Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 23

Various
Yazı tipi:

Del resto il Giunta fu un grande pittore, e probabilmente iniziò Cimabue nell'arte sua. Nei pressi di Pisa abbiamo una antichissima chiesa forse del nono secolo, il San Piero in Grado. Essa fu costruita usando colonne e capitelli greci e romani, col materiale avventizio che probabilmente si trovava, come abbiamo detto, sparso nei dintorni di codesta località; certo che a quella chiesa i Pisani dovevano dare molta importanza, perchè la leggenda che a quella si collega che narra come san Pietro stesso, navigando per Roma, fosse da una tempesta gettato a codesto lido, e che quivi consacrasse la pietra dello altare, gli attribuisce un carattere molto nobile; di più, questa era la chiesa del porto, e le chiese dei porti in tutti i tempi ed in tutti i porti sono state inalzate con grande magnificenza e custodite con grande riverenza.

La chiesa del porto pisano è anteriore al San Paolo ed è la più grande e la più bella che i Pisani avessero prima del Duomo. Questo è un esempio singolarissimo – sul quale un nostro povero amico, Emilio Marcucci, grande indagatore delle cose di quell'epoca, si affaticava – della pittura murale, che costituisce parte integrante della architettura dello edifizio. Infatti la chiesa di San Piero in Grado, non è, come molte altre chiese posteriori, decorata di pitture murali, distese come arazzi simili a quelli che ornano le pareti di questa sala, delle grandi dipinture cioè che vanno da uno zoccolo poco rilevato dall'impiantito, del monumento che si vuole abbellire, fino alla vetta. La chiesa di San Piero in Grado ha gli archi policromi rossi e bianchi, ha fra gli archi delle decorazioni a colori, sopra la linea degli archi, dei piccoli tabernacoli disegnati con incipiente prospettiva, dentro i quali una sfilata con le immagini policrome di tutti i papi.

Sopra questa, un'altra piccola decorazione a rilievo (sempre dipinta), e, sopra, un'altra grande decorazione a scompartimenti, come generalmente si vedono ovunque, rappresentanti le storie del martirio di san Pietro; dopo queste, salendo, un ordine di finestre e di archi dipinti che non combinano nemmeno con le luci vere della chiesa; ed in queste finestre finte, che costituiscono un ordine di pilastri ed archi policromi vaghissimo, sono accuratamente dipinti gli impostoni di legno ora chiusi ora aperti ed ora socchiusi, e da questi ultimi fan capolino degli angeli, che dal di fuori al di dentro guardano nel Santuario; motivo graziosissimo quanto mai. Questo modo di decorazione è importante per questo, che senza le dipinture la chiesa mancherebbe della principale sua architettura. Questo è un principio generale, contrario a quello degli architetti moderni, che quando hanno costruito una mole qualunque chiamano il primo imbianchino che capita perchè ne faccia quello che li pare (e ciò sia detto fra parentesi).

Di Niccolò Pisano si è voluta impugnare la patria, inquantochè si è trovato un documento delli 11 maggio 1266 nel quale si dice che fra Melano, operaio del Duomo di Siena, Requisivit magistrum Nicholam Petri de Apulia, e siccome fu esso chiamato da re Carlo d'Angiò nel regno di Napoli, dove molte tracce del suo sapere lasciava, si è voluta rivendicare questa paternità alle provincie meridionali, e dalle parole de Apulia desumere che fosse pugliese anzichè pisano. Però il dotto cav. Fanfani Centofanti di Pisa, cercando ha trovato, che Pulia si chiama un sobborgo meridionale della città di Lucca e che esiste una Pulia, borgata Aretina, per cui è probabile che questo nome di Pulia venga da un luogo prossimo a Pisa o per lo meno toscano.

Che le opere principali di Niccolò siano fatte a Pisa, e che abbia vissuto in Pisa, risulta da molti documenti nei quali esso stesso si confessa pisano; esso dice, facendo delle ricevute all'operaio del Duomo di Siena: “Ricevuto pel pergamo io Niccolò Pisano della cappella di San Blasio„ determinando anche la parrocchia ove teneva domicilio. Del resto poi la dicitura Petri de Apulia potrebbe significare che non lui ma il padre suo Pietro fosse di Pulia. Lasciamo andare, è uno dei più grandi artisti che siano mai stati per la forza del sentimento. Le opere che fece sono moltissime.

Trovo qui negli appunti che nelle ricevute fatte da lui dal 26 luglio 1267 al 6 di novembre 1268 a fra Melano operaio del Duomo di Siena che per ben tre volte si sottoscrive: “Ego magister Nicolus olim Petri lapidum de Pissis popoli Sancti Blasii.

Egli oltre il pergamo del Duomo di Siena fece quello del San Giovanni di Pisa, l'Arca del San Domenico di Bologna, lavorò nel 1225 una Deposizione dalla Croce nel San Martino di Lucca, una Madonna con San Domenico per la Misericordia di Firenze e come architetto concepì e diresse i lavori del convento e della chiesa dei Domenicani di Bologna, del palazzo degli Anziani di Pisa, che era dove ora è la scuola normale, sulla piazza de' Cavalieri, fece in Pisa la chiesa e il campanile di San Niccola, la chiesa del Santo a Padova, il San Jacopo a Pistoia, la Santa Margherita a Cortona, la chiesa de' Frari a Venezia e la elegantissima nostra Santa Trinità. Ad Orvieto, coadiuvato da fra Guglielmo, scultore dell'ordine dei Domenicani, lavorò i bassorilievi del Duomo, circa i quali il padre Della Valle, scrittore dell'epoca barocca (e questo va tenuto a mente perchè i barocchi dispregiavano le sculture de' tempi primitivi), si esprime così: “E il marmo dei due bravi Pisani maneggiato con grande eccellenza mi parve parlante, imperioso.„

Questo imperioso io lo trovo bellissimo, inquantochè prova come questi artisti, ad onta della differenza del secolo nel quale lo scrittore parlava di loro, fossero così potenti da imporsi, tanto imperiosamente, che la differenza di scuola non influiva affatto perchè fosse giocoforza riconoscerne la eccellenza. Ora quest'arte che s'impone, che, attraverso i secoli ed i gusti, rimane sempre eccellente, bisogna convenire che è l'arte perfetta, grande per quella virtù dell'anima che il Savonarola ci dice.

Giovanni lavorò quanto il padre, e forse più; fu, come già vi ho detto, l'autore del celebre chiostro del Camposanto di Pisa, lavorò con Andrea e Nino a quel gioiello che è la chiesa di Santa Maria della Spina; e qui voglio affacciare alla mente vostra come le memorie della passione di Cristo e della redenzione del genere umano, si colleghino alla vecchia storia delle crociate pisane. In questa chiesa della Spina si conserva la reliquia di una spina della corona posta in capo a Gesù Nazareno portata anch'essa di Terra Santa, e da questa tradizione si inspirò la bella statua della Madonna che al bambino Gesù, che tiene in collo, porge una rosa. L'arca altare di San Donato in Arezzo è pure lavoro di Giovanni Pisano, e vorrei che voi poteste vedere il restauro e la interpretazione di codesto lavoro fatto dal già rammentato mio amico Marcucci, per capire a quale eleganza sarebbe arrivata quell'opera che rimase incompiuta nelle mani dell'artefice pisano. A quest'arca insigne con Giovanni Pisano lavorarono degli artefici tedeschi, che poi andarono al servizio di papa Bonifazio VIII, che se ne servì lungamente in varie opere, che ora è inutile stare a descrivere. Questo però vi faccia capire come l'arte avesse carattere universale e di una continua corrispondenza di idee da un capo all'altro di Europa. Quando avessi occasione di parlarvi dei primordi dell'arte in Germania, vi farei vedere come l'arte nostra è stata trasportata colà: ci sono alcuni monumenti, alcune sculture che dimostrano questa parentela, questa frammassoneria del genio che dilaga dalle nostre sponde in tutti i climi ed in tutti i paesi.

Nel 1283, Giovanni, chiamato da re Carlo a Napoli, edifica il Castel dell'Uovo; nel 1302 lo vediamo a Carrara per provvedere i marmi per il pulpito nuovo del Duomo di Pisa, assiste alla loro estrazione e ne cura lo imbarco alla spiaggia. Nel terzo pilastro del lato meridionale della Primaziale di Pisa si legge: In nomine Domini amen. Borgogno di Fado fece fare lo perbio nuovo lo quale è in Duomo cominciati corente ani Domini 1302 fu finito in ani Domini corente 1311 del mese di Diciembre.

Pur tuttavia per una scoperta fatta nel 1865 di una iscrizione nello zoccolo dell'ultimo pilastro a destra della facciata del Duomo dove si legge: † Sepoltura Guglielmi magistri qui fecit pergum Sancte Marie, si crede che non sia opera originale di Giovanni Pisano il pergamo di Pisa. Questa opinione però è contestata da dei fatti: primo il carattere della detta iscrizione che non è dell'epoca di Giovanni Pisano, e poi se è detto che Borgogno fece fare un pulpito nuovo pel Duomo, ciò indica che ce n'era uno vecchio; nè è possibile che una chiesa, finita già molti anni avanti, fosse priva del pergamo. Quindi, o che l'autore del vecchio pergamo fosse questo Guglielmo o che la parola pergum vada interpretata diversamente, certo si è che, guardando ai resti, si riconosce evidentissima la maniera scultoria assoluta e decisa di Giovanni Pisano. Questo pergamo fu disfatto e rovinato dopo che la cattedrale di Pisa ebbe a soffrire d'incendio nel 1596, incendio terribile al quale dobbiamo se si persero le belle porte antiche che decoravano la facciata. Le origini di questo incendio furono identiche a quelle che hanno incendiato il Duomo di Siena recentemente. Una padella di stagnino, destinata a servire per i restauri del tetto di piombo, attaccò il fuoco alle travi e fu cagione di questo grave disastro. Però, come il pulpito di Niccolò a Siena, così questo di Pisa ebbe la fortuna di rimanere illeso dai rottami che cadevano dal tetto. Quello che il fuoco non aveva fatto lo fece però la insipienza dei preposti dell'opera in tempi posteriori; il pulpito fu disfatto perchè incomodo, disperse molte sue parti e con alcune rabberciato come oggi si vede. Si deve ad un bravo uomo di Pisa, Giuseppe Fontana, intagliatore amantissimo delle glorie artistiche della città sua, se con una pazienza da benedettino è andato cercando più qua e più là nei giardini privati e nel Camposanto urbano tutte le parti del vecchio pulpito. Queste parti ci sono, esso le ha misurate, sono proprio quelle, le ha rimesse insieme e facendo la proporzione in diminutivo, costruì in legno di sana pianta il modellino del pulpito come esso dovrebbe essere; e se voi andando a Pisa visitate la interessantissima pinacoteca del comune che i Pisani tengono però abbastanza male, troverete il modello di codesto pulpito; vedrete che è una delle più belle concezioni dello spirito degli architetti e scultori pisani. Lì, come in tutte le altre opere loro, l'anima si eleva meravigliosamente, e crea delle linee d'insieme d'una eleganza superba.

Quando Niccola e Giovanni avevano già empito il mondo della loro fama, ser Ugolino, figlio di Nino tabellione di Pontedera, battezzando il figlio col nome di Andrea, segnò la nascita del capostipite di una famiglia di artisti poderosissimi. Esso lavorò, come ho già detto, alla chiesa della Spina, costruì il castello di Scarperia, andò a Venezia e lavorò a varie statue del San Marco e prese parte come ingegnere alla costruzione dell'Arsenale. Prima del 1316 modifica e munisce la cinta delle mura di Firenze e ne costruisce il pezzo che da Porta a San Gallo andava alla Porta al Prato, edifica il torrione della Porta San Frediano, da dove miseramente dovevano dopo, in tempi più funesti, transitare i prigionieri della patria sua. Fu amicissimo di Giotto, mandò per suo mezzo una croce di bronzo al papa ed ebbe quindi, e forse per l'eccellenza di codesto lavoro riconosciuto dai Fiorentini, l'incarico della costruzione della porta maggiore del Battistero fiorentino, alla quale lavorò per ventidue anni. Essa è quella che guarda ora il Bigallo, gareggiando per lo ingegno e per la bellezza, con quelle di Lorenzo Ghiberti. Nel 1317 lavorò a Pistoia, servì Gualtieri duca d'Atene in molte costruzioni e forse anche nel Palazzo Vecchio nostro, ma non per questo cadde in disistima dei Fiorentini, che anzi continuò ad essere, anche dopo la famosa cacciata, uno dei loro capimaestri; tantochè non solo gli dettero la cittadinanza, ma a settantacinque anni quando morì, lo seppellirono onorevolmente in Santa Maria del Fiore.

Fu ad Orvieto e vi scolpì una parte dei bassorilievi della facciata, lavorò alla facciata del Duomo di Siena ed alle formelle del campanile di Giotto; io vi suggerisco di non passare davanti al Duomo senza gettare uno sguardo su quelle formelle, quasi dimenticate, dove voi vedrete specialmente in certe figure rappresentanti l'Architettura e la Matematica, una tale intensità di sentimento, una tale giustezza di movenze dalla quale vi sarà dato arguire quale eccellente artista egli fosse specialmente per esprimere il senso intimo delle cose.

Da lui nacquero Nino e Tommaso, collaboratori nella chiesa della Spina, dove Nino scolpisce la Madonna col San Pietro a fianco, nel quale si dice che il figlio abbia ritratte le sembianze del padre. Più specialmente orafo fu Tommaso, che per commissione del doge dell'Agnello fece il sepolcro di Margherita sua moglie, sepolcro che fu distrutto nell'incendio del Duomo del quale vi ho parlato. Nel Camposanto di Pisa si vede una Madonna in bassorilievo, con quattro santi, con questa iscrizione: “Tommaso figliuolo di maestro Andrea fece questo lavoro et fu Pisano.„ Nino morì nel 1368 ed ebbe compagno di studio quel Giovanni Balducci che scolpiva l'arca di Sant'Eustorgio a Milano.

La scultura, come vi ho detto e avete capito, è largamente rappresentata dai Pisani, che lavorando in materia più duratura hanno potuto lasciare più larga traccia di sè, ma però molti furono anche i pittori, e, per non andar troppo per le lunghe, nominerò soltanto pochi ed uno fra questi principalmente.

Questo tale è l'autore di un ritratto di San Tommaso d'Aquino che si trova nella chiesa di Santa Caterina di Pisa. Codesta pittura è del 1345. Sopra un fondo di cielo stellato, le figure dei filosofi Aristotele e Platone, che stanno ai lati della gigantesca figura del Santo, sono di movenze così giuste, di espressione così esatta, che ci dimostrano che il Traini è certamente uno dei più grandi artisti della sua epoca. Di lui resta anche, nella galleria di Pisa, un San Domenico il quale è degno di stare a fianco del suo collega San Tommaso d'Aquino. Di Francesco Traini poche o punte, oltre questo, sono, che io sappia, le opere che si conoscono.

Jacopo di Niccola detto il Gara di Pisa pittore della scuola di Cimabue, è abbastanza insigne, ma quello che più importa è il Traini che si vuole compagno ed amico dell'Orcagna e che può stargli degnamente a livello.

Nel breviario pisano si fa menzione fino dal 1303 di un Upettino Pisano ottimo dipintore. “Nero Nellus me pinxit A. D. MCCIC„ stava scritto in basso di una Madonna in tavola ora irreperibile della chiesa di Tripalle. Bernardo Nello di Giovanni Falconi Pisano fu allievo dell'Orcagna, e dipinse nel Camposanto le storie di Giobbe, continuando Giotto; e Vicino Pisano fu maestro di pittura e musaico e lavorò nel Duomo, insieme al Gaddi e a Lorenzo Paladini.

Tutta questa grande epopea artistica si svolge in Pisa a' suoi tempi gloriosi, e termina colle sventure di questa illustre città. Noi troviamo, nei ricordi dell'epoca, che molti sono gli artisti che dal di fuori vengono a Pisa per lavorare, ma abbiamo già veduto che molti sono gli artisti pisani che vanno a lavorare in altre parti d'Italia. L'Orcagna lavora a Pisa, Giotto lavora a Pisa, fra Jacopo da Torrita, i Gaddi suoi scolari lavorano a Pisa, di più avete visto Niccola andare a Siena per il pergamo, là incontrarsi con altri e viceversa; cosa che ci dimostra che per quanto gravi fossero gli odii e le cupidigie che spingevano gli Italiani a dilaniarsi fra loro, la comunione del pensiero pure esisteva; in mezzo a queste grandi divisioni l'Italia intelligente lavorava collettivamente per un solo fine.

Difatti, accanto ai grandi artisti della squadra dello scalpello e della tavolozza, noi troviamo anche i grandi artisti della penna, esemplari insigni della lingua nostra, fra questi il Passavanti, il Cavalca ed il primo commentatore della Divina Commedia, Francesco da Buti. Questo è un fatto che deve grandemente consolare perchè fa rimontare l'origine della nostra fratellanza e della nostra comunione spirituale, come nazione, tempi molto antichi e diversi.

Oggi le catene, trofeo odioso che dai Genovesi furono involate al porto pisano, sono tornate nella quiete del sepolcro, segno di pace eterna e solenne, nel bello, nel santo Camposanto pisano, così sieno sepolte per sempre le discordie fra noi; imperocchè Pisa disgraziatamente si tacque quando fu vinta dal tradimento, quando fu vinta dalla sventura, quando Firenze le si sovrappose, la distrusse, la sperperò. Essa risorse a poco a poco al principio dell'età moderna e negli albori di una nuova filosofia, tutta umana, Pisa precorre le città toscane e ci dà Galileo. Così nel 1848 primavera sacra d'Italia (perdonate a me vecchio la quarantottata) manda la sua gioventù universitaria sui campi lombardi dove si affermava, con l'armi in pugno, con l'olocausto della vita, la liberazione della patria.

LA GRANDEZZA DI VENEZIA
DI
POMPEO MOLMENTI

Signore e Signori,

Io non posso oggi parlarvi, se non per incidenza, dell'arte veneziana. Nei tempi della grandezza veneta, lo storico non trova alla gloria dei fatti corrisponder quella delle arti di imitazione. Pure quei due secoli di gloria civile e guerriera hanno in sè tanta ideal luce di poesia da valer bene le opere del pennello e dello scalpello. Io vi discorrerò adunque le ragioni, per le quali a Venezia l'arte tardò ad apparire.

È noto che l'infanzia della singolare città fu piena di varî casi e di sanguinosi avvenimenti. Pure, allorchè la tirannide feudale fiaccava in altri paesi gli animi e gli ingegni, qui, con moti incomposti, se vuolsi, in lotte discordi, si rivendicavano col sangue la patria e l'esistenza, in questo remoto angolo d'Italia si tutelavano i diritti della libertà, prima ancora che sulle balze elvetiche balenassero i primi lampi d'indipendenza!

Alla torbida infanzia succede la gagliarda giovinezza di quella città, che ci ha dato, fra le rivolture italiane, il più alto esempio di libero reggimento, non contaminato per quattordici secoli da invasori stranieri.

È questo il periodo più glorioso della potenza veneziana. Le nebbiose congetture finiscono: incomincia la lucida certezza dei fatti. Cessa la triste notte delle ire e delle vendette, e già rosseggia dei crepuscoli mattutini la gloria del lavoro e della ricchezza. Questo fecondo lavoro, che smaglia le ire delle fazioni, fu veramente il blasone di famiglia del popolo veneziano.

Gli ultimi eredi del nome latino, spinti a salvamento fra le lagune dalla furia dei barbari, ignari di quella potenza morale, che portavano in sè e vigoreggiava nel cimento delle lotte, nell'attrito delle sventure aveano saputo, o validamente combattendo colle armi o destreggiandosi abilmente con arti sottili, allargare il dominio, rafforzare l'indipendenza, instaurare le leggi.

All'impero d'Oriente, a poco a poco si rivolgevano non più come soggetti, ma talvolta come salvatori, tal altra come fieri vendicatori di tradimenti e d'offese, sempre come eguali, ottenendone privilegi e franchigie. Debellarono i pirati e conquistarono l'Istria e la Dalmazia, facendo dell'Adriatico un mare italiano, mentre su tutti i lidi del Mediterraneo era rispettato e conosciuto il vessillo della Repubblica. Parteciparono alle crociate con fervore di credenti e con prudenza di mercadanti, ponendo un freno agli impeti dell'animo colle caute previdenze della ragione, e ottenendo in quelle imprese, generosamente irriflessive, vantaggi ai loro traffichi e quartieri proprî nelle vinte città, dove si reggevano con leggi veneziane. Nelle contese fra il Papa e il Barbarossa furono scelti a pacieri, e finalmente, nel 1204, essi, gli oscuri profughi della laguna, collegati ai più nobili signori d'Europa, piantarono il vessillo di San Marco sulle torri imperiali di Bisanzio.

*

Venezia prorompeva a questo tempo in mirabile amplitudine di vita. Ma intanto che i suoi dominii allargavansi e diveniva il più temuto stato d'Europa, si andavano per converso man mano restringendo gl'interni liberi instituti, quasi la gloria delle conquiste e l'accresciuta potenza esteriore richiedessero più salda unità di governo. Quindi, a impedire i voleri superbi di un potente, o i capricci mutabili della folla, s'instituì, verso la fine del secolo XII, il Maggior Consiglio, destinato ad assumere in sè ogni autorità popolare. E in pari tempo si accrebbero i Consiglieri del Doge, i quali formarono il Minor Consiglio, e si tolse al popolo l'elezione del Capo dello Stato, commesso invece ad undici elettori, scelti dal Consiglio Grande.

Durante il ducato di Pietro Ziani, dal 1205 al 1229, Venezia si raccoglie in sè stessa per rafforzare le ottenute conquiste e godere dei passati trionfi.

L'immenso e ricco bottino fatto a Bisanzio, la più lauta preda, al dire del Villehardouin, eroe e storico di quell'impresa, la più lauta preda dalla creazione in poi, era stato per gran parte trasportato a Venezia. Quei tesori, preziosi per arte e per valore, adornavano i pubblici edifici, scintillavano sugli altari, ma brillavano eziandio, con evidente contrasto, nelle modeste case dei rudi e forti guerrieri dell'Adriatico. Imperocchè al lusso s'era fino allora preferito l'utile. Si erano bensì eretti templi, che servivano al fasto e alla pietà, e la dimora sontuosa dei governanti provava la prosperità della patria, ma le private fabbriche conservavano la primitiva umiltà. Qua e là qualche palazzo di pietra, come quelli del Memmi, dei Molin, dei Quirini, dei Dandolo, ma intorno, casupole coperte di paglia, ponti di legno, campi erbosi, canali tortuosi e, per fondo, la melanconica distesa delle paludi.

Strana la rassomiglianza nelle vicende e nei destini dei popoli grandi! Anche Atene, fino ai tempi di Temistocle, vide alzarsi superba solo l'Acropoli, fra le case umili e basse, dimora d'eroi. E la povera abitazione di Temistocle e quella modesta di Milziade, ricorda Demostene nell'orazione contro Aristocrate, rimproverando a' suoi contemporanei d'innalzare palazzi eguali o superiori in bellezza ai pubblici edifizi.

A poco a poco i veneti isolani, fieri delle vittorie, orgogliosi per le ricchezze acquistate, non furono più contenti di vivere con quella modestia, che alla vita civile si richiede. Come più dall'antica semplicità si allontanavano, doveano, insieme colla brama di goder nel presente il passato, sentire il fastidio della patria umile e angusta.

Ad altri lidi tendevano gli animi ambiziosi, e fra le visioni degli antichi trionfi, e nella tristezza del soggiorno fra le lagune, sfavillavano come un sogno incantato il Bosforo e Bisanzio. Fra lo squallore delle paludi adriache s'era fondata la nazionalità, fra la luce dell'Oriente, in regioni gioconde, essa si sarebbe ben svolta in tutta la sua potenza. Le bellezze e le armonie del mondo antico avrebbero potuto ridestarsi al palpito di una vergine e giovane vita.

Non s'era forse maturata al sole d'Oriente la civiltà veneziana? I veneti lari avrebbero ben trovato un luogo degno sulle sponde dell'Asia, fra le ampie palme e i boschi di mirto. Le vigorose audacie di un popolo nuovo avrebbero potuto infonder vita alle squisitezze raffinate di una civiltà moribonda, e la Sirena antica dell'Asia avrebbe potuto, sulle rive scintillanti del Bosforo, accogliere fra le sue braccia la Najade delle lagune. Sarebbe stato doloroso, è vero, lasciar la patria, santificata dai dolori, dalle sventure, dalle lotte, dai trionfi, doloroso abbandonare il tempio dorato del Santo Patrono, intorno al quale si collegava qualche cosa più che non fosse un semplice simbolo religioso, una effusione di anime credenti, il tempio, che non rappresentava solo la fede, ma la patria.

Ma l'Evangelista non avrebbe trovato forse onore di culto e devozione di preghiere anche sotto l'immensa cupola di Santa Sofia, nel tempio meraviglioso, che aveva fatto esclamare al suo fondatore Giustiniano: Salomone io ti ho vinto?

Di tal genere, se non tali appunto, doveano essere i pensieri di molti veneziani, non abbastanza veneziani, da formare il proposito di trasportare a Costantinopoli la sede della repubblica.

Narra uno storico, Daniele Barbaro, come il doge Pietro Ziani, considerando li grandi e mirabili progressi che se avevano fatto in Levante, ghe venne pensiero, che se dovesse andar ad abitar in Costantinopoli, e in quella città fermar e stabilir il dominio dei veneziani. Che proprio al solo doge sia venuta questa idea c'è da dubitare, come è da dubitare (e i migliori scrittori non ne fanno alcun cenno) che tale questione si sia dibattuta in Maggior Consiglio e per un solo voto si sia deciso di rimanere a Venezia. Ma non è da revocare in dubbio che molti vagheggiassero di trapiantarsi sul Bosforo, per ragioni d'ambizione e d'utilità. La leggenda attribuì al doge, a questo capo di uno Stato trafficante e positivo, la difesa delle ragioni di pratica utilità e di maturo senso civile.

Il Doge, dinanzi al Consiglio, fece una triste pittura delle condizioni materiali di Venezia. Essa ci prova quali ostacoli si siano vinti per edificare poi una città di così meravigliosa bellezza. Il Doge disse come Venezia fosse continuamente esposta ai pericoli d'inondazione, ricordò le città vicine scomparse. Quando invece il mare lascia scoperte le secche il fetore è insopportabile. Quel che si consuma in città è portato tutto dal di fuori; nelle paludi non frumento, nè uva, nè legna, non si raccolgono altro che cappe, granzi et altri pesseti malsani e di cattivo nutrimento. Invece a Costantinopoli si sarebbe stati in un paese comodo, fertile, abbondantissimo, dotado de tutte quasi quelle gratie et quei doni che da Dio et dalla natura se possono maggiori desiderar

Alla prosa dell'utile, rispose la santa poesia della patria, che anche ai popoli più positivi ricorda come un paese non viva soltanto di dovizie e di commerci, ma sì anche di anima e di affetti. La tradizione incarna la religione della patria in un vecchio di molta autorità. Angelo Falier, procurator di San Marco, il quale rispondendo al doge rammentò come in quelle squallide paludi fossero morti e sepolti i padri, e vivessero i figli e le mogli e ogni cosa più caramente diletta.

Aggiunse la desolazione dei luoghi esser stata la causa della forza dei veneziani, spingendoli alla suprema principal industria: la navigazione. E molte altre nobili cose disse.

Rivoltosi poi – così un vecchio cronista, nella sua cara ingenuità – verso un'immagine di Gesù Cristo, con molto patetica preghiera invocò il suo patrocinio; e con le lagrime agli occhi smontò dalla bigoncia. Quinci ballottata la proposizione, di un solo voto venne deciso, e fu il voto della provvidenza, di non fare la proposta emigrazione.

Il voto della Provvidenza? E chi sa? Forse sarebbero nate altre sorti in Europa: forse la potenza musulmana, trovandosi dinanzi la gagliarda gente veneziana, invece che gli avanzi decrepiti dell'impero bizantino, si sarebbe infranta, nè lo stendardo di Maometto sarebbe sventolato sul Corno d'oro.

Ma, anche fra le lagune, Venezia si andava trasformando: un'altra società sorgeva e con essa nuove idee e nuovi sentimenti.

Mentre la luce dei Comuni andava in Italia estinguendosi e incominciavano le Signorie, e tra i papi, anelanti a fondare l'unità teocratica, e i cesari tedeschi, combattenti per la tirannide monarchica, ferveano contese, fra le venete paludi prosperava il più felice Stato della penisola.

Nè fra le prosperità il braccio svigoriva. Pel santo amore di libertà, che, oltre ad interessi commerciali, la stringeva di un vincolo morale ai Comuni italiani, ebbe Venezia gran parte nella prima lega lombarda; a distruggere l'oltracotanza feroce di Ezzelino da Romano, feudatario dell'impero, potè molto Venezia; a debellare i Genovesi, che per abbassare in Oriente la rivale, aveano patteggiato colla perfidia dei Paleologhi, ridivenuti imperatori di Costantinopoli, bastò Venezia; per conservare la supremazia dell'Adriatico contro le gelosie degli Stati confinanti, trovò forze Venezia, che allargò le sue conquiste in Dalmazia; alle scomuniche del papa francese Martino IV, che imponeva ai navigli di San Marco di allearsi coll'armata francese per combattere la guerra del Vespro Siciliano, non badò Venezia.

Nè tante imprese e tanti pericoli la distolsero dall'accorta serenità, con cui ella svolgeva l'elaborazione ultima de' suoi interni ordinamenti politici.

Alla fine del secolo XIII, nel governo veneziano succede una radicale riforma nelle instituzioni dello Stato: l'approvazione della legge proposta dal doge Pietro Gradenigo e comunemente conosciuta col nome di Serrata del Maggior Consiglio, giacchè chi non vi aveva appartenuto nei quattro ultimi anni non poteva più esservi ammesso.

Questa legge, che chiude il periodo democratico, portò anche nel vivere e nelle consuetudini un grande mutamento. I patrizî, che alla ricchezza avevano aggiunto ciò che ne è il compimento, la potenza, incominciarono a formare una casta a sè, lontana dal popolo.

*

Ma la riforma del Gradenigo era di lunga mano preparata.

Lo abbiam veduto: fin dal giorno in cui Enrico Dandolo, dopo la conquista di Costantinopoli, prese il titolo di Doge di Venezia, della Dalmazia e della Croazia, Signore di un quarto e mezzo dell'impero di Romania, un grande cangiamento era avvenuto nell'animo dei veneti maggiorenti. È vero: essi curavano più l'utilità della dignità e lasciarono ai Fiamminghi e ai Francesi il titolo imperiale, paghi di accrescere i privilegi commerciali. Anche non chiesero vastità di possedimenti, ma sì, con pratica accortezza, una linea di terra, che dalle isole Jonie costeggiava e dominava tutto il mare fino alla Propontide. Pure, dopo tanta gloria d'imprese, gli animi si cullavano in un compiacimento a cui, come abbiamo detto, non erano estranei il desiderio delle sontuosità di una vita mondana e il sentimento del bello. Infatti Venezia si foggia novellamente.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
13 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

Bu kitabı okuyanlar şunları da okudu