, più tardi, dichiarò essergli sembrata necessaria ma detestabile l'arte onde fu concepito L'assedio di Firenze. Ma, ad onta di tutto, vi sono bellezze di primissimo ordine in questo romanzo o poema che voglia chiamarsi; e poema o romanzo che sia, non dobbiamo dimenticare che i nostri padroni di allora, i nostri padroni di Vienna, lo condannarono e lo temerono come una battaglia vinta contro di loro; che per l'Austria fu una minaccia e una sfida ad oltranza, come per noi fu conforto e argomento a risorgere e a insorgere contro di lei. Minaccia e conforto, protesta ed augurio, rivendicazione e glorificazione: ecco, o signori, ciò che fu questo libro.