Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 17
V
Quando il mondo si destò dal letargico sonno durato per lunghi secoli, e riprovò la pietà umana e l'amore, apparve un sole di carità che fece sentire alla terra il conforto della sua gran virtude.
Francesco d'Assisi è il vero iniziatore della nostra letteratura poetica con quel suo inno al Creatore e alle creature, che Ernesto Renan ha chiamato “le plus beau morceau de poésie religieuse, depuis les Évangiles, l'expression la plus complète du sentiment religieux moderne„. Questo cantico di estatica adorazione è il primo fiore, la celeste pervinca, del Giardino mistico: è l'alba annunziatrice della gran luce meridiana della Divina Commedia. Una universale simpatia facea battere il cuore di san Francesco di Assisi – e tutte le creature, dall'uomo alla cicala, avevano in lui un protettore, un amico. Il gran segno al quale si riconoscono le anime preservate ed immuni dalle orgogliose pedanterie spiritualistiche, e dalle spietate curiosità fisiologiche, è la intelligenza e la simpatia per gli animali inferiori. – San Francesco l'ebbe in grado supremo. Nel mondo moderno, due soli uomini gli sono paragonabili – Swammerdam e Michelet. La leggenda francescana narra che quando egli nacque, un volo di colombe si abbattè sul tetto della sua casa; e quando il Santo morì, al tramonto di una serena e placida giornata d'ottobre, le lodole, queste amiche della luce, svolazzavano intorno alla finestra della povera cella.
La vita di san Francesco d'Assisi è una vita-poema. L'eroismo e l'umiltà si confondono in questa vita maravigliosa. Ama e serve i lebbrosi; e affronta la superba presenza del Soldano d'Egitto – ferma e mansuefà il feroce lupo di Gubbio; e chiede genuflesso la benedizione a frate Ginepro – fonda missioni, ordini nuovi, edifica chiese e conventi, consiglia re e papi; e ascolta con religiosa attenzione il canto dei rosignoli. Parla ai fiori e alle stelle, alle cicale ed ai falchi, al fuoco ed al vento, all'Amore e alla morte, chiamando tutti fratelli e sorelle. In tempi di feroce durezza versa su l'Italia un raggio di alta poesia. Rannoda la tradizione evangelica, e pare uscito ora dalle Catacombe. È il Cristo del Medio Evo, è il nuovissimo Orfeo che doma e muove il duro sasso dei cuori umani. In una società basata sulla guerra e sulla forza, risuscita la santa fratellanza evangelica. Democratico e ascetico, eroico e poeta, egli è il più italiano di tutti i santi.
Tutta l'arte dei secoli XIII e XIV è piena di lui. Cimabue ne ripete i ritratti, Giotto descrive col pennello la sovrumana eppur semplice epopea di quella poetica e benefica vita. Vedete gli affreschi nelle chiese di Firenze, di Padova, di Assisi, di Napoli. Dante gli ha consacrato uno dei più affettuosi e sublimi Canti del Paradiso. Si direbbe che il fiero poeta confessa in quel canto tutta la vanità e l'amarezza delle passioni che hanno devastato la sua grand'anima, e che aspiri alla pace e alle gioie ascose di un'umile vita:
O ignota ricchezza! o ben verace!
Nelle effigie medievali di questo gran poeta e santo italiano, in Cimabue e in Giotto, il ritratto è in armonia con la vita. Vi è soavità unita a virile dignità, sguardo sicuro e profondo, diritta la persona, attitudini nobili e degne. Riconosciamo l'uomo “cui non gravò viltà di cuor le ciglia„ – che “regalmente sua dura intenzione ad Innocenzo aperse„. Ma dal seicento in poi, ne hanno fatto una specie di collotorto e di baciapile. Unica eccezione, la stupenda statua in legno di Alonzo Cano. – Si direbbe che l'arte falsa e barocca non poteva rappresentar degnamente quel figliolo della Verità e della Luce… Tutto si può simulare su questa terra: anche la giustizia e la santità – ma come simular la bellezza? – Tartufo non potrà mai fare un bel quadro; nè Don Pilone una bella statua; nè Don Basilio una bella poesia.
L'arte nostra contemporanea, ha meglio inteso il santo poeta. Ary Scheffer lo rappresentò predicante in Egitto – è una ascetica e nobile figura. Recentemente, nello studio di un nostro insigne pittore, ho ammirato un bel quadro rappresentante un poetico episodio della leggenda francescana.
Il Santo scende pensoso, ma serenamente pensoso, dalle alture della Vernia (il “crudo sasso„ ove “prese da Cristo l'ultimo sigillo„). – È una chiara e rigida mattina. Comincia a nevicare. Uno stormo di uccellini cala turbinoso sulle orme del Santo. Gli svolazzano attorno alla testa, attorno alla persona, trillando – un saluto? un inno? un ringraziamento? – Non so – ma si direbbero le voci della Natura riconoscente al Missionario di Dio.
VI
Le Lettere di Caterina da Siena sono uno dei monumenti più insigni della letteratura mistica del secolo XIV. In esse, e per esse, meglio che per qualunque altro documento, si riconosce in che si distingue il genio mistico italiano da quello francese, belga e tedesco. Il senso pratico della vita non abbandona mai affatto il misticismo italiano. Non si ritrova in esso il cupo terrorismo di un Thauler, il fatalismo di un Molinos, il nichilismo di Mad. Guyon, l'allucinazione permanente di Swedenborg. Santa Caterina è un'anima innamorata della solitudine e del dolore – sua delizia sono le lunghe e intense meditazioni sulla Passione, e gli intimi colloqui con l'invisibile Sposo celeste. Ma, natura essenzialmente italiana, come san Francesco e come Dante, passa dalla vita contemplativa all'attiva, senza sforzo, senza pena, senza intervallo. Oggi, annichila sensi e volontà in una estasi di acquiescenza e di abnegazione completa in Dio – domani, visita spedali, riforma conventi, conforta carcerati, assiste condannati a morte, minaccia cardinali, rimprovera papi, fa sola e inerme lunghi e pericolosi viaggi, e finalmente, con la parola e con l'opera, strappa da Avignone e restituisce a Roma il pontefice. In alcune sue lettere riscontrasi felicemente fuso questo doppio carattere di Maria e di Marta, di Rachele e di Lia, di contemplante e di operante. Ecco un frammento della mirabile lettera, nella quale descrive come confortò e assistè fin sul patibolo un condannato. Vi son cose addirittura sublimi. Giudicatene voi…
“Andai a visitare colui che sapete; ed egli ricevette da me tanto conforto e consolazione, che si confessò, e disposesi molto bene. Fecemisi promettere che quando fusse il tempo della giustizia, io fussi con lui. E così promisi e feci. La mattina, innanzi la campana, andai a lui; e ricevettene grande consolazione. Menailo a udire la messa, e ricevette la santa comunione, la quale mai più avea ricevuta. Egli mi dicea: Per lo amore di Dio, non mi abbandonare; stai meco, e morrò contento. E teneva il capo suo in sul petto mio. E io sentivo un giubilo e uno odore del sangue suo… Confortati, fratello mio dolce, gli dicevo, perocchè tosto giungeremo alle nozze. Tu v'andrai bagnato nel dolce sangue del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, il quale non voglio che ti esca mai di memoria. E io t'aspetterò al luogo della giustizia… Aspettailo dunque al luogo della giustizia, e aspettailo in continua orazione a Maria e a Catarina Vergine e Martire… Egli giunse, come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a sorridere; e volse che io gli facessi il segno della Santa Croce. E ricevuto il segno, dissi io: Giù! alle nozze, fratello mio! che tosto sarai alla vita durabile. Posesi giù, e io gli distesi il collo sul ceppo, e chinatami giuso, gli rammentavo il sangue dell'Agnello senza peccati. La bocca sua non diceva se non: Gesù! Catarina!.. Ricevetti il capo reciso nelle mie mani, fermando l'occhio nella Divina Bontà, e dicendo: Voglio!„
E così, bagnata tutta, inzuppata com'ella scrive, di quel sangue, adornatasene come d'una stola purpurea, la vergine eroica tornava palpitante e raggiante alla sua povera casa di Fontebranda.
Amore e Morte fu la mistica divisa di questa gran donna e gran santa. Ma nel suo più ardente ed etereo misticismo ripeto che non perdè mai di vista le cose della terra; e dirò di più, non si fa mai illusioni. Questa vergine malata, che sviene sotto le stimate, che ha lunghi sublimi colloqui col suo Sposo celeste, capì benissimo che la immonda regina Giovanna non le avrebbe tenuto fede – e che dopo la Babilonia d'Avignone, lo scisma sarebbe giunto al sangue per le vie di Roma. Pensate poi che teatro, che scene, le si presentavano allo sguardo, quando essa usciva dalla mistica solitudine della sua cella! Pensate alla Siena del trecento! alla sua storia agitata, epilettica. Guerre contro tutte le città toscane, guerre tra signori e popolo, esilii in massa, confiscazioni, incendi, saccheggi, ribellioni, rivoluzioni, comizi popolari tumultuosi come quelli dei Giacobini; in nessun'altra città italiana, la vita pubblica è stata così ardente, così passionata, così tragica.
E oggi, tra gli avanzi delle sue rosse mura, tra 'l giallo delle sue crete, e il verdecupo delle sue piante secolari, Siena riposa, spopolata e tranquilla. Un gran silenzio è succeduto ai procellosi tumulti – e nelle sue vie principali fiancheggiate da solenni e taciturni palazzi, il buon borghese fa la sua quotidiana passeggiata, e la sua stazione al caffè, con sì inappuntabile precisione d'orario – che si può al suo apparire caricare l'oriolo, come dinanzi a un'infallibile meridiana. Tornano in mente i versi del Leopardi:
“… or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
Dei nostri avi famosi?..
… e l'armi e il fragorìo
Che n'andò per la terra?..
… Tutto è pace, e silenzio!„
VII
Piuttosto che ripetervi cose già dette (e dette così bene) su Dante, e non potendo in una conferenza sulla Letteratura mistica omettere un sì gran nome – il più glorioso che vanti – preferisco tradurvi letteralmente alcuni pensieri di Tommaso Carlyle sul divino poema. Gli tolgo dal bellissimo libro On Heroes and Heroworship – Su gli Eroi e il Culto degli Eroi. Forse mai di Dante e della Divina Commedia fu discorso con sì luminosa larghezza e nuova profondità di pensiero: nè alcuno con più meditato e credibile vaticinio preconizzò, or fa mezzo secolo, che la voce di Dante avrebbe prima o poi comandata al mondo l'unità politica dell'Italia, che era già in potenza nel poema divino.
“Dieci secoli hanno preparato la Divina Commedia. Essa è la voce finale e sintetica del Medio Evo. Il Pensiero di cui allora viveva l'Umanità, si elevò per lei in musica eterna. Il mondo soprannaturale prese corpo all'occhio di Dante con determinata certezza di scientifica forma. Dante credeva all'esistenza di un Inferno, di un Purgatorio e di un Paradiso, come noi siamo sicuri che vi è Costantinopoli, e che per vederlo non occorre che andarci. Il cuore di Dante meditandovi sopra lungamente, intensamente, rompe alfine in un mistico profondissimo canto, e ne nasce la Divina Commedia, il più gran libro del mondo moderno.
“Nel suo solitario ed amaro esilio, tanto più profonda era l'impressione che faceva su lui il Mondo Eterno: quella tremenda realtà sulla quale fluttua come un'ombra inconsistente questo mondo del tempo, con tutti i suoi Firenze e i suoi esilii… – Tu, o Dante, non rivedrai Firenze e il tuo bel San Giovanni – ma vedrai distintamente (e vi abiterai) l'Inferno, il Purgatorio, ed il Cielo. Che cosa sono e Firenze, e Can della Scala, e il mondo, e la vita, a te che vieni dall'Eternità? La grande anima di Dante, senza asilo sopra la terra, fece sempre più sua dimora il terribile mondo soprannaturale.
“Il vero ritmico canto, è l'eroismo della parola. Tutti gli antichi poemi. Omero, Giobbe, sono autentici canti. Si può a rigor di termine asserire che tutte le vere poesie sono tali; che ciò che non è musicale non è propriamente poesia, ma prosa smozzicata in tante linee consonanti, con ingiuria del buon gusto, e con supplizio del nostro orecchio. Soltanto quando il cuore di un uomo è rapito in vera passione, e i toni del suo accento divengon melodici per la grandezza, profondità e armonia dei suoi pensieri – noi gli concediamo il diritto di rimare e cantare, e lo chiamiamo poeta, e lo ascoltiamo religiosamente come il più eroico dei parlatori.
“Il mondo delle anime, in Dante, è come una grande soprannaturale Cattedrale Cattolica, che giganteggia severa e solenne, spaventosa e gloriosa. La Divina Commedia è il più sincero di tutti i poemi. Derivò immediatamente dal fondo del cuore del suo autore, e perciò di generazione in generazione penetra profondamente nel nostro. Le popolane di Verona, quando incontravan Dante per via, usavan dire: – Ecco l'uomo che è stato all'Inferno. – Ah sì, egli vi era stato difatti, in un inferno di lunghe, atroci pene e tormenti. Commedie degne d'esser chiamate divine non si scrivono che a questo prezzo!
“Smettiamo i soliti lamenti sulle sventure di Dante. Se tutto gli fosse andato a seconda, sarebbe rimasto un buon lirico amoroso, un priore qualunque di Firenze, riverito ed amato – e al mondo sarebbe mancata la più grande parola che sia stata detta o cantata. Firenze avrebbe avuto un prospero magistrato di più, e dieci secoli muti fin allora avrebbero continuato a rimaner senza voce.
“Io non sono d'accordo con la moderna critica nel giudicare l'Inferno molto superiore alle altre due Cantiche. Tal preferenza è l'effetto del nostro incurabile Byronismo. Il Purgatorio e il Paradiso sono egualmente, e forse anche più ammirabili. Ma, a vero dire, i tre compartimenti, mutualmente appoggiati, sono l'uno all'altro indispensabili. Il Paradiso, tutto una divina e gloriosa musica, una sfolgorante mistica luce, è il lato redimente dell'Inferno, l'antitesi necessaria, senza cui l'Inferno parrebbe men vero. Tutti e tre formano quel Mondo Invisibile raffigurato nella Cristianità del Medio Evo; una cosa memorabile, e, nella sua intima essenza, anche vera, e per tutti. Dante ebbe la missione di esprimerla e di eternarla col canto.
“È una gran cosa per una nazione l'avere una voce che parli per lei; aver dato vita ad un uomo che esprima melodiosamente quel che essa pensa, soffre e spera. L'Italia, la povera Italia, è smembrata e dispersa. (Ricordate Signori, che questa Lettura su Dante fu fatta da Carlyle nel 1840). Non apparisce come unità in nessun trattato, in nessun protocollo. Eppure, la nobile Italia è anche attualmente una. L'Italia ha Dante – l'Italia può parlare! Lo Zar di tutte le Russie è formidabile con tante baionette, cannoni e Cosacchi, ed è certo un gran fatto che riesca a tenere insieme politicamente sì gran tratto di terra, ma ancora non può parlare. Vi è qualche cosa di grande nella Russia, che un giorno avrà la sua voce – ma finora è una grandezza muta. Non ha avuto una voce di genio degna di esser ascoltata da tutti gli uomini, in tutti i tempi. Bisogna che impari a parlare. Finora non è che un muto enorme mostro. Invece, la nazione che ha un Dante è legata insieme ed unita naturalmente; e anche in fondo all'abisso, ha speranza, certezza di risurrezione.„
Ma bisognerebbe leggere intero questo stupendo studio critico del Carlyle – e vorrei che i giovani italiani lo meditassero lungamente. Son certo che lo preferirebbero ai commenti e dissertazioni di quei letterati che in sei secoli non hanno saputo desumere dalla Divina Commedia le forme di una letteratura nazionale, e di una larga ed umana forma poetica; che invece di ammirarne e illustrarne le sovrane e feconde bellezze, si son trattenuti – e ohimè! ci si trattengono ancora – a disputare sul Veltro, e sulla gran fonda, e sul piè fermo, e su pape e aleppe, e sulla famosa virgola delle famose colombe…
VIII
La indecisione, la contradizione, l'oscillare fra due tendenze egualmente forti, rese infelice il Petrarca; uomo che le fallaci esteriorità della vita ci farebber parere felice e invidiabile. È nato poeta ed artista – ma non gli basta che l'idea, l'immagine, sia vera e viva, come bastava a Dante; vuol che sia artisticamente e spesso artificiosamente bella: vuol provare il piacere estetico (e in questo è essenzialmente il più moderno dei nostri antichi poeti) di cercarla, carezzarla, contemplarla. È già in parte l'uomo del Rinascimento, del nuovo mondo plastico e naturalista – ma resta pure uomo del Medio Evo, ed è imbevuto dalla sostanza della sua fede e delle sue dottrine. Vi è in lui lotta e reazione reciproca di Misticismo e di Naturalismo: indi, le continue contradizioni del suo amore, della sua poesia e della sua vita. Dante è tutto d'un pezzo – e va diritto alla mèta coll'impeto fulmineo e irresistibile d'un proiettile; il Petrarca procede per vie sinuose, or tra fiori or tra spine, e si attarda e si pente, e torna addietro per poi riprender la stessa strada. Stato doloroso, insopportabile, e che egli espresse con sovrana efficacia nella Canzone alla Vergine: che io definirei la più preziosa gemma del Misticismo nel Dolore.
Questo poeta ammirato, adorato dai contemporanei, ospitato dai monarchi come un monarca, confessa che
Non è stata sua vita altro che affanno!
che
Mortal bellezza, atti e parole gli hanno
Tutta ingombrata l'alma!
e conclude:
I dì miei più correnti che saetta
Tra miserie e peccati
Sonsene andati, e sol Morte m'aspetta.
Ormai non spera più che nella Consolatrix Afflictorum: vuol amare lei sola – dimenticare il vano e colpevole amore per Laura:
Vergine, tu di sante
Lacrime pie adempi il mio cuor lasso.
Che almen l'ultimo pianto sia devoto;
Senza terrestre limo,
Come fu il primo, non d'insania vuoto.
Paragonate queste parole a quelle di Dante per Beatrice. Che abisso di differenza!
La Canzone alla Vergine è inno ed elegia, confessione e preghiera ad un tempo. Vi è come un ritmico singhiozzo nelle rime a metà di verso – vi è come un desolato e supremo appello nell'insistente invocazione – “Vergine!„ – a ogni principio di strofa. E finalmente vi è un presentimento di riposo e di pace ineffabile nei versi finali: “Raccomandami al tuo Figliol verace – Uomo e verace Dio – Che accolga il mio spirto ultimo in pace.„
Ripeto: tutto il Medio Evo nei suoi secolari dolori cerca e trova rifugio nel Sacro Ideale Femminino, nella Consolatrice. Ed è lei che risolve il gran problema del dramma medievale del Faust.
Das Ewig Weibliche
Zieht uns hinan!
Vi rammentate la mistica scena finale? Il Pater Extaticus, in preda al delirio dell'amor puro, esprime le più ardenti aspirazioni all'incorporeo, all'infinito: non appartien più a questo mondo; e librato sull'ali del desiderio, nuota nel puro etere. Il Pater profundus esalta in un magnifico inno l'amore, e canta Dio nella natura. Il Pater Seraphicus annunzia e invita le schiere angeliche che si trasmettono la parte immateriale di Fausto. San Bernardo (Doctor Marianus) dalla cella più elevata e più pura, annunzia l'arrivo della Mater gloriosa, che s'avanza nel blù profondo dell'atmosfera. A lei s'inchinano le tre grandi penitenti, la Maddalena, la Samaritana, l'Egiziaca, e una penitente che un tempo si chiamò Margherita, prega la Vergine Madre per la salute di Fausto. È quella stessa voce che abbiamo udita tremante d'amore nel giardino – rotta dai singhiozzi al tabernacolo della Madonna – e morente in un gemito nella Cattedrale… E il risentirla ora in cielo, sempre amante, e supplicante per Fausto, produce un effetto unico. Come la Vergine attirò e salvò Margherita – così Margherita attira e salva Fausto. Mistica catena, magnetiche attrazioni, nelle quali e per le quali, Amore e Religione diventano una medesima cosa!
IX
Enrico Heine in uno dei suoi volumi di prosa ricorda una vecchia leggenda tedesca, che ha, secondo me, un notevole significato storico e psicologico. Un giorno di maggio, sul finire dal secolo XV, una compagnia di preti e di monaci passeggiava in un bosco. Disputavano di teologia, distinguendo, argomentando, sillogizzando, citando san Tommaso e san Bonaventura, Scotisti e Nominalisti. A un tratto, nel più forte della discussione, tacciono tutti, e restano interdetti e come inchiodati, sotto un bel tiglio fiorito, dove un rosignolo sospirava le sue note tenere e passionate. Quei cuori scolastici e dottorali si commossero – si aprirono alle tepide emanazioni primaverili, e ascoltavano attoniti… Ma il malizioso rosignolo (una specie di Heine coll'ali) trillò: sono il Diavolo, e fuggì via.
In questa leggenda è adombrato il lato debole, antiumano del misticismo, quando predomina e regna dispoticamente sulle menti e nei cuori; il vedere cioè nelle più belle cose naturali un lato satanico, un laccio o un agguato… Il Rinascimento, per reazione, negò il soprannaturale – ma il misticismo aborriva troppo dal naturale. Tuttavia, il misticismo è una forza e un istinto umano; e per variare di tempi non è mai morto affatto. Che dico? vive anche oggi, e conta fra i suoi rappresentanti il più possente romanziere dei giorni nostri – Tolstoi!
Anche nel Secento, il misticismo trionfa, ma come un angelo fosco. Dopo che alla fine del secolo precedente santa Teresa ebbe unito nel suo ardente cuore di spagnola l'estasi della contemplazione all'eroismo dell'azione – il Secento vagheggiò come mistico ideale l'annientamento dell'individuo e della volontà. Era il misticismo adattato a quell'epoca sinistra ed odiosa, nella quale il barocco, il mostruoso, invadono la letteratura, l'arte, il teatro, le mode, il mobiliare, i giardini, i sepolcri… Una cupa severa monotona etichetta sembra dirigere tutte le azioni umane: uno sbadiglio enorme va da un capo all'altro d'Europa. Anche i più grandi scrittori del tempo son tristi. Molière e Pascal muoiono di malinconia. Hobbes e Molinos – la paralisi e il fatalismo in politica ed in morale – sono i veri rappresentanti di quell'epoca tenebrosa. Galileo e Gustavo Adolfo, i soli veri eroi in quel periodo stagnante… I conventi si moltiplicano, e un misticismo opprimente, artificioso e patologico, dà loro l'aria di tenebrosi e silenziosi manicomi. Vi siete mai trovati per caso in certi quartieri di Roma, di Milano o di Napoli, dove le strade sono come incassate fra una doppia linea di enormi edifizi grigi, alla cui cima si affaccia la punta di un cipresso, con qua e là poche finestre mezze murate, e da cui sembra colarvi addosso un'ombra, una nebbia di tedio? – Sono i muraglioni dei conventi del Secento, dove annualmente si seppellivano migliaia di giovani e ardenti Gertrudi, a benefizio del giovin signore, l'orgoglioso, e spesso stupido erede dei titoli e della fortuna!
Allora l'acquiescenza assoluta, il non volere, il quietismo, il nichilismo, divennero i religiosi Ideali. La morte parve una voluttà. Eppure anche da questa palude morale levò l'ali e si alzò nell'etere puro una creatura privilegiata, nella quale rifulse il poetico carattere delle grandi mistiche del Medio Evo: voglio dire, Madama Guyon. In quel putrido stagno, essa fece correre i rivi freschi e cristallini dei suoi Torrenti – e il suo quietismo paragonato a quello di Molinos, è come il silenzio dell'Alpi paragonato al silenzio del Deserto. Il misticismo della Guyon vien dal cuore, come quello di santa Gertrude e di santa Caterina – quello dei mistici suoi contemporanei è tutto di testa. Il suo misticismo è un luminoso e confidente mattino d'amore – l'altro è un incerto crepuscolo amoroso, pieno di esitazioni e di equivoci… Le parole sono di fuoco, e il cuore è di gelo. Situazione precaria, penosa, demoralizzante. Meglio troncare addirittura – e meglio ancora, non aver mai cominciato…