Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II», sayfa 6
Io ebbi la fortuna di conoscerli ambidue. Erano due tipi disparatissimi.
* * *
Giovanni Prati nel decennio di cui parliamo seguitava la sua strada; godeva della sua fama, e cercava di aumentarla con opere notevoli. Sempre uguale a sè stesso: vagabondo, strano, irregolare; aveva amato la natura e l'Italia, e il suo amore per quest'ultima aveva sempre nobilmente e francamente manifestato, ma accompagnava poi questa sua nobiltà di condotta poetica con molte stranezze nella vita; ed ebbe per l'una e per le altre molti dolori e molte tristi vicende. In questi dieci anni egli dalla Toscana, dove aveva un così acerbo persecutore in Francesco Domenico Guerrazzi, si era rifugiato a Torino e là, all'ombra della Croce Sabauda, a cui aveva rivolto l'occhio confidente anche quando altri faceva le viste di non accorgersene, ben visto a Corte, seguitava a poetare, perchè il poetare, per Giovanni Prati era non una dilettazione istintiva, non un'operazione intermittente, era come un abito inscindibile dalla sua natura, e di continuo componeva versi, e, quel che è anche più strano, nessuno lo aveva mai visto comporre versi a tavolino. Andava errando come aveva fatto sempre, e lo vedevano pei Portici di Po brontolando seco stesso i suoi endecasillabi o i suoi settenari, sempre con in bocca un sigaro, che spesso gli si spengeva; allora chiedeva fuoco al primo che incontrava, e riacceso il mozzicone continuava a mormorare dei versi. Più di una volta fu preso per un pazzo.
In questo decennio Giovanni Prati ha composto su per giù due volumi di versi, nei quali si nota uno spiccato e opposto carattere d'arte. Nei poemi è sempre il bizzarro ingegno romantico di Edmenegarda e delle Ballate: come prima, vagheggia il fantastico, lo strano, l'avventuroso. Nella forma non si corregge o peggiora. Infatti, leggendo a Torino il suo poema Ridolfo fece accapponare la pelle al buon Terenzio Mamiani per delle forme veramente strane e eteroclite. Un lavoro di miglior avvenire si ha nella Battaglia Imera o Jerone, una specie di visione antica che lampeggia alla mente del poeta e che pare il preludio di quella mirabile castigatezza di gusto che egli qualche anno dopo doveva conquistare per dono felicissimo della sua natura, e che lo metteva in grado di comporre i due Sogni, di tradurre non indegnamente Virgilio e di pensare a verseggiare quel Canto ad Igea che par davvero un frammento di serena poesia antica. Il secondo volume ci dà invece un Prati fortemente compreso della missione civile e politica del poeta italiano: e tutti i grandi argomenti che occupano la vita italiana, che accennano ai dolori del presente e alle speranze dell'avvenire, tutti si rispecchiano fervidamente in quelle sue liriche alate, che anche oggi non si possono leggere senza commozione. L'anno scorso, o Signore, vi ho citato alcuni passi della superba Trenodia in cui, celebrando il ritorno da Oporto delle ceneri di Re Carlo Alberto, egli volle evocare tutto il sogno poetico della federazione italiana del Quarantotto, gettando un ultimo grido di supplicazione ai principi della penisola. Indi egli si volse da quella parte, ove solo le speranze parevano attendibili, voglio dire alla spada, al senno e alla lealtà di Re Vittorio. Ora sentite con che accenti egli ricorda i giovinetti toscani eroicamente caduti a Curtatone:
Quando la fredda luna
Sul largo Adige pende,
E i lor defunti l'itale
Madri sognando van;
Un coruscar di sciabole,
Un biancheggiar di tende,
Un moto di fantasimi
Copre il funereo pian.
E via per l'aria bruna
Sorge un clamor di festa:
«L'ugne su voi passarono
De' barbari corsier;
Viva la bella Italia!
Orniam di fior la testa;
O vincitori o martiri
Bello è per lei cader.
E chi, evitato il nero
Tartaro, ancor respira,
Abbia in retaggio il funebre
Pensier di chi morì,
Seme di sangue provoca
Messe di brandi e d'ira;
Fatevi adulti, o pargoli
Per vendicarci un dì!»
Il guardïan straniero
Dall'ardue rôcche ascolta.
E le canzoni insolite
Lo stringono di gel;
E il pian mirando e il torbido
Stuol degli spettri in volta,
Pensa le patrie roveri
E il nordico suo ciel.
E sclama anch'ei: «Di meste
Larve simili è piena
Pur la mia tenda ungarica
O il mio boemo suol,
E a me, che schiavo indocile
Veglio l'altrui catena,
Pace l'avara tenebra
Nega e letizia il Sol.
Oh, falco, che da queste
Turrite rupi inarchi
L'ale alla fuga, intendere
Potessi il mio desir!
Ma se per tanto d'aëre
Sino al mio ciel tu varchi,
Di' a' figli miei che abborrano
In servitù perir!»
Così con varii modi
Canta chi vinse e giacque,
Ma in un medesmo palpito
Arde il medesmo ver,
Mentre la luna naviga
Sovra il cristal dell'acqua
E giù nel pian si sperdono
Gli spettri dei guerrier…
Quando Giosuè Carducci dettò quelle sue malinconiche e bellissime strofe per l'anniversario dei morti di Mentana, si ricordò egli di questo componimento del Prati. V'ha somiglianza di metro, di rime, e perfino ricorrenza di certe frasi e di certe immagini. Nell'una e nell'altra, i morti parlano pietosamente alla patria; e un senso di paura passa negli avversari. Con una audacia veramente lirica, il Prati affrontò in questo decennio tutti i più scabrosi argomenti che toccavano alla vita italiana. Luigi Napoleone di Presidente della Repubblica si fa a un tratto Imperatore; e Giovanni Prati gli volge un'ode che a quei giorni andò famosa in Italia e oltre l'Italia, in cui apostrofa vivamente, quasi assale di interrogazioni e di problemi imperiosi il nuovo Sire incoronato di Francia.
Hai vinto. Or ben. Qual premio
Dalla vittoria attendi?
Sali. E l'antica porpora
Di Clodoveo ti prendi.
Ma la fortuna, o Principe,
Ha giuochi infami. E bada…
Qui incominciano i consigli, le ingiunzioni, le minacce:
Se col vorace e barbaro
Settentrïon t'annodi,
Perduto sei. La gloria
Ti mancherà dei prodi…
È tutto un programma di politica in versi piani e sdruccioli; e letto oggi a tanta distanza dagli eventi, l'effetto non è sempre serio; ma anche oggi la lirica del Prati ci commuove quando, verso la fine, parla al Bonaparte d'Italia:
Sol, pei materni visceri,
Ti prego a giunte mani,
Non obliar, nel turbine
Del tuo fatal dimani,
Questa obliata Italia
Dal sorger tuo; quest'Eva,
Che a te le braccia leva
Consunte di dolor.
Mille de' suoi, che dormono
Là tra le scizie nevi,
Per Chi tu sai, fantasimi
Tetri, placar tu devi,
Pensa alla madre; al cenere
Dell'Alighier. Nefando
Di Bonaparte è il brando,
S'egli altri numi ha in cor.
Le esortazioni e i vaticinii del Poeta, dovevano attingere valore dal tempo; ed ora noi li congiungiamo ai ricordi del colloquio di Plombières, di Magenta e Solferino.
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Aleardo Aleardi ebbe anch'esso anima vera di poeta; ma ebbe indole diversa. Anche al fisico, quantunque tutt'e due fossero belli uomini, al portamento i due molto si diversificavano. Aleardo Aleardi composto, dignitoso, contegnoso. Con la sua bella chioma spartita sulla fronte e con la pettinatura impeccabile mi faceva pensare a un verso di Gaspare Gozzi, ove descrive i capelli dei damerini del suo tempo. Aveva il parlare sentenzioso, la frase rotonda, e volentieri batteva il pugno quando voleva asserire qualcosa di solenne. Aleardo Aleardi fu troppo lodato, e fu sventura per lui. Io mi ricordo che un critico, poco dopo il '60, metteva nientemeno che il nome di Aleardo Aleardi vicino a quello di Dante Alighieri; e io provai una profonda pietà per Aleardo Aleardi. Infatti egli dovette scontar poi, con un rapido rovescio della fortuna della sua fama e quasi con l'oblio, l'eccesso delle lodi prodigategli dai compiacenti contemporanei.
L'Aleardi lasciò scritto di sè che da ragazzo aveva provato una grande inclinazione per la pittura, e specialmente pel paesaggio; ma gli era stata così severamente interdetta e combattuta dal padre, che dovette abbandonarla. Questa sua inclinazione alla pittura di paese si riflette qua e là nei suoi componimenti in modo manifesto:
Ogni eminenza dopo la procella
Versa per cento conche
In curve e fuggitive
Cascatelle il soverchio de la piova:
Suonano le spelonche
A la cadenza di frequenti stille:
Brilla l'immenso verde,
E tutta di vaganti iridi piena
È la silvestre scena.
L'Aleardi ci dà molti di questi quadretti: veri paesaggi di poeta, ove si uniscono e s'armonizzano le voci e i colori in un tutto animato e vivente. E non mancano i paesaggi a grandi linee, entro le quali s'inquadrano dei drammi di pietà umana e tragici ricordi di storie e di leggende. Udite questo pezzo del carme Il Monte Circello, composto, si noti, nel 1845.
Vedi là quella valle interminata
Che lungo la toscana onda si piega,
Quasi tappeto di smeraldi adorno,
Che de le molli deità marine
L'orme attenda odorosa? Essa è di venti
Oblïate cittadi il cimitero;
È la palude, che dal Ponto ha nome.
Sì placida s'allunga e da sì dense
Famiglie di vivaci erbe sorrisa,
Che ti pare una Tempe, a cui sol manchi
Il venturoso abitatore. E pure
Tra i solchi rei de la Saturnia terra
Cresce perenne una virtù funesta
Che si chiama la Morte. – Allor che ne le
Meste per tanta luce ore d'estate
Il sole incombe assiduamente ai campi,
Traggono a mille qui, come la dura
Fame ne li consiglia, i mietitori:
Ed han figure di color che vanno
Dolorosi all'esiglio; e già le brune
Pupille il velenato aëre contrista,
Qui non la nota d'amoroso augello
Quell'anime consola, e non allegra
Niuna canzone dei natali Abruzzi
Le patetiche bande. Taciturni
Falcian le mèssi di signori ignoti;
E quando la sudata opra è compita
Riedono taciturni; e sol talora
La passïone dei ritorni addoppia
Col domestico suon la cornamusa…
Vi consiglio anche di leggere nelle Prime storie la descrizione del Diluvio universale, nella quale l'Aleardi ha saputo unire alla evidenza del quadro alcuni tocchi di fantasia che ne accrescono il mistico terrore.
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I difetti della poesia di Aleardo Aleardi io non mi propongo qui di numerare e di analizzare partitamente. Vi dirò solo che dalla lettura dei suoi versi io ho ritratto il convincimento che in lui non fosse profonda la coltura letteraria e sufficiente la preparazione per dare sempre alla forma poetica quella sicura e precisa finitezza che le procaccia il duraturo suffragio degli uomini di buon gusto. Egli è spesso morbido, vago, indeterminato: il suo tocco, troppe volte non è sicuro e non coglie nel segno voluto; e allora cerca una simulazione di precisione in qualche immagine che non è sempre di buon gusto. Circa la novità, vuol differenziarsi dagli altri, e principalmente da Giovanni Prati, di cui sente la rivalità perigliosa; ma la novità cercata è tante volte a spese del buon gusto. Le sue immagini sono talvolta troppo cercate e sconfinano nel barocco; come quando vi dice che una campana suona per la valle «limosinando carità di preci,» proprio come un frate o un mendicante qualunque! Oppure quando, compiacendosi, al solito, della sua botanica, vi dice che sul ciglio di un burrone, dei ranuncoli, delle passiflore e non so quali altri fiori, stanno brontolando fra loro parole di congiura contro la vita degli uomini!.. Soprattutto io credo che la poesia di Aleardo Aleardi fosse malata di un femminismo estetico. Io non so trovare altro nome; ma un fatto, pur troppo, vi corrisponde. Vi sono troppe Marie in quei suoi componimenti! È venuto l'Epistolario, che ha messo in evidenza anche troppo, la soverchia, la stemperata amatività di lui. Io credo che se l'amore della donna è un prezioso coefficente per la poesia, e per l'arte, quando le donne sono troppe nella vita di un poeta, lo guastano.
La morbidezza dell'Aleardi voi la riscontrate subito nel suo modo di epitetare. Egli pone, i suoi epiteti, con sì frequente larghezza, che spesso è costretto a sostantivarne uno, perchè faccia da puntello agli altri; e ne esce qualche cosa di forzato e di equivoco. Per esempio, egli chiamerà un Re in esilio «limosinante indomito e sdegnoso,» oppure dirà i principi italiani spodestati «pallidi coronati impenitenti.» Quale tra questi epiteti fa da sostantivo? Quando apostrofa le sue donne si serve ancora degli epiteti raddoppiati «povera grande, povera bella, bella superba!» e via discorrendo. Vi parranno minutaglie, o Signore, ma sono questi abiti artifiziosi che indicano, come certe piccole macchie sulla pelle, la tabe che invade tutto quanto nelle sue intime parti lo stile del poeta.
E questo artificio si manifesta massimamente nelle personificazioni. In esse Aleardo Aleardi è, permettetemi la frase, femmineo fino alla puerilità. La patria, l'Italia, la Musa; quale, tra i poeti, non ha invocato la Musa e l'Italia? E la invoca pure Aleardo Aleardi, anche troppo di frequente; ma queste grandi astrazioni, queste luminose entità che devono sovrastare alla mente, allo spirito del vate, e da cui egli deve attingere come dall'alto la luce, nello spirito aleardiano sovente si abbassano, si abbassano, e par che vadano a sedersi vicino a lui, accanto al suo letto, accanto al suo tavolino di studio. L'Italia non è più la grande e cara madre; è la sorella, è, direste quasi, un'amante: «Sorella mia, vieni, pigliati in mano il sapiente legno del Nazareno, mettiti in ginocchio sulla strada, e domandiamo la carità a quelli che passano!» Similmente, la Musa per l'Aleardi non è la Dea a cui da Omero in poi si sono rivolti tutti i poeti! Egli la tratta alle volte come una segretaria, alle volte, non vorrei offenderla, mi ha l'aria di una sua cameriera!.. Il più delle volte la chiama «sorella» ed ha per lei delle apostrofi varie; ora complimenti, ora carezze e baci, ora corrucci e poi rappaciamenti. Antropomorfismo morbido, disdicevole, e antipatico. Una volta il poeta si lamenta di essere abbandonato da tutti i suoi vecchi amici, e si rivolge alla Musa, e le dice: «Anche tu mi hai abbandonato, mi tradisci. Ah non a questo educato io ti avea!» Come vedete, qui le parti si invertono; non è la Musa che inspira, come da Omero in poi; è il poeta che inspira la Musa. Invertimento lezioso, che potè forse piacere come una novità, ma che adesso viene a noia.
Però, quando abbiamo detto tutto questo, o Signore, noi non possiamo chiudere gli occhi ai veri meriti del poeta. Commetteremmo una grande ingiustizia. Io, che così vi ho parlato, mi compiaccio di avere assistito commosso alla inaugurazione del monumento che i veronesi per gratitudine inalzarono ad Aleardo Aleardi. Egli ebbe una forte e schietta anima di poeta, e fece della poesia un uso generoso. Troppo femminismo in lui, lo abbiamo già detto, ma a lui anche non si può negare il merito insigne di aver forse più d'ogni altro poeta unito l'amore della cara donna e l'amore della cara patria. Egli si studiò con nobilissimo intendimento di fondere insieme questi due sentimenti, e quando narra nel «Triste dramma» la storia del povero condannato dall'Austria che, appena giunto alla carcere, segna nelle pareti il profilo della donna amata, e in quel profilo si compiace di vedere la immagine della donna amata e la immagine d'Italia «che Dio fece insieme così belle e colpevoli,» noi, anche attraverso il suo cicisbeismo fantastico, non possiamo fare a meno di cogliere e sentire una idea generosa. Il poeta veronese immaginò la donna come mediatrice tra l'uomo e il Creatore, e ministra amabile e forte della volontà umana nell'adempimento dei più grandi ideali. E quando nel «Canto politico», uno dei suoi più infelici canti, di una lunghezza interminabile, fa salire lo spirito di una donna fino al trono di Dio a invocare pietà per la patria italiana in nome di tutto ciò che vi ha di bello, di nobile, di gentile nella umana natura, noi non possiamo difendere l'animo nostro da un senso di compiacenza e di ammirazione. Leggendo le liriche dell'Aleardi, anche le meno fortunate e le meno riuscite, il nostro pensiero corre spontaneo a quelle nobili gentildonne veneziane e lombarde, che tanto contribuirono a mantenere in Italia viva la fiaccola del patriottismo, e che ai campioni della libertà, e dell'unità della patria non furono larghe solamente di sorrisi, ma di santi consigli; non seppero solamente amarli ma confortarli pietose e inspirarli magnanimi, facendosi ad essi compagne nei duri cimenti e nelle pene!
Sarebbe anche ingiustizia dimenticare che l'Aleardi si elevò ad altissime concezioni di patriottismo allargandole oltre i confini della sua patria, come quando in nobilissimi versi celebrò e compianse l'eroismo della Nazione polacca, ricordando le sue benemerenze verso «questa Europa ingenerosa» che la abbandonava alla tirannia moscovita.
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E ora voi mi domanderete: si riducono solo all'Aleardi e al Prati i poeti insigni del periodo che voi avete l'assunto di illustrare? Essi sono certo i due più insigni. Ho accennato ad altri, e volentieri mi metterei a mostrare i loro meriti, se mi fosse consentito dal limite dato al mio discorso. Vi basti, o Signore, che io abbia accennato qua e là ad alcuni di essi. Non voglio però tacervi che quando il decennio dal '49 al '59 stava per chiudersi, studiava a Pisa un giovinetto maremmano, che aveva in sè e valorosamente ne' suoi propositi una grande poesia, umana e civile per la sua patria.
Ho nominato Giosuè Carducci. Egli dissentiva dagli altri; egli studiava profondamente e diversamente da quello che usavasi allora in Italia dai più; non si contentava della pura forma, ma con la mente tenace e penetrante andava giù nella grande sostanza filologica e linguistica della nazione italiana, e accennava a voler risalire alle pure fonti della tradizione indigete e cavare da essa tutte le forme più precise e più plastiche di una nuova poesia. Un giorno egli comparve davanti a degli amici e lesse dei suoi versi, e anche nella scelta degli argomenti egli si diversificava dagli altri, non erano donne innamorate o lamentazioni sentimentali, o salici piangenti, o raggi di luna. Come un antico, come un pagano, di un fiero paganesimo però che non si tuffava nell'epicureismo e non divorziava da nessuna nobiltà di ideali umani, egli nel «Libero convito» cantava:
Beviam, se non ci arridono
Le liete muse indarno,
Or che lent'ombra nordica
Cuopre i laureti d'Arno.
A noi, progenie italica,
A noi, sangue del Lazio.
Bacco scintilla e Venere
E l'armonia d'Orazio…
Con questa superba e schietta intonazione il giovane poeta esordiva; e, ripeto, dal suo paganesimo nessuna alta idealità umana e sociale era bandita; e nel fervore del brindisi accennava alle grandi virtù civili che l'antichità classica ci raccomandava co' suoi esempi:
Anch'ei Catone intrepido
La tazza al servo chiese
E ripensando a Cesare
Il roman ferro chiese:
E in quel che Bruto vigila
Su le platonie carte,
Cassio tra' lieti cecubi
Gli Idi aspettò di Marte.
Così, o Signore, Giosuè Carducci preparava a sè stesso un grande avvenire di poeta fino da allora; e accennava che per la poesia italiana ci sarebbero state ancora delle giornate di gloria. Lo chiamavano strano, contorto, oscuro; ma gli uomini di più fine intelletto e di gusto più squisito sentivano in lui il maestro di una forma più eletta nella quale si sarebbero potuti nobilmente rispecchiare le più nobili tradizioni dell'arte nostra e tutti i grandi ideali della vita. Terenzio Mamiani, letta la sua canzone a Vittorio Emanuele II, non solo offriva a Giosuè Carducci la cattedra di italiano nell'Università di Bologna, ma vaticinava in lui il poeta giovane della patria risorta. E voi e noi tutti abbiamo la prova che il vaticinio dell'illustre pesarese non è andato smentito dai fatti, e che la poesia, dopo il Cinquantanove ha continuato a dare alla vita italiana delle ispirazioni e delle consolazioni.
F. D. GUERRAZZI
CONFERENZA
DI
GIOVANNI MARRADI
Signore e Signori,
Nell'anno 1827 uscivano in luce, a poca distanza fra loro, I promessi sposi di Alessandro Manzoni e La battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi.
Il Manzoni aveva 42 anni, il Guerrazzi 22. I promessi sposi erano stati preceduti da una aspettazione grandissima, che nocque al loro immediato successo e che, sulle prime, li fece quasi parere una delusione agli ammiratori del grande poeta. La battaglia di Benevento, invece, non era stata precorsa da altro rumore che da quello dei formidabili fischi, onde già i Livornesi avevano accolta la rappresentazione d'un dramma del loro giovine concittadino; ma il romanzo trionfò e sbigottì con quella sua forza selvaggia e feroce, la quale, più che rivincita d'autore fischiato, sembrò vendetta di lioncello inasprito.
E il romanzo guerrazziano, di cui si moltiplicarono subito le edizioni, fu contrapposto al romanzo manzoniano, come capolavoro si contrappone a capolavoro. E il Manzoni e il Guerrazzi furon considerati da molti come capi di due scuole e tendenze diversissime e opposte, ma ugualmente geniali e benefiche all'arte e alla patria: sopra tutto alla patria, che era allora, occulta o palese, la fiamma animatrice e la ragione suprema dell'arte.
Oggi I promessi sposi tengon di pieno diritto il primissimo posto nella letteratura italiana di tutto il gran secolo che tramonta, e La battaglia di Benevento non si legge ormai più, come non si legge più forse alcun libro di questo
… re della terribil prosa
Ruggita in faccia ai prepotenti e ai vili.
A poterci rendere qualche ragione di un così rapido cambiamento avvenuto nei gusti del pubblico, riguardiamo un po' più da vicino quest'uomo e questo scrittore che ebbe fama di grande, e riguardiamolo specialmente nella sua opera letteraria, che esercitò su i contemporanei tanta potenza.
Della vita politica del Guerrazzi non è forse venuto ancora il momento di poter giudicare con illuminata imparzialità, senz'amore e senz'odio; e se pure ne fosse il momento,
Me degno a ciò nè io nè altri il crede;
ond'io lascio ad altri, più competenti di me, il trattar di proposito questa parte dell'argomento, e vengo, senz'altro, al poeta.