Kitabı oku: «Tuareg», sayfa 2
Comparvero davanti alla sua jaima una mattina. Il vecchio era alle soglie della morte e il giovane, che lo aveva trasportato sulle spalle gli ultimi due giorni, riuscì appena a sussurrare qualche parola prima di cadere svenuto.
Ordinò che preparassero per loro la migliore tenda e i suoi schiavi e i suoi figli li assistessero giorno e notte in una disperata battaglia per ottenere, contro ogni logica, che rimanessero nel mondo dei vivi. Senza cammelli, senza acqua, senza guide e non appartenendo a una razza del deserto, sembrava un miracolo dei cieli che fossero riusciti a sopravvivere al pesante e denso scirocco degli ultimi giorni.
Era più di una settimana, per quello che riuscì a capire, che vagavano senza direzione tra le dune e le pietraie, e non seppero dire da dove venivano, chi erano, né verso dove si dirigevano. Era come se fossero caduti improvvisamente da una di quelle stelle fuggenti e Gacel fece loro visita mattina e sera, incuriosito per il loro aspetto di uomini di città, per i loro vestiti, così inadatti per attraversare il deserto, e per le incomprensibili frasi
che pronunciavano tra i sogni in un arabo così puro ed educato che il targui riusciva appena a decifrare.
Infine, la sera del terzo giorno, trovò sveglio il più giovane, che immediatamente volle sapere se si trovavano ancora molto distanti dalla frontiera.
Gacel lo guardò sorpreso. «Frontiera?» ripetè. «Quale frontiera? Il deserto non ha frontiere, almeno che io sappia.»
«Comunque ci deve essere una frontiera», insistè l’altro. «È qui da qualche parte.»
«I francesi non hanno bisogno di frontiere», gli fece notare, «dominano il Sahara da un estremo all’altro.»
Lo sconosciuto si sollevò su un gomito e lo osservò meravigliato.
«Francesi?» domandò. «I francesi sono andati via da anni. Adesso siamo indipendenti», aggiunse, «il deserto è formato da paesi liberi e indipendenti. Non lo sapeva?»
Gacel meditò alcuni istanti. Qualcuno, una volta, gli aveva detto che, molto al Nord, si stava dichiarando una guerra perché gli arabi volevano liberarsi dal giogo dei rumis, ma non aveva prestato attenzione al fatto, perché quella guerra veniva dichiarata da quando suo nonno aveva memoria. Per lui essere indipendente era vagare da solo per il suo territorio e nessuno si era scomodato per andargli a dire che apparteneva a un nuovo paese.
Negò con un gesto. «No. Non lo sapevo», ammise confuso. «E neanche sapevo che esiste una frontiera. Chi è capace di tracciare una frontiera nel deserto? Chi evita che il vento porti la sabbia da una parte all’altra? Chi impedirà che gli uomini la attraversino?»
«I soldati.»
Lo guardò sorpreso. «Soldati? Non ci sono abba stanza soldati nel mondo per proteggere una frontiera nel deserto. E i soldati lo temono.» Sorrise appena sotto il velo che nascondeva il viso che non scopriva mai quando si trovava davanti a estranei. «Solo noi, gli imohag, non temiamo il deserto. Qui i soldati sono come acqua versata: la sabbia se li ingoia.»
Il giovane voleva parlare ancora, ma il targui gli disse che era molto stanco e lo obbligò a distendersi sui cuscini.
«Non ti sforzare», lo pregò. «Sei debole. Domani parleremo e forse il tuo amico starà meglio.» Si voltò a guardare ‘l’anziano e per la prima volta notò che non doveva essere tanto vecchio come aveva creduto all’inizio, anche se i suoi capelli erano bianchi e radi e il suo viso appariva solcato da profonde rughe. «Chi è?» domandò.
L’altro esitò qualche istante. Chiuse gli occhi e bisbigliò:
«Un saggio. Studia la storia dei nostri antenati più remoti. Ci stavamo dirigendo verso Dajbadel quando il nostro camion si ruppe».
«Dajbadel è molto lontano», gli fece notare Gacel; ma il giovane era caduto in un sonno profondo. «Molto, molto lontano, verso il Sud. Non sono mai arrivato fino a lì.»
Uscì senza far rumore e all’aria aperta provò una sensazione di vuoto allo stomaco che mai aveva provato, come un presentimento. Qualcosa in quegli uomini apparentemente inoffensivi lo inquietava. Non erano armati né il loro aspetto faceva temere qualche pericolo, ma un alito di paura aleggiava intorno a loro ed era quella paura che lui percepiva.
«Studia la storia dei nostri antenati», aveva detto il giovane, ma il viso dell’altro appariva marcato da segni di sofferenza così profonda che non potevano essere causati soltanto da una settimana di fame e di sete nel deserto.
Guardò la notte che si avvicinava e cercò in lei la risposta alle sue domande. Il suo spirito di targui e le millenarie tradizioni del deserto gli gridavano che aveva agito correttamente nelPaccogliere sotto il suo tetto i viaggiatori, poiché il sentimento dell’ospitalità costituiva il primo comandamento della legge non scritta degli imohag, ma l’istinto dell’uomo abituato a farsi guidare dai presentimenti e il sesto senso che lo aveva salvato tante volte dalla morte gli sussurravano che stava correndo un grave rischio e che coloro che erano appena arrivati mettevano in pericolo la pace che era riuscito a ottenere con tanto sforzo.
Laila andò vicino a lui e i suoi occhi si rallegrarono alla dolce presenza e alla prodigiosa bellezza adolescente della moglie bambina dalla pelle scura che aveva fatto diventare sua sposa anche contro l’opinione degli anziani che non vedevano di buon occhio che un mouchar di tanto nobile lignaggio si unisse legalmente con un membro della disprezzabile casta degli schiavi akli.
Gli si mise seduta accanto, lo guardò in faccia con i suoi immensi occhi neri, sempre pieni di vita e di riflessi nascosti, e domandò dolcemente:
«Ti preoccupano quegli uomini, non è vero?»
«Non loro», rispose pensoso, «ma qualcosa che li accompagna come un’ombra o un odore.»
«Vengono da lontano. E tutto ciò che viene da lontano ti turba, perché mia nonna ha predetto che non morirai nel deserto.» Allungò la mano timidamente fino a toccare la sua. «Mia nonna si sbagliava spesso», aggiunse. «Quando sono nata mi predisse un futuro tetro e invece mi sono sposata con un nobile, quasi un principe.»
Gacel le sorrise guardandola con dolcezza.
«Ricordo quando sei nata», disse, «non deve essere più di quindici anni fa. Il tuo futuro non è ancora cominciato.»
Gli dispiacque di averla intristita perché la amava e, anche se un imohag non doveva mostrarsi troppo tenero con le donne, era la madre dell’ultimo dei suoi figli, quindi aprì a sua volta la mano per stringere la sua.
«Forse hai ragione e la vecchia Khaltoum si sarà sbagliata», aggiunse. «Nessuno può obbligarmi ad abbandonare il deserto e a morire lontano.»
Rimasero a lungo in silenzio a contemplare la notte e sentì che la sensazione di pace lo pervadeva nuovamente.
Certo è che la negra Khaltoum predisse con un anno di anticipo la malattia che avrebbe portato suo padre alla tomba e predisse anche la grande siccità che prosciugò i pozzi, lasciò senza un filo d’erba il deserto e uccise centinaia di animali abituati da sempre alla sete e alla siccità, ma era anche certo che spesso la vecchia schiava parlava per parlare e le sue visioni sembravano più frutto di una mente senile che autentiche premonizioni.
«Che cosa c’è dall’altra parte del deserto?» domandò Laila dopo quel lungo silenzio. «Non sono mai andata oltre le montagne di Huaila.»
«Gente», fu la risposta. «Molta gente.» Gacel meditò ricordando la sua esperienza a El-Akab e le oasi del Nord e scosse la testa negativamente. «Le piace ammucchiarsi in piccoli spazi o in strette e puzzolenti case, gridando e agitandosi senza ragione, rubandosi e ingannandosi come bestie che sanno vivere soltanto in branco.»
«Perché?»
Avrebbe voluto rispondere, perché lo inorgogliva l’ammirazione che Laila sentiva per lui, ma non conosceva la risposta. Lui era un imohag nato e cresciuto nella solitudine dei grandi spazi vuoti e nella sua mente, per quanto ci provasse, non entrava l’idea dell’affollamento e il volontario aggregarsi a cui sembravano tanto affezionati gli uomini e le donne delle altre tribù.
Gacel riceveva con piacere i visitatori e amava riunirsi intorno al fuoco a raccontare vecchie storie e a commentare i piccoli incidenti della vita quotidiana, ma poi, quando la brace si era consumata e il nero cammello che trasportava sulle spalle il sonno attraversava silenzioso e invisibile l’accampamento, ciascuno si ritirava nella sua tenda, a vivere da solo la sua vita, a respirare profondamente, a godere del silenzio.
Nel Sahara ciascun uomo aveva il tempo, la pace e l’atmosfera necessari per incontrarsi con se stesso, guardare lontano e dentro di sé, studiare la natura che lo circondava e meditare su quanto conosceva attraverso i testi sacri. Invece nelle città, nei villaggi e perfino nei paesucoli barbari non c’era pace, né tempo, né spazio; era tutto uno stordirsi con rumori e problemi altrui, con voci e risse di estranei e si aveva l’impressione che fosse molto più importante ciò che accadeva agli altri, di ciò che poteva accadere a se stessi.
«Non lo so», ammise infine contrariato. «Non ho potuto mai scoprire perché alla gente piace agire in questo modo, ammucchiarsi e vivere dipendenti l’uno dall’altro. Non lo so», ripetè, «e non ho mai trovato nessuno che lo sapesse con esattezza.»
La ragazza lo guardò a lungo, quasi adombrata che l’uomo che costituiva la sua vita e dal quale aveva appreso il valore del sapere non avesse la risposta a una delle sue domande. Da quando aveva l’uso della ragione, Gacel era stato tutto per lei. Dapprima era stato il
padrone che una bambina della razza schiava degli akli ammirava come un essere quasi divino, padrone assoluto della sua vita e delle sue proprietà, padrone anche della vita dei suoi genitori, dei suoi fratelli, dei suoi animali e di tutto quanto esisteva sulla faccia della terra. Poi fu l’uomo che, quando lei giunse alla pubertà ed ebbe il suo primo ciclo, la fece diventare donna, la chiamò nella sua tenda e la possedette facendola gemere di piacere come sentiva durante le notti, quando soffiava il vento dell’Ovest, che gemevano le altre schiave; e infine fu l’amante che la trasportò volando in paradiso, suo autentico signore, ancora di più di quando era il suo padrone, poiché adesso possedeva anche la sua anima, i suoi pensieri, i suoi desideri, fino al più nascosto e dimenticato dei suoi istinti.
Indugiò nel parlare e, quando stava per farlo, fu interrotto dalla presenza del maggiore dei figli del suo sposo che si avvicinava correndo dalla più lontana delle sheribas.
«La caramella sta partorendo, padre», disse. «E gli sciacalli girano intorno...»
Comprese che i fantasmi dei suoi timori prendevano corpo quando distinse all’orizzonte la colonna di polvere che si alzava, rimanendo a lungo sospesa neH’aria, immobile, poiché neanche un soffio di vento scivolava sul mezzogiorno della pianura. I veicoli, perché di veicoli meccanici si doveva trattare data la velocità con cui avanzavano, lasciavano dietro di loro una sporca traccia di fumo e di terra nella limpida aria del deserto.
Poi udì il tenue rombo dei motori, che più tardi divenne un ruggito, spaventando i colombi, i fenec e i serpenti, per finire con uno stridere di freni, voci alterate e ordini violenti quando si fermarono trascinando polvere e sporcizia, a non più di quindici metri dall’accampamento.
Tutto ciò che era vivo e in movimento si fermò a guardarli. Gli occhi del targuf, di sua moglie, dei suoi figli, dei suoi schiavi e perfino dei suoi animali erano inchiodati sulla colonna di polvere e sul colore bruno scuro dei mostri meccanici; bambini e schiavi retrocessero intimoriti, mentre le schiave si andavano a nascondere nel più profondo delle loro tende, lontano dalla vista degli estranei.
Gacel avanzò lentamente, si coprì il viso con il velo distintivo della sua condizione di nobile imohag rispettoso delle tradizioni e si fermò a metà strada tra i nuovi arrivati e la più grande delle sue jaimas, come per indicare, senza parole, che non dovevano avanzare se lui non avesse dato il permesso e non li avesse accolti come ospiti.
La prima cosa che avvertì fu il grigio sporco delle uniformi coperte di sudore e polvere, l’aggressività metallica di fucili e mitragliatrici e il crudo odore di stivali e di cuoio. Poi il suo sguardo cadde, con sorpresa, sull’uomo alto dal mantello azzurro e dal turbante. Riconobbe in lui Mubarrak-ben-Sad, imohag appartenente al Popolo della Lancia, uno dei più abili e coscienziosi conoscitori del deserto, famoso nella regione quasi quanto lui stesso, Gacel Sayah il Cacciatore.
«Metulem, metulem», salutò.
«Aselam aleikum», rispose Mubarrak. «Cerchiamo due uomini. Due stranieri.»
«Sono miei ospiti», rispose con calma «e sono ammalati.»
L’ufficiale che sembrava comandare la truppa avanzò di alcuni passi. Le sue stellette brillavano sul braccio quando cercò di allontanare il targui, ma questi lo fermò con un gesto, tagliandogli la strada verso l’accampamento.
«Sono miei ospiti», ripetè.
L’altro lo guardò sorpreso, come se non capisse a che cosa si stesse riferendo, e Gacel capì immediatamente che non era un uomo del deserto; i suoi gesti e il suo modo di guardare parlavano di mondi e città lontane. Si voltò verso Mubarrak e questi comprese, perché si rivolse all’ufficiale.
«L’ospitalità è sacra tra di noi», disse. «Una legge più antica del Corano.»
Il militare dalle stellette sul braccio rimase per alcuni istanti indeciso, quasi incredulo per l’assurda spiegazione, poi cominciò a camminare di nuovo.
«Io rappresento la legge qui», disse tagliente. «E non ne esiste altra.»
Era già passato quando Gacel lo afferrò per il braccio, con forza, e lo obbligò a voltarsi e a guardarlo negli occhi.
«La tradizione ha migliaia di anni e tu appena cinquanta», mormorò mordendo le parole. «Lascia in pace i miei ospiti!»
A un gesto del militare i grilletti di dieci fucili risuonarono, il targuf intuì che le bocche delle armi erano puntate sul suo petto e comprese che ogni resistenza era inutile. L’ufficiale scansò con un gesto brusco la mano che ancora lo stringeva e, sfoderando la pistola che pendeva dalla sua cintura, continuò a camminare verso la più grande delle tende.
Entrò e un minuto dopo si sentì una detonazione, secca e dura. Uscì e fece un gesto a due soldati che corsero dietro di lui. Quando riapparvero, trascinavano in mezzo a loro il vecchio che scuoteva la testa e piangeva sommessamente come se fosse passato da un lungo e dolce sogno alla dura realtà.
Passarono davanti a Gacel e salirono sui camion. Dalla cabina l’ufficiale lo guardò con severità e indugiò per alcuni istanti. Gacel temette che la profezia della vecchia Khaltoum non si sarebbe verificata e lo avrebbero ammazzato proprio lì, nel cuore della pianura, ma alla fine l’altro fece un gesto al guidatore e i camion si allontanarono nella direzione da cui erano giunti.
Mubarrak, Vimohag del Popolo della Lancia, salì sull’ultimo veicolo e i suoi occhi rimasero fissi su quelli del targuf fino a che la colonna di polvere lo nascose. Gli bastarono alcuni istanti per capire quello che passava nella mente di Gacel ed ebbe paura. Non è bene umiliare un imohag del Popolo del Velo, lo sapeva. Non è bene umiliarlo e lasciarlo in vita.
Ma non sarebbe stato bene neanche ucciderlo e scatenare così una guerra fratricida fra tribù. Gacel Sayah aveva amici e parenti che si sarebbero dovuti lanciare nella lotta per vendicare con il sangue il sangue di chi aveva cercato di far rispettare le antiche leggi del deserto.
Da parte sua Gacel rimase molto calmo, osservando il convoglio che si allontanava fino a quando la polvere e il rumore si persero completamente in lontananza. Poi, lentamente, si incamminò verso la sua grande jai ma intorno alla quale già si raggruppavano i suoi figli, sua moglie, i suoi schiavi. Non aveva bisogno di entrare per sapere che cosa avrebbe trovato. Il giovane si trovava nello stesso punto in cui lo aveva lasciato dopo la loro ultima chiacchierata, colto nel sonno dalla morte. Solo un piccolo cerchio sulla fronte lo faceva sembrare diverso. Lo osservò con pena e rabbia per un lungo istante, poi chiamò Suilem.
«Sotterralo», disse, «e prepara il mio cammello.»
Per la prima volta nella sua vita Suilem non eseguì l’ordine del suo padrone e un’ora dopo entrò nella tenda e si gettò ai suoi piedi cercando di baciargli i sandali.
«Non lo fare!» supplicò. «Non servirà a niente.»
Gacel scostò contrariato il piede.
«Credi che debba accettare una simile offesa?» domandò con voce roca. «Credi che potrei continuare a vivere in pace con me stesso dopo avere permesso cheuccidessero uno dei miei ospiti e si portassero via l’altro?»
«Che cos’altro potevi fare?» protestò. «Ti avrebbero ammazzato.»
«Lo so. Ma adesso posso vendicare l’affronto.»
«E che cosa otterrai?» domandò il negro. «Ridarai la vita al morto?»
«Ricorderò che non si può offendere impunemente un imohag. Questa è la differenza tra quelli della tua razza e noi, Suflem. Voi akli accettate le offese e le oppressioni e siete contenti di essere schiavi. Ve lo portate nel sangue, di padre in figlio, di generazione in generazione. E sempre sarete schiavi.» Fece una pausa e accarezzò la lunga sciabola che aveva tirato fuori dalla cassa in cui teneva riposte le cose più preziose. «Ma noi tuareg siamo una razza libera e guerriera, che è rimasta così perché non ha mai permesso un’umiliazione né un affronto.»
Scosse la testa. «E non è ora di cambiare.»
«Ma loro sono tanti», protestò. «E forti.»
«Certamente», ammise il targuf. «E così deve essere. Solo il vigliacco affronta chi sa più debole di lui. perché la vittoria mai lo nobiliterà. E solo lo stupido lotta con un suo pari, perché in questo caso solo un colpo di fortuna deciderà la battaglia. L’imohag, l’autentico guerriero della mia razza, deve affrontare sempre chi è più forte, perché se la vittoria gli sorride il suo sforzo sarà mille volte ricompensato e potrà continuare il suo cammino orgoglioso di se stesso.»
«E se ti uccidono? Cosa sarà di noi?»
«Se mi uccidono il mio cammello galopperà direttamente verso il paradiso che Allah promette, perché è scritto che chi muore in una battaglia giusta ha assicurata l’eternità.»
«Ma non hai risposto alla mia domanda», insistè il
negro. «Che sarà di noi? Dei tuoi figli, della tua sposa, del tuo bestiame, dei tuoi servi?»
Il suo gesto fu fatalista.
«Ho forse dimostrato che posso difenderli?» domandò. «Se consento che uccidano uno dei miei ospiti, non accetterò anche che violentino e uccidano la mia famiglia?» Si inchinò e con un gesto deciso lo obbligò a mettersi in piedi. «Va’ a prepararmi il cammello e le armi», ordinò. «Me ne andrò all’alba. Poi ti occuperai di smontare l’accampamento e di portare la mia famiglia lontano, al guelfa dell’Huaila, là dove morì la mia prima sposa.»
L’ALBA arrivò preceduta dal vento.
Il vento annunciava sempre l’alba nella pianura e il suo ululare nella notte si trasformava quasi in un pianto amaro un’ora prima che un raggio di luce facesse la sua apparizione nel cielo, oltre i rocciosi pendìi di Huaila.
Ascoltò con gli occhi aperti, contemplando il tetto della sua jaima con le strisce ben conosciute e gli sembrò di vedere i cespugli che correvano liberi sulla sabbia e sulle pietre, sempre di fretta, sempre in cerca di un luogo cui afferrarsi, una dimora definitiva che li accogliesse e li liberasse da quell’eterno vagare senza destino da un punto all’altro dell’Africa.
Attraverso la lattiginosa luce dell’alba, filtrata da milioni di piccoli granelli di polvere in sospensione; i cespugli apparivano dal nulla come fantasmi che volevano lanciarsi su uomini e animali per perdersi poi, come erano venuti, nell’infinito nulla del deserto senza frontiere.
«Deve esistere una frontiera da qualche parte. Sono sicuro...» aveva detto con un tono di disperata ansietà, e ora era morto.
A Gacel nessuno aveva mai parlato prima di frontiere perché non erano mai esistite tra i confini del Sahara.
«Quale frontiera può resistere con la sabbia e il vento?»
Girò il viso verso la notte e cercò di capire, ma non vi riuscì. Quegli uomini non erano criminali, ma uno era già stato sotterrato e l’altro se lo erano portato via, nessuno sa dove. Non si poteva uccidere nessuno tanto freddamente, per quanto grande fosse il suo delitto.
E ancor meno quando dormiva sotto la protezione e il tetto di un inmouchar.
C’era qualcosa di strano in quella storia, ma lui non riusciva a capire che cosa; solo un fatto era chiaro: la più antica legge del deserto era stata infranta e questo era qualcosa che un imohag non poteva accettare.
Si ricordò della vecchia Khaltoum e una mano gelata, la paura, gli si posò sulla nuca. Poi abbassò lo sguardo sugli occhi aperti di Laila che brillavano insonni nella penombra riflettendo l’ultima brace del focolare e sentì pena per lei; per i suoi quindici anni mal compiuti e il vuoto delle sue notti quando lui sarebbe partito. E sentì pena anche per se stesso per il vuoto che avrebbe riempito le sue notti quando lei non sarebbe stata al suo fianco.
Le accarezzò i capelli e lei gradì il gesto come un animale, aprendo ancor più i suoi grandi occhi di gazzella impaurita.
«Quando tornerai?» mormorò, più come supplica che come domanda.
Negò con la testa. «Non lo so», ammise. «Quando avrò fatto giustizia.»
«Che cosa significavano quegli uomini per te?»
«Niente», confessò. «Niente fino a ieri. Ma non si tratta di loro. Si tratta di me stesso. Tu non puoi capire.»
Laila capiva, ma non protestò. Si limitò ad accostarsi ancora di più a lui, come in cerca della sua forza o del suo calore, e allungò le mani neirultimo tentativo di trattenerlo quando lui si mise in piedi e s’incamminò verso l’uscita.
Fuori il vento continuava a piangere sommessamente. Faceva freddo e si avvolse nel suo jaique mentre un brivido inarrestabile gli scendeva lungo la schiena, non seppe mai se per il freddo o per lo spaventoso vuoto della notte che si apriva davanti a lui. Era come immergersi in un mare tinto di nero. In quel momento Suflem uscì dall’oscurità e gli tese le redini di R’Orab.
«Buona fortuna, padrone», disse, poi scomparve come se non fosse esistito.
Gacel obbligò l’animale a inginocchiarsi, salì sulla groppa e con il tallone lo colpì piano sul collo.
«Shiaaaaa!» ordinò. «Andiamo.»
L’animale lanciò un grido di cattivo umore, si alzò pesantemente e rimase ben saldo sulle sue quattro zampe, muso al vento, aspettando.
Il targuf lo orientò verso nordovest e conficcò di nuovo il tallone con più impeto perché cominciasse la marcia.
All’entrata della jaima si stagliò un’ombra più densa delle altre, più scura. Gli occhi di Laila brillarono nuovamente nella notte mentre cavaliere e cavalcatura scomparivano come spinti dal vento e dai cespugli.
Il vento spirava sempre più forte, sapendo che presto la luce del sole sarebbe venuta a calmarlo.
Non era ancora giorno e non c’era neanche quella penombra lattiginosa che permetteva di distinguere appena la testa del cammello, ma Gacel non aveva bisogno di nulla. Sapeva che non esisteva alcun ostacolo per centinaia di chilometri intorno a lui e il suo istinto di uomo del deserto, la sua capacità di orientarsi, perfino con gli occhi chiusi, gli indicavano la direzione anche nella notte più profonda.
Quella era una virtù che solo lui e quelli che, come lui, erano nati e cresciuti nel deserto possedevano. Come i piccioni viaggiatori, come gli uccelli migratori, come le balene nel più profondo degli oceani, il targui sapeva sempre dove si trovava e dove si stava dirigendo, come se un antichissimo senso, atrofizzato nel resto degli esseri umani, si fosse mantenuto attivo ed efficiente unicamente in loro.
Nord, sud, est e ovest; pozzi, oasi, strade, montagne, terre vuote, fiumi di dune, pianure rocciose... tutto l’universo delle immensità sahariane sembrava riflettersi come un’eco nel fondo del cervello di Gacel, senza che lui lo sapesse, senza che ne prendesse piena coscienza.
Il sole lo sorprese sul dorso del suo mehari e andò alzandosi sulla sua testa, sempre più forte, facendo tacere il vento, schiacciando la terra, calmando la sabbia e i cespugli che non correvano più da una parte all’altra, tirando fuori dalle loro tane i ramarri e lasciando a terra gli uccelli che non si arrischiavano neanche a volare quando arrivò infine al suo zenit.
Il targui scese allora dalla sua cavalcatura, obbligò l’animale a inginocchiarsi e infilzò nella terra la lunga sciabola e il vecchio fucile che servirono da supporto, assieme alla croce della sella, per un rozzo e piccolo tetto di grossa tela. Si rifugiò sotto la sua ombra, appoggiò la testa sulla bianca schiena del mehari e si addormentò.
Lo svegliò, palpitando nelle narici, il più desiderato degli odori del deserto. Aprì gli occhi e rimase immobi
le, aspirando l’aria, senza voler guardare verso il cielo, timoroso che tutto fosse un sogno, ma quando alla fine girò la testa verso ovest, la vide. Copriva l’orizzonte, grande, scura, promettitrice e piena di vita, diversa da quelle bianche, alte e come mendicanti che di tanto in tanto giungevano dal Nord per perdersi di vista senza portare la più vana speranza di pioggia.
Quella nuvola grigia, bassa e splendente, sembrava occultare nel suo seno tutti i tesori di acqua dell’universo ed era, probabilmente, la più bella che Gacel fosse riuscito a vedere negli ultimi quindici anni, forse dalla grande tempesta che precedette la nascita di Laila, quella che aveva indotto la vecchia Khaltoum a predire un tetro futuro perché l’acqua desiderata si era trasformata in alluvione che aveva trascinato jaimas e a nimali, aveva distrutto coltivazioni e affogato una cammella.
R’Orab si agitò inquieto. Girò il suo lungo collo e orientò il muso ansioso verso la cortina di acqua che avanzava alterando la luce e trasformando il paesaggio, poi emise sommessamente un suono rauco di enorme gatto soddisfatto. Gacel si alzò lentamente in piedi, gli tolse i finimenti e si spogliò dei vestiti che stese ordinatamente su cespugli perché ricevessero tutta l’acqua possibile. Poi, nudo, aspettò in piedi che le prime gocce cadessero sulla sabbia e sulla terra coprendo di cicatrici il volto del deserto e che arrivasse l’acqua in ondate, inebriato nell’ascoltare il dolce ticchettio che si trasformava in frastuono, sentendo sulla pelle la tiepida carezza della pioggia, gustandone la freschezza limpida e chiara e aspirando l’agognato profumo della terra bagnata dalla quale si alzava un vapore denso e conturbante.
Era finalmente l’unione meravigliosa e feconda e, presto, con il sole di quello stesso giorno, l’addormentar to seme dzWacheb si sarebbe svegliato violentemente, avrebbe coperto la pianura di verde e avrebbe trasformato l’arido paesaggio nella più bella delle regioni, fiorendo solo per qualche giorno per immergersi poi in un nuovo e lungo sonno fino alla prossima tempesta che forse avrebbe tardato altri quindici anni.
Era bello Yalheb libero e selvaggio, incapace di nascere in terra coltivata, né vicino a un pozzo, né sotto la mano attenta del contadino che lo irrigava giorno dopo giorno; l’unico capace di rimanere, come lo spirito del popolo dei tuareg, secolo dopo secolo attaccato a una distesa di sabbia o a una pietraia che il resto degli uomini aveva abbandonato da sempre.
L’acqua bagnò i suoi capelli e sciolse dal suo corpo la sporcizia di mesi e forse di anni. Si sfregò con le unghie, cercò una pietra piatta e porosa con la quale si strofinò, vedendo come si andavano delineando sulla sua pelle macchie sempre più chiare a mano a mano che la crosta di terra, di sudore e di polvere si staccava e l’acqua correva azzurra, quasi indaco, verso i suoi piedi, poiché il rozzo colore dei suoi vestiti aveva impregnato col tempo ogni centimetro del suo corpo.
Per due lunghe ore rimase sotto la pioggia, felice e tremante, lottando con se stesso per non ritornare a casa, utilizzare l’acqua, piantare l’orzo, aspettare la mietitura e sfruttare, insieme con i suoi, quel dono meraviglioso che Allah aveva voluto mandargli, forse un invito a rimanere lì, in quello che era il suo mondo, e dimenticare un affronto che neanche tutta l’acqua di quella nuvola avrebbe potuto lavare.
Ma Gacel era un targuf; forse, per disgrazia, l’ultimo degli autentici tuareg della pianura e sapeva che non avrebbe mai dimenticato che un uomo indifeso era stato assassinato sotto il suo tetto e un altro, suo ospite, era stato portato via con la forza.
Per cui, quando la nube si allontanò verso sud e il sole della sera asciugò il suo corpo e i suoi indumenti, si vestì di nuovo, mise la sella al suo animale e riprese il cammino voltando per la prima volta le spalle all’acqua e alla pioggia; alla vita e alla speranza; a qualcosa che solo una settimana prima, solo due giorni prima, avrebbe riempito di gioia il suo cuore e quello dei suoi.