Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 18
X
Nella letteratura mistica del secolo XIII, il misticismo amoroso si confonde col religioso. Spesso adoprano uno stesso linguaggio. Leggendo certe poesie del Guinicelli, del Cavalcanti, dell'Alighieri, vien fatto di domandarsi: si parla di una donna, o della Madonna? di una creatura umana o di un serafino?
Chi vuole aver notizie di Dio, ami! – dice Ugo da San Vittore; e Eckardt: L'amore è l'occhio dell'anima. L'amore di donna, per quei poeti del 200, è più che una passione, un desiderio, una dolce abitudine – è una perfetta ed intensa occupazione: non un episodio, ma la storia della vita: assorbe l'individuo come una religione. Ma più che la donna, la persona, amano l'amore – sono essenzialmente lirici, più che drammatici – perchè, felici o sfortunati – son sempre al medesimo punto… Con delle frasi del Guinicelli, di Lapo Gianni, del Cavalcanti, dell'Alighieri, di Cino, si comporrebbe un libretto che si potrebbe intitolare La teologia dell'amore. (Il difficile sarebbe oggi trovargli un editore, e delle lettrici). Tutti quei poeti del 200, maggiori e minori, si somigliano tutti – dal gran poeta all'ultimo sonettista, tutti ricamano sopra una medesima stoffa teologico-metafisica. Hanno un culto di latria per quelle donne, che si dovevano passabilmente annoiare a sentirsi sempre paragonare a scale del cielo, a maestre di umiltà, a stelle Dïane, a concetti, a simboli, a sacramenti.
Ma il genio di Dante condensò, animò e immortalò tutti quelli elementi nella Vita Nuova. Il genio e la passione vera, dettero forma e movenza a quel mondo inerte di astrazioni platoniche e di fantasmi scolastici. La Vita Nuova – questo divino fiore venato di sangue, questa mistica rosa imperlata di lacrime, e, dopo sei secoli, fragrante come se colta d'ora, – è la sintesi dell'Amore del Medio Evo; come la Divina Commedia è la sintesi della sua Fede.
Il sentimento è sì intenso, che fa paura. L'amante e il poeta sembrano respirare in un'atmosfera dove la ragione umana svanisce – l'allucinazione diventa lo stato normale e psicologico. Essa passa, ed egli trema per ogni vena. Sorride, e il Paradiso scende sulla terra. Apocalittiche visioni lo assalgono – le stelle piangono, gli uccelli cascano tramortiti… Piange in sogno, si desta, e il suo viso è realmente bagnato di lacrime. In questo stato di estasi, tutto diventa simbolo – e le cose più comuni assumono nuovo e strano significato. Un colore, un numero, un'ora della giornata, un suono, un odore, acquistano singolare importanza. Il Rossetti nel quadro della Beata Beatrix ci raffigura Beatrice pallida, un po' estenuata, occhi neri, e con abbondante volume di neri capelli. Dante però non l'ha mai descritta. E ognuno se la rappresenta a suo modo – e tutti l'amiamo!…
Vediamo invece, dipinta a caldi tizianeschi colori, Madonna Laura – la rosea, florida, bionda bellezza: – ma chi mai l'ha amata, fuori che Francesco Petrarca?..
Il misticismo nell'amore non fu ucciso neppure dal realismo pagano del Rinascimento – neppure dalla scienza moderna! Anche nel secolo nostro, ha avuto insigni rappresentanti in insigni poeti e romanzieri: mi basti ricordare Novalis e Gian-Paolo, il Liebesfrühling di Rückert, lo Shelley e il Rossetti, e la scena finale di Aurora Leigh. Lo ritroviamo anche, con una certa maraviglia, dove meno si supponeva trovarlo – in Balzac, in Tolstoi, in Roberto Browning. La Seraphita di Balzac è una creazione mistica, e altamente poetica nel suo candore di neve immacolata.
Chi però, non per arte o artificio, ma per fenomenale analogia di natura, è stato nel nostro secolo un'eco fedele della gran poesia mistico-amorosa del secolo XIII, è Dante Gabriele Rossetti: un dugentista italiano, nato, per capriccioso anacronismo della sorte, a Londra, in pieno secolo decimonono. Quasi tutta la sua opera poetica deriva in linea retta dalla Vita Nuova, dal Guinicelli e dal Cavalcanti. La bellezza corporea e spirituale della donna è il motivo di tutte le armonie Rossettiane. L'anima è sempre visibile attraverso i veli e la veste delle bellissime forme. Una luce interiore illumina le membra perfette, e dà un significato trascendentale agli sguardi profondi, agli ineffabili sorrisi delle sue donne, cantate o dipinte.
E la Blessed Damozel, la Beata Donzella, che egli vede nella profondità dell'etere azzurro chinarsi verso la terra aspettandolo – la vergine soave dagli occhi puri e profondi, dai folti e lunghi capelli, biondi come spighe mature, – estatica di celeste stupore al suo primo ingresso nel Paradiso – e che ha per solo ornamento alla sua bianca tunica di vergine e di angelo, una rosa bianca, – dono della Madonna, non pare una figura dipinta su fondo d'oro da Giotto o dal beato Angelico?
E però il nostro Rossetti non va confuso con quei preraffaellisti inglesi dei quali è assottigliato il numero ma non è spenta la razza, i quali non sanno rappresentarci che vergini magre e bionde, e passabilmente bruttine, con un ramo di mandorlo fiorito in mano, e una stella sui capelli: che non hanno di bello che il loro ramo, e di grande che i loro piedi!.. manifattori della moda costoro, piuttosto che veri artisti – e che mezzo secolo addietro avrebber dipinto sedie pompeiane e Achilli con le fedine – o cantato Latona e Pasifae…
Il concetto orientale-platonico, accennato e vagheggiato da alcuni poeti del secolo XIII e XIV, di una scala progressiva di vite, è stato espresso con un misto di realismo e di patetico, così poeticamente e così indimenticabilmente da Browning nella sua Evelyn Hope, che non resisto alla tentazione di concludere la mia lettura con l'analisi di questo capolavoro di poesia mistico-amorosa.
XI
Un uomo adulto di anni e sempre giovane di cuore, ha chiuso nell'anima e custodito come un sacro e geloso segreto, l'amore profondo che sente per una giovinetta di sedici anni. Ma la bella Evelyn Hope è morta; ed egli siede e veglia un'ora presso il letto ov'essa giace cadavere… Quella è la sua piccola libreria, questo il suo letto: essa avea colto con le sue mani quel ramicello di geranio che comincia a morire anche lui nel calice di cristallo, sul tavolino. Poco o nulla è mutato nella cameretta: le imposte son chiuse, nè passa altra luce fuorchè quella di due lunghi raggi gialli, dagli spiragli della finestra…
Egli medita, triste ma rassegnato: – Morta a sedici anni! Forse essa aveva appena sentito parlare di lui: non era ancora venuto per lei il tempo di amare: e poi, la sua vita aveva altre speranze, altre occupazioni, e piccole cure e doveri – ed ora era quieta, ora attiva – finchè, d'improvviso, la mano di Dio le ha fatto un cenno – e quella soave fronte bianca è tutto ciò che resta di lei.
“Ah! (egli dice sottovoce alla morta, nel crepuscolo della verginale cameretta) è dunque troppo tardi, o Evelyn Hope? E che? la tua anima era pura e vera; i benefici astri avean versato su te le più divine influenze, eri fatta di anima e di fuoco, di rugiada e di luce; e perchè io avevo tre volte i tuoi anni, e i nostri sentieri divergevano così staccati nel mondo, mi si dirà che non eravamo nulla l'uno per l'altro, che eravamo compagni mortali e niente di più?.. No, in verità! Poichè Dio ha creato l'amore per ricompensare l'amore, io ti reclamo, o Evelyn Hope, io reclamo il tuo amore in nome dell'amor mio. Potrà essermi ritardato ancora per altre vite, tra vari altri mondi che io dovrò traversare… Molto avrò da imparare, molto da dimenticare, prima che arrivi il tempo di possederti. Ma quel tempo verrà, – alla fine verrà – quando io saprò che cosa voleva dire, nel basso pianeta della Terra, in anni tanto remoti, quel tuo corpo ed anima così puri e lieti… indovinerò perchè i tuoi capelli avevano il colore dell'ambra, e la tua bocca era rossa come i tuoi gerani; e: ho vissuto (ti dirò) ho vissuto tanto da quel tempo, o Evelyn Hope, ho conquistato i guadagni di varie esistenze, ho profittato di tanti secoli, ho provato ogni ora e ogni clima: ma una cosa sola sentivo sempre, in fondo all'anima, che mi mancava, e che io le mancavo: e sempre ti ho sospirata, e ti ritrovo, e sei mia!
“Intanto, per ora, silenzio… Io ti dò a serbare questa foglia: vedi, io la chiudo dentro la tua soave gelida mano – così!.. Questo è il nostro segreto: dormi ora in pace – più tardi, ti sveglierai, e ti ricorderai, e intenderai.„
················
Questo mistico concetto, intravisto dai vecchi savi d'Oriente – vagheggiato da Platone – cantato da alcuni poeti del secolo XIII e XIV – illustrato da Pico della Mirandola e altri Platonici del secolo XV – e ripreso ed espresso ripetutamente da Gœthe e da Schelling, da Gian Paolo e da Novalis, e recentemente da Roberto Browning – se non è cristianamente ortodosso, non contradice nemmeno al concetto fondamentale del Cristianesimo; ed è un'idea altamente poetica e consolante. Ed a momenti, ci par più che possibile questa scala di vite, queste ascensioni dell'anima in altri mondi. I mondi di cui Dio ha popolato lo spazio son tanti! Settant'anni di prova parrebbero troppo pochi per l'anima umana che ha aspirazioni infinite. Se fosse vero!.. Passata la gioventù, ci rimarrebbe tra le ceneri del fuoco della passione, l'oro della esperienza – e la vecchiaia sarebbe un prepararsi, ammaestrati dal passato, al futuro: a mettere in atto quel che qua s'era a mala pena imparato; a leggere ciò che a fatica si compitava; a dire ciò che a stento si balbettava quaggiù… Tutto quello che non potemmo essere sulla Terra – ed a cui pur ci sentivamo nati – tutto quello che era in noi e che il mondo ignorò – la poesia muta, l'amore soffogato, il momento fatale perduto, tutto avrebbe un giorno, altrove, azione e sviluppo, compimento e successo. Sarà un sogno del misticismo, ma convenite che è un sogno sublime.
L'anima umana, o signori, è una e identica in tutti i tempi. La rêverie religiosa della “ascosa vergine„ d'oggi, è simile a quella di santa Matilde – e la suora di carità del secolo XIX prova nel suo tranquillo ed eroico apostolato, quel che provava santa Elisabetta d'Ungheria. Il giovine appassionato che oggi per possedere l'amata donna affronta e vince i più ardui e lunghi ostacoli, è fratello di quel Giacobbe che per amore soffriva in silenzio e volontariamente serviva. La Fede e l'Amore, nei loro entusiasmi e nelle loro aspirazioni, nelle loro lacrime desolate e negli estatici sorrisi, vivono eterni: e il misticismo, inteso nella sua più larga e comprensiva espressione, cesserà solo con l'ultimo palpito dell'ultima creatura umana.
IL PETRARCA
DI
ADOLFO BARTOLI
Accorrevano festanti gli esuli Bianchi a Pisa, incontro al biondo Arrigo; ed era tra quegli esuli un uomo, che traevasi dietro la moglie e due figli ancora in tenera età. Uno di quei fanciulli vide un giorno, forse nella casa paterna, un altro esule, non vecchio ancora, ma sul cui volto dovevano le lunghe speculazioni, i pensieri profondi, gli acuti dolori, avere impresso segni indelebili.
Furono così per un momento in cospetto l'uno dell'altro Dante Alighieri e Francesco Petrarca: il passato e l'avvenire della letteratura italiana, il ferreo uomo che percorse la vita, avvolto tutto ne' suoi disdegni, nelle sue ire, nelle sublimi fantasie dell'anima eccelsa, il poeta terribile che scolpì il medioevo e lo chiuse; e l'uomo irrequieto, lo spirito ondeggiante e soave, il dotto evocatore dell'antichità pagana, il poeta delle grazie e dell'amore, che sorgeva nunzio di nuovi tempi. Il nume spariva e gli succedeva l'uomo. Con Francesco Petrarca noi entriamo in un periodo nuovo del pensiero e dell'arte. Con lui e per lui tramonta un'età, e si affaccia all'orizzonte della storia il primo uomo moderno. Guardiamolo per un momento, spingiamo il nostro sguardo nei ripostigli della sua vita. L'irrequietezza è uno dei caratteri più spiccati di lui. Egli stesso confessa che in nessun luogo può trovare riposo, che sente sempre in sè qualche cosa d'insoddisfatto. Nessuno più di lui ha sospirato la quiete, nessuno l'ha mai trovata meno di lui. Se sta fermo in un luogo vorrebbe viaggiare; se viaggia vorrebbe riposarsi; se è solo desidera di aver compagnia; se ha compagnia invoca la solitudine; se è chiamato ad alti uffici, li ricusa sdegnoso; se gli pare di essere dimenticato, ne muove lamenti infiniti. Ogni più lieve pericolo lo sgomenta, ogni minaccia di sventura lo atterrisce. Dice che sa adattarsi facilmente ad ogni luogo, e poi non c'è luogo in tutto il mondo che gli piaccia. Disprezza le ricchezze e le desidera, invoca la morte e ha paura dei fulmini; oggi è umile, domani orgoglioso; un giorno scrive da asceta, un altro da pagano: insomma è una natura instabile, irrequieta, innamorata della virtù e cupida dei piaceri, intenta sempre a raggiungere le più alte cime dell'idealità e sempre estenuantesi di forze nell'arduo viaggio; un precursore, come ha detto il Quinet, di Renato o di Werther, un lontano antenato di tutti noi moderni ammalati d'isterismo e di nevrosi.
Qualche cosa del vecchio mondo resta ancora nel suo spirito; a quando a quando il misticismo lo invade, e in quei tetri momenti scrive libri che paiono usciti dalla penna d'un santo, tutto invasato dell'amor divino. Ma sono intermittenze, non altro; sono contradizioni anche queste; certe notti, egli narra, piangente nel suo letto, terrificato dal pensiero della morte, madido di sudore, chiede a Dio misericordia, recita i salmi penitenziali; si batte il petto; e poi, al primo raggio di sole che batte alla sua finestra, dimentico dei suoi terrori notturni, saluta i bei capelli d'oro all'aura sparsi. E questi due momenti della sua vita sono in antitesi tra loro, ma sono naturali ambedue. Nella storia interiore del suo pensiero, nei suoi affetti, nelle sue opere, egli si mostra sempre diviso tra desiderii diversi, tra diverse speranze, tra diversi bisogni, costante solo nella propria incostanza, fermo solo nella propria mobilità.
Ma intanto i più fervidi amori scaldano il suo petto. E primo di tutti l'amore alla patria. L'italianità è nel Petrarca profonda. Io, egli dice, fino dagli anni giovanili amai tanto l'Italia, quanto nessuno l'amò dei miei coetanei. Essa pare a lui la parte più felice del mondo, la più famosa, la più bella. I laghi, i fiumi, i monti, i campi, le valli, tutto di lei lo innamora; un giorno dalle cime del monte Gebenna egli, rivedendola, la saluta commosso con uno dei suoi carmi più ispirati, la saluta cara e santissima terra, patria delle muse, maestra del mondo. Finalmente, esclama, io faccio ritorno a te, finalmente ti riveggo, un'aura serena mi batte in viso, l'aere tuo mi accoglie; sento la patria ed esultante la saluto: salve, bellissima madre, salve, gloria del mondo. Al cuore del Petrarca è tormento continuo vedere quante divisioni, quante guerre fratricide affliggono la patria. Ai Genovesi e ai Veneziani, combattendo tra loro, ricorda che gli uni e gli altri sono Italiani, e grida che cessino dalla guerra fratricida, e che congiunte le armi ultrici le rivolgano contro gli stranieri e perfidi istigatori delle loro discordie. Se alcun rispetto serbate al nome latino, egli scrive, ricordatevi che sono fratelli vostri coloro alla cui rovina movete. Vorremo noi dunque opprimerci sempre da noi medesimi, vorremo sempre dare spettacolo al mondo delle nostre miserie? Non vorremo mai ristarci dal chiedere aiuto a chi ci sgozza? Oh, lo dirò pure a voce alta, tra gli infiniti errori degli uomini, non c'è errore più pazzo del nostro, che essendo Italiani spendiamo tant'oro per procacciarci i distruttori d'Italia! La parola del poeta tuona terribile contro le milizie mercenarie, contro la scaduta arte militare. Egli piange che tutto si corrompa e si guasti tra noi, che fatti degeneri nella lingua, nei costumi, nelle vesti, nel tenor della vita, ci adoperiamo noi medesimi in pace e in guerra a fare dell'Italia una terra selvaggia di crudeltà e di barbarie. Ogni sventura italiana, ogni dolore della patria trova eco in quel nobile petto. Il suo entusiasmo di poeta, la sua eloquenza di oratore invocano sempre un'Italia grande, libera, potente, un'Italia degli Italiani, unita, concorde, maestra un'altra volta al mondo di virtù e di sapienza.
E coll'Italia egli ama Roma. Quando per la prima volta nel 1336 il Petrarca pose piede entro quelle auguste mura, tale fu il grido che gli uscì dalle labbra: – Non più ora mi meraviglio, che da tale città fosse il mondo intero domato, ma mi meraviglio anzi che fosse domato così tardi. Roma appariva al Petrarca sotto un duplice aspetto, come la città regina ove nacque e trionfò Scipione, e come la città insieme che tiene in terra le voci del cielo, piena delle ossa dei martiri, bagnata del sangue dei testimoni del vero. Così le due Rome si confondevano nel suo affetto: ora egli passeggia estatico per la via Sacra e pel Campo Marzio, ora s'inchina al luogo ove crede che san Pietro fosse crocifisso. Qui contempla l'arco e il portico di Pompeo, qui ripensa che Cesare trionfò, che Augusto vide a sè prostrati i re del mondo; più in là si ricorda che fu troncato il capo a san Paolo, che furono bruciate le carni a san Lorenzo.
L'Italia e Roma furono per il Petrarca due ideali, non disgiunti nè disgiungibili, i due ideali a cui forse si mantenne più affezionato e fedele, quelli, che tra le fortunose vicende della sua vita non ebbero mai tramonto nel suo cuore.
Con tutto questo però guardiamoci bene dal chiedere a lui qualche cosa al di là del sentimento. Appena dalla regione degli affetti discendiamo alla pratica, noi lo vediamo come travolto in un turbine di contraddizioni.
Egli esalta Roberto d'Angiò, egli sente per lui amore ed entusiasmo, senza ricordarsi che era stato codesto capo de' Guelfi, che aveva indotto il papa Clemente V a trasportare la sede del Papato in Avignone: onde, mentre scrive che re Roberto è illustre, è divino, è magnanimo, è sapiente, è il Re dei Re, con la stessa penna getta giù le più roventi parole contro la cattività avignonese.
Egli vagheggia con Cola di Rienzo la restaurazione della Repubblica Romana; e poi si fa caldeggiatore della restaurazione dell'Impero con Carlo IV, mentre non aveva avuto una parola sola di simpatia per l'impresa di Giovanni di Boemia.
Egli, entusiasta del tribuno, è amico dei Colonna, suoi fieri avversari; e sebbene amico dei Colonna, grida che bisogna strappare dalle mani dei nobili la tirannide di Roma. Egli prende parte pei signori di Correggio traditori degli Scaligeri, e quando Jacopo Bussolari tenta di rivendicare i diritti del Comune di Pavia contro i Visconti, si fa riprenditore severo di lui per difendere quei Visconti, che erano stati i più ostinati nemici del suo Roberto e del suo Carlo di Lussemburgo. Egli vagheggia il più sublime ideale di principe, lo vuol giusto, amorevole, paterno, clemente, e poi vive alla Corte Viscontea e loda e chiama magnanimo il Galeazzo della feroce quaresima. E tutto questo deriva dal fatto che il Petrarca non sapeva mai distinguere il mondo reale dal mondo dei suoi affetti e delle sue idee. Egli vedeva tutto a traverso le proprie subitanee impressioni, e da queste impressioni si lasciava sempre come docile fanciullo condurre. Non fu mai un uomo di Stato, non fu mai un politico, non professò teorie, non escogitò mai sistemi. Amò l'Italia e Roma di amore grande, ma sempre platonico.
E l'amor all'Italia ed a Roma si ricongiunse in lui a quello per la classica antichità.
Lo spirito umano, che agonizzò nei tempi di mezzo, ebbe bisogno per riacquistar nuove forze di andarle ad attingere al mondo antico; e questo ritorno all'antichità determinò lo sviluppo di un nuovo periodo storico, che dura in parte anche oggi. Il Rinascimento ebbe anch'esso i suoi precursori, ma il primo uomo nel quale apparisca già trionfante è il Petrarca.
In lui per la prima volta sentiamo destarsi l'odio contro la vecchia scolastica, e chiamare coloro che la professano una nuova razza di mostri armata d'entimema a due tagli. Egli aborre e disprezza tutto il fardello scientifico del medio evo. Per lui non esiste altro amore che quello dell'eloquenza e della poesia. La bellezza della forma antica lo affascina e fa ogni sforzo per riprodurla nelle sue opere. Il suo ideale è Cicerone, ch'egli cominciò ad amare e a studiare fin da fanciullo.
E quest'amore crebbe cogli anni, e durò fino all'estrema vecchiezza. Egli dice di sentire il proprio ingegno conforme a quello dell'amato scrittore, che a tutti gli altri antepone, ne esalta la eloquenza, ne copia di sua mano alcune opere, se ne fa un compagno indivisibile della vita. La passione per gli scrittori dell'antichità diventa in lui sempre più intensa col progredire degli anni. Ne' suoi viaggi egli è ognora alla ricerca di vecchi manoscritti, e agli amici raccomanda che frughino dappertutto per trovargliene; e così mette insieme una raccolta di opere pei suoi tempi meravigliosa. Per lui nessuna vergogna pareggia quella di non amare l'antichità. E da questo amore agli scrittori classici deriva quell'alta idea che egli ha della perfezione letteraria, quella incontentabilità che gl'impedisce sempre d'esser pago di ciò che ha scritto. Alla mente del Petrarca si affaccia continuo il pensiero della gloria, ed è per lui, dice il Voigt, inebriante l'idea d'esser ricordato dopo secoli, e di trovarsi a lato dei grandi scrittori antichi.
L'uomo medievale alla gloria non pensò; unica gloria per lui desiderabile era quella del cielo. Sentirne dunque nuovamente il desiderio è uno dei caratteri de' tempi nei quali lo spirito umano rinasce alla vita, ed anche da questo lato per conseguenza il Petrarca ci appare uomo moderno.
Certo quel desiderio fu in lui spesso circondato da mille vanità puerili. Questo rientra nei difetti che egli ebbe e che non furono pochi. Ma intanto il pensiero della gloria gli è eccitamento continuo a nuovi studi, a nuove fatiche, a una sempre maggior perfezione. Egli è il primo ad abbandonare lo stile donnesco e snervato de' vecchi, e lo sa e se ne vanta. Egli è il primo che torni allo studio del greco, che riesca a possedere un Omero. Egli pensa a far raccolta di gemme e di monete, sente l'importanza della correzione dei codici, sceglie e ordina i suoi scritti, si dirige ai posteri narrando loro la propria vita. Tutto ciò è nuovo, è inaspettato, è moderno.
Come nuovo e moderno è il fatto delle relazioni nelle quali si mette il Petrarca col mondo esteriore. Egli viaggia per vedere cose nuove e per divertirsi; viaggia per mille luoghi, nel Belgio e nella Svizzera, in Francia, in Ispagna, fino sulle coste del mare Britannico, ma interrogando sempre la storia, e portando dovunque vada la serietà del suo spirito investigatore. A Napoli visita i luoghi descritti da Virgilio; ad Aquisgrana si fa narrare una leggenda di Carlomagno, e dice di non crederci; a Colonia si compiace nello spettacolo delle donne che si lavano nel Reno; sulle coste inglesi cerca il luogo dell'antica Tule. Il Petrarca vive oramai nella realtà delle cose. Poco rimane in lui del sonnambulismo medievale, in lui già sono le serene aspirazioni ad un concepimento più umano della vita e in qualunque cosa egli scriva sa trasfondere una particella di sè, dei suoi sentimenti, delle sue impressioni, dei suoi pensieri. Lo scrittore medievale colla sua fredda e monotona impersonalità par già lontano di secoli.
Vedete: egli scrive un lungo poema latino dove celebra Scipione Africano, un poema che, malgrado i molti difetti, è pure un miracolo di lingua e di stile, ma che ci lascia freddi per il suo contenuto, non essendo in gran parte che una versificazione delle storie di Livio. Ebbene, quando noi leggiamo in quel poema descritte le bellezze di Sofonisba, sentiamo subito che il poeta scrivendo ha pensato più che a Sofonisba ad un'altra donna, alla donna amata da lui; quando leggiamo i lamenti di Massinissa, Massinissa ci sparisce dagli occhi, e abbiamo innanzi il Petrarca che piange sull'amor suo. Quando il nostro sguardo corre sui versi dell'episodio di Magone, vicino a morte, quando sentiamo quel Cartaginese invidiare agli animali la loro sorte, preferibile a quella degli uomini, e proclamare che la vita non approda a nulla, che l'ottima delle cose è la morte: Mors optima rerum; allora noi siamo certi che qui è l'anima del Petrarca che parla, mandando il primo grido di quel dolore universale, che ha reso poi il cuore a tanti grandi moderni, e che ha trovato la sua più alta e profonda espressione in Giacomo Leopardi.
Vedete ancora: egli scrive un infinito numero di lettere, dove pare che l'erudizione affoghi spesso il sentimento. È ucciso, per esempio, a Paolo Annibaldeschi un figliuolo, e il povero padre cade, morto di dolore, sull'adorato cadavere. Che credete voi che del miserando caso scriva il Petrarca? Udite le sue stesse parole. “Il nostro Paolo perdette un figlio. Nulla è in ciò di singolare: Paolo il Macedone ne perdette due; Priamo che a tanti figli fu padre rimase solo. Ma questi a Paolo fu ucciso di ferro. Ebbene, che importa se di ferro, di fuoco, di naufragio, di febbre o di veleno si muoia? La morte è sempre la morte. Ma il figlio di Paolo morì giovanissimo. – E non è ciò naturale poichè giovane era anche il padre? Era questa forse una buona ragione perchè tanto ei dovesse dolersi?„ E qui seguita facendo al morto una lunga apostrofe e domandandogli come mai nell'atto ch'ei moriva di crepacuore non si è ricordato di Anassagora, di Pericle, di Catone, di Marzio, di Pulvillo e di non so quanti altri, che sostennero in pace la morte dei loro figliuoli. – Muore un altro suo carissimo, Franceschino degli Albizzi, e poichè egli è morto a Savona, il Petrarca fa una lunga e fiera invettiva contro quella città, tutta ridondante di citazioni e di reminiscenze classiche. – Per rallegrarsi colla moglie di Carlo IV, della figlia che le è nata, parla di Iside, di Carmenta, di Saffo, delle Sibille, di Pentesilea, di Tomiri, di Cleopatra, di Zenobia, di Lucrezia, di Clelia, di Cornelia, di Marzia. Per lodare lo scrivere elegante di un amico, lo paragona alle chiome di Cleopatra, e allo sguardo di Fedra. Per congratularsi con uno che si è ritirato a vivere in campagna gli dice che ove lo annoiasse il gracidar delle oche, pensi a quelle che salvarono il Campidoglio.
Sono queste, senza dubbio, puerilità; ma puerilità che hanno il loro alto significato. Quello sfoggio di erudizione, infatti, seminata così largamente, e, così spesso, fuor di proposito ci apparirà come una vittoria dello scrittore, che ha faticosamente riconquistata una parte della sapienza antica, e che, colla intemperanza, col fasto del nuovo ricco, ne imbandisce il banchetto agli amici, ai lontani, ai posteri. Così ogni più lunga filza di citazioni acquisterà il suo valore. E noi quindi non ci meraviglieremo più ch'egli studi, limi, corregga le sue lettere; che ne faccia altrettanti lavori letterari, altrettante mostre pompose della sua cultura. È questo un segno del rivolgimento che si sta operando nel pensiero umano. Ognuna di quelle piccole scritture è un passo di più mosso sulla via sacra del Rinascimento. Quella rettorica, che per noi oggi è cosa morta, era invece viva nel Petrarca, faceva parte del suo sentimento. Ognuna di quelle citazioni faceva battere il suo cuore di umanista. Ognuno di quei periodi accarezzati, studiati, elaborati, era come un saluto all'antichità, che stava sollevandosi dal sepolcro. Quelle sue ampollosità, quelle sue interminabili ciancie somigliano, come ha detto il Voigt, all'ingenua loquacità del fanciullo, che gode sentendo di acquistare l'uso della favella e parla per il gusto di parlare. Ma intanto sotto la sua penna la lingua latina riacquistava qualche cosa dell'antica eleganza, ed egli si educava all'arte, creava l'estetica del Rinascimento, e fondava, come ha detto il Villemain, una nuova potenza fuor della Chiesa e dello Stato, tutta morale, tutta moderna, la repubblica delle lettere. Anche un altro sentimento, che il medioevo completamente ignorò, comincia ad apparir nel Petrarca: l'amore alla natura, il desiderio di chiedere ad essa riposo dalle miserie della vita. Il suo pensiero corre con voluttà ai verdi prati, alle erbose rive dei fiumi, alla densa vôlta dei boschi: egli invidia coloro che possono non ascoltare altro che il muggito dei buoi, il canto degli uccelli, il mormorare dei rivi; che possono aggirarsi per le selve, pei colli, pei prati, benedice il soggiorno della campagna, si asside pensoso sulle rive deserte di un fiume, e sta là a contemplare il tremolio delle foglie de' pioppi, e si commuove del cicalio degli uccelli, e gode dei solenni silenzi delle foreste. L'amore della natura lo fa inerpicare sulle ardue cime del monte Ventoso, come gli fa scegliere per suo rifugio la solitudine di Valchiusa, donde non si scorgono che il cielo, le montagne e il sonante fiume della Sorga, e dove egli è felice di viver solo aggirandosi per gli aridi monti e per le roride valli, piantando alberi, coltivando fiori, tessendo ghirlande.
Pur troppo anche l'amore alla solitudine campestre ebbe nel Petrarca molte intermittenze. Tutto fu intermittente in lui. Ma intanto l'aver provato quel sentimento, l'essersi a quando a quando tuffato nel puro lavacro della natura, fu cosa tutta propria di lui, e fu una delle sorgenti delle sue ispirazioni poetiche.
Diceva Voltaire che se il Petrarca non fosse stato innamorato, sarebbe molto meno famoso di quel che non sia, ed aveva ragione. Delle molte passioni onde il suo spirito fu agitato, una sola è quella che ha fatto al suo nome traversare i secoli vittoriosamente, una sola quella che anche oggi rende quel nome caro a tutti gli animi nei quali vibra la corda della gentilezza e dell'amore.
Chi fu la donna che il Petrarca amò? Neppure oggi possiamo dirlo con piena sicurezza. Dopo tante indagini, dopo tante dispute, dopo tanto inchiostro sciupato, siamo sempre a fare delle supposizioni. Ma fra queste la più fondata è senza dubbio quella, che la donna amata dal nostro Poeta fosse la moglie di un nobile avignonese, Ugo De Sade, ch'ebbe da lei undici figli.
Sulla natura dell'amore del Petrarca molto si è scritto; chi ha voluto che fosse la più angelica delle passioni, chi la più bassa; esagerazioni ambedue. Il Petrarca era sicuramente uomo, nella più larga significazione della parola. Giovane bello, elegante, in una città come Avignone, dove la purità dei costumi lasciava molto a desiderare, ch'egli si mantenesse incontaminato non potremmo supporlo nemmeno, se non avessimo, come abbiamo, le prove del contrario. E che un tale uomo nel bollore di una passione amorosa vivesse sempre in un'aerea serenità di desideri sarebbe stolto il supporlo. No. Il Petrarca amò intensamente ed umanamente. Ma la donna amata da lui, gli apparve come donna e come angelo insieme; il cupido sospiro dell'amante si confuse spesso colla preghiera del devoto, le braccia che anelavano ai dolci amplessi, chi sa quante volte si ripiegarono contrite sul petto! L'amore del Petrarca, quale ci apparisce nelle sue poesie, è un fatto che si compone di elementi diversi e che sono non di rado in contradizione fra loro. Ora sembra che vaghi incerto e nebuloso nelle generalità insipide dell'arte trovadorica, ora invece si addentra nella più concreta realtà della poesia popolare; si compiace nelle più fini e profonde analisi psicologiche, o, trasvola alle idealità più aeree; è una realtà e un simbolo, è cosa umana e cosa divina, è gioia e tormento, è insomma una lotta e una contradizione continua. In una lettera scritta solo otto anni dopo l'incontro con Laura, il Petrarca dice che sentiva vergogna e tristezza dell'amor suo, e chiama questo amore tristo e perverso. E quando Laura morì, ringrazia Dio di aver fatto sparire dalla terra l'oggetto di un amore mortifero, e attribuisce all'aiuto di Cristo, l'avere spento l'incendio che lo bruciava. Incendio vero, badate, incendio che dovè qualche volta esser terribile, e per il quale egli stesso, il Poeta, nel libro più sincero che abbia scritto, dice di esser tutto converso in gemiti, di pascersi con voluttà di sospiri e di lacrime, di passar le notti vegliando e chiamando il nome della donna amata, di avere in odio la vita, di esser divenuto simile all'omerico Bellerofonte, che va divorandosi il proprio cuore. Queste parole del Secretum, del libro, nel quale il Petrarca fece a sè di sè stesso la confessione della propria vita, basta a renderne certi della realtà del suo amore. E non sono queste le sole. Altrove egli si lamenta che Laura, a malgrado di mille cose che avrebbero piegato ogni altra donna, sia rimasta inespugnabile. E dice di tutti i tentativi che ha fatto per guarire dell'amore suo. Come guarire però? Fuggendo forse? Ma non sono io fuggito, egli esclama, non ho forse girato l'Occidente a il Settentrione, non mi sono spinto fino ai confini estremi dell'Oceano? come guarire? Amando forse un'altra donna? Questo pensiero par che vada come cupamente agitandosi nelle profondità del suo spirito, ma ad un tratto gli esce dal cuore questo grido che ci commuove: ah no, ah no, io non posso amare che lei, lei sola; l'anima mia oramai si è abituata ad amarla, i miei occhi a guardarla fissamente, a ricevere vita da lei. Non amarla e morire sarebbe lo stesso. E pure tenta ancora di reagire contro sè medesimo e va crudelmente ricordandosi quanto sia cosa vergognosa esser divenuto la favola del volgo, quanto quella donna fatale abbia nociuto al suo animo e alla sua fortuna, quante volte sia stato da lei deluso, disprezzato, negletto; e la chiama la donna dall'ingrato sopracciglio, che se qualche cosa ebbe d'umano, ciò fu più breve e più mobile che aura di vento in estate, e si rimprovera che ella lo abbia allontanato da Dio, che gli abbia tolto ogni bene della vita, che non siasi mai curata del suo nome.